Duecento anni fa nasceva Herman Melville.
Autore di “Moby Dick”, certo. Ma anche di “Bartleby lo scrivano”. Principio di ogni ribellione contro il dio denaro. Emblema del dissenso attuale.
Duecento anni: tanti ne sono passati dalla nascita di Herman Melville, il primo agosto del 1819 a New York da Allan Melville e Maria Gansevoort. Ne avevo appena compiuti quattordici quando, per il mio compleanno, mi venne regalato “Moby Dick” nella celebre traduzione di Cesare Pavese, che ancora oggi nelle conversazioni che di tanto in tanto si accendono intorno a quel romanzo straordinario fa sì che a un certo punto qualcuno se ne esca con la frase: “Beh, si sa, c’è il Moby Dick di Melville e quello di Pavese”. Già. Ma purtroppo per me all’epoca, correva l’anno 1979, e al cinema era appena uscito “Apocalypse Now” di Coppola. Moby Dick non mi attirava. Ero troppo giovane per capire la grandezza smisurata, per non dire biblica, di quel romanzo-mondo che era al tempo stesso, tra le mille altre cose, un incredibile catalogo di balene, un trattato sulla morte, la storia di un’ossessione e la metafora del fallimento e della finitezza di ogni essere umano. E di anni dovettero passarne altri quindici prima che finalmente affrontassi la sfida di quel “Chiamatemi Ismaele”.
Nel frattempo avevo pubblicato il mio primo romanzo e, grazie a Gianandrea Piccioli, all’epoca direttore editoriale della Garzanti, m’imbattei in un’altra opera di Melville. “Tu che nel tuo “Tutti giù per terra” hai messo questo Walter che dice sempre di no, lo hai mai letto di Melville “Bartleby lo scrivano”?. Ammisi di non aver ancora mai letto né quello né Moby Dick. “Allora leggili tutti e due. Ma comincia dal Bartleby”. Saggio consiglio. Fu così che m’innamorai dapprima di quel personaggio che si ostinava a rispondere “preferirei di no” alle richieste del suo datore di lavoro e in ultima analisi del mondo intero, e poi di tutto l’equipaggio del Pequod, oltre che naturalmente della terribile Balena Bianca.
Bartleby lo scrivano. Così attuale con quel suo “preferirei di no”, usato un paio di anni fa da Giorgio Boatti per raccontare le storie dei dodici professori che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo e trasformato pochi mesi fa, in occasione del festival Torino Spiritualità, in un più deciso “Preferisco di no”. Pubblicato in origine in forma anonima in due puntate sulla rivista Putnam’s Magazine col titolo “Bartleby lo scrivano”: una storia di Wall Street, il racconto vede al centro della scena per l’appunto Bartleby, che ha un aspetto decoroso ma tutto sommato squallido, dapprima svolge al meglio le sue mansioni di copista, soddisfacendo le richieste del datore di lavoro. Quando questi però gli chiede di fare qualcosa che esula dai suoi compiti, si limita a rispondere “preferirei di no”. Lì per lì l’avvocato resta basito, ma il suo sconcerto aumenta quando Bartleby comincia a rifiutarsi di svolgere anche solo il lavoro per cui è stato assunto, rispondendo alle insistenze del principale con il suo preferirei di no. Risposta che darà anche in seguito, quando –dopo essere stato giocoforza licenziato- Bartleby si rifiuterà di allontanarsi dallo studio legale, visto che non ha né una casa né degli amici ai quali chiedere ospitalità. Esasperato dalla presenza inquietante di Bartleby, il titolare dello studio decide di trasferire altrove la sua attività.
Quanto a Bartleby, sceglie di rimanere negli ambienti dell’ex studio legale, e non se ne va nemmeno all’arrivo dei nuovi inquilini, che invitano l’avvocato a riprenderselo. Ma anche quando l’ex datore di lavoro arriva a proporre a Bartleby di ospitarlo in casa sua, questi gli risponde che preferisce evitare cambiamenti. Arrestato in seguito alla denuncia dei nuovi inquilini, Bartleby finisce in prigione. Il narratore va a trovarlo, ma Bartleby non ha nulla da dirgli. E nonostante l’avvocato lasci del denaro al vivandiere del carcere perché migliori il vitto del detenuto, Bartleby preferirà non nutrirsi, lasciandosi morire di fame. Struggente conclusione, che richiama la solitudine di un’intera vita di Melville stesso. Come rivela la sua biografia.
Allan Melville, il padre dello scrittore, nella New York dei primi decenni dell’Ottocento importava tessuti dalla Francia. La città spalancata sull’Atlantico e brulicante di marinai forniva non solo occasioni di guadagno ma anche una notevole scorta di storie, che poi l’uomo riportava in famiglia. E pare siano stati questi racconti ad accendere nel terzogenito quella voglia di avventura che lo portarà a imbarcarsi per la prima volta su una baleniera appena ventunenne nel 1840, a bordo della Acushnet. Anche perché intanto nel 1832 il padre era morto, lasciando moglie e figli in ristrettezze economiche. Proprio per questo, il giovane Herman si era trovato un primo impiego come insegnante, e nel 1839 era diventato marinaio su un mercantile, il St. Lawrence. Ma su quella nave preposta al trasporto delle merci non aveva resistito a lungo: troppo forte il fascino esercitato su di lui dalla baleneria –cosa che per la nostra sensibilità può suonare sgradevole se non irritante, alla pari della passione di Hemingway per la corrida: ma per entrambi si trattava di studiare da vicino la morte, di cui poi avrebbero scritto.
Melville non fece ritorno in patria se non nel 1844, quando venne sbarcato a Boston. In quei quattro anni aveva doppiato Capo Horn e visto coi propri occhi le Galapagos e Tahiti, salvo poi disertare abbandonando la Acushnet e dandosi alla macchia per imbarcarsi sulla baleniera australiana Lucy Ann e arrivare fino alle Haway e alle isole della Società, e infine, dopo aver partecipato a un ammutinamento, si era arruolato nella Marina militare trovando posto sulla fregata USS United States. Ma in quella girandola di avventure, tra cacce alla balena, tempeste e soste sulle isole Marchesi nella Polinesia che sarà amata da Gauguin, aveva raccolto il materiale necessario per scrivere il primo romanzo, “Typee”, che pubblicato nel 1846 divenne un best seller. Fu grazie al successo di quel libro dell’esordio, uscito dapprima in Inghilterra e in un secondo momento in patria per essere elogiato nientemeno che da Nathaniel Hawthorne, che Melville riuscì a sposare Elizabeth Shaw, ragazza dell’alta borghesia bostoniana orfana di madre e figlia di un amico del padre di Herman. E proprio come poi sarebbe toccato a Fitzgerald, anche a Melville il destino riservò, dopo una manciata di anni coronati dalla gloria letteraria, quelli in cui il pubblico dei lettori si dimenticò di lui. Complice la freddezza con cui vennero accolte altre sue opere –a cominciare incredibilmente proprio da “Moby Dick”, che quando uscì nel 1851 con tanto di dedica a Hawthorne si rivelò un autentico flop, raccogliendo critiche negative in Inghilterra e negli Usa e vendendo appena 3215 copie nell’arco di 34 anni- Melville fu costretto a fare i conti con seri problemi finanziari, che in un primo momento cercò di tamponare alla Mark Twain, improvvisandosi conferenziere. Fu la moglie a trovargli per mezzo di amici un impiego stabile presso la dogana di New York. Ma l’insuccesso, la morte di due figli di cui uno suicida e il bere ne intaccarono la stabilità emotiva, rendendolo soggetto ad attacchi d’ira che sfogava innanzitutto in famiglia.
Fu così che Elizabeth decise di andarsene, pur restando in contatto con lui, e che Melville morì solo nel 1891, all’età di 72 anni, dopo aver tentato inutilmente di ritrovare i lettori che aveva perduto virando sulla poesia e lasciando tra le sue carte il romanzo incompiuto “Billy Budd”.
Bartleby, figura centrale di quello che dopo la morte di Melville è diventato uno dei racconti più celebri della letteratura americana, anticipa col suo reiterato e inscalfibile preferirei di no i personaggi e i temi di Kafka, Beckett e Camus, ma anche il protagonista di “Fame” di Hamsun, con la sua ribellione nei confronti di una società avviata verso il trionfo del dio denaro.
Ci sarebbe voluto un Bartleby per dire di no innanzitutto a una globalizzazione e a un liberismo che dietro la falsa promessa di un benessere diffuso non hanno fatto altro che aumentare a dismisura quelle disuguaglianze che sono all’origine di questo nostro complicato presente. Ma dire di no ha un costo che non tutti sono disposti a pagare.
Giuseppe Culicchia
Questo articolo di Giuseppe Culicchia è stato pubblicato nell’Espresso del 7 aprile 2019, alle pp. 57-60.
“Sempre nel 2019 è stata pubblicata una biografia di Melville, rigorosa ma anche piacevolmente narrativa. L’autore è Paolo Parisi Presicce, il libro è edito da Mimesis. L’autore osserva che il viaggio per mare è già metafora dell’avventura e dell’immaginazione, un’oscillazione continua tra ordine e disordine, rotta e fuori rotta. Melville apprende l’arte dell’affabulazione raccontando storie ai marinai. La sua scrittura è un moto continuo come il mare, una sperimentazione incessante di stili e di forme, destinata all’insuccesso di fronte alle aspettative limitate dei lettori di provincia. La parabola del suo destino sembra svolgersi tra un’inesauribile pagina bianca –personale versione dell’ossessionante balena, i cui arpioni conficcati sul dorso sono i pennini di una scrittura sempre più profonda, laconica e intensa- e il silenzio ultimo di Bartleby lo scrivano”.
Gennaro Cucciniello