E’ stato Berlusconi a fare il Sessantotto
La tesi è paradossale (ma non troppo): il Cavaliere ha realizzato le idee rivoluzionarie degli anni ’60. A modo suo…
Nel “Venerdì di Repubblica” dell’11 agosto 2023 Massimiliano Panarari, alle pp. 94-5, commenta il saggio di Mario Perniola.
Uno studioso originale e un filosofo eretico, di sinistra ma non marxista, che aveva attraversato le culture politiche della contestazione degli anni Sessanta e Settanta. Proprio come uno dei suoi oggetti di analisi preferiti, il situazionismo –e, difatti, con l’omonima Internazionale di Guy Debord aveva avuto contatti ravvicinati. Mario Perniola (1941-2018) ha portato nel pensiero italiano del secondo Novecento e dei primi Duemila una serie di visuali inedite e di prospettive di analisi molto interessanti. E capaci di stabilire genealogie e collegamenti tra fenomeni e processi insospettabili: come Silvio Berlusconi e il Sessantotto. Un filo rosso (o forse di altro colore, a questo punto…) che Perniola dipanò in un libro del 2011, ora ripubblicato in una nuova edizione da Mimesis: “Berlusconi o il ’68 realizzato”. Una casa editrice di famiglia per Perniola, che ne ha diretto “Agalma. Rivista di studi culturali e di estetica”, e tra i cui titoli si trovano una doviziosa collezione di testi sui (e di) situazionisti –tra cui proprio il suo “L’avventura situazionista” (2008).
Provocazione
Una tesi controcorrente, e argomentata anche in maniera provocatoria (e a tratti persino urticante) ma sempre serrata, quella sul berlusconismo, continuazione del sessantottismo con altri mezzi (e altri fini), che ha conosciuto ulteriori sviluppi (come in “Il Sessantotto realizzato da Mediaset” di Valerio Magrelli). Parlando con cognizione di causa, da osservatore partecipante di quella stagione, Perniola scrive a proposito del fondatore di Fininvest: “Per chi ha vissuto all’interno di quel movimento, non è difficile trovare in lui quella volontà di potenza, quel trionfalismo farneticante, quella estrema determinazione di destabilizzare tutta la società da cui il Sessantotto fu pervaso”. Ovvero, “con Berlusconi si chiude un periodo storico iniziato negli anni Sessanta, nel quale le basi logiche del pensare e dell’agire sono state sostituite da un sentire collettivo manipolato e delirante, lunatico e stravagante”. E ora che anche il trentennio berlusconiano si è chiuso con la scomparsa del suo protagonista queste riflessioni risultano di stringente attualità.
Slogan e iperattivismo
Nel berlusconismo il filosofo –a lungo professore di Estetica all’Università di RomaTor Vergata- legge l’inveramento di varie parole d’ordine del “Sessantotto-pensiero”, a partire dal celebre slogan “Non lavorate mai!” di Guy Debord (e, gira e rigira, sempre dalle parti del situazionismo si torna). Associare quell’esortazione all’iperattivo tycoon milanese, esponente idealtipico dell’inclinazione brianzola per il fare e il “ghe pensi mi!”, potrebbe apparire a prima vista un’assurdità, riconosce Perniola. Ma, per un verso, è come se lui –e gli altri ricchissimi protagonisti dell’ascesa del neoliberismo- avessero assorbito direttamente buona parte del lavoro esistente; una questione evidente oggi in seno a quella che assomiglia sempre più a una jobless society. Il Berlusconi che passa dal mattone all’etere è, sempre e comunque, denaro che genera denaro –al punto che l’autore racconta del suo curioso lapsus che gli impedisce di ricordare subito il cognome dell’imprenditore obbligandolo a fare una serie di associazioni mentali per arrivarci. Proprio perché lui è finanza che si fa astrazione (come il suo nome, che diviene evanescente e si smaterializza).
E il capitalismo finanziario è gioco, nell’accezione del filosofo Gadamer: un insieme di regole per finalizzare il profitto attraverso l’intrattenimento dagli anni Ottanta in avanti. Come pure costruzione di reti (e intrighi), di cui Berlusconi fu maestro: il capitalismo connessionista, che fa guadagnare e sviluppa nuovi business attraverso la massimizzazione delle relazioni. Ovvero dei network, e così arriviamo direttamente con un balzo dentro l’attuale economia digitale.
Ma lo spirito sessantottino (suo malgrado) di Berlusconi aleggia ovunque, nella fine della famiglia come in quella della scuola e dell’università, e della stessa borghesia, di cui il capitalismo neoliberale non ha più bisogno, e le cui professioni qualificate –dal professore al giornalista e al giudice- considera troppo costose e da ridurre ai minimi termini perché da parecchio ha bloccato l’ascensore sociale.
Intellettuali disprezzati
In buona sostanza, il signor B. si trova sempre a raccogliere l’onda lunga dei tardi anni Sessanta, rovesciandone il segno ma realizzandone le finalità sovversive. E’ il compimento, attraverso una rivoluzione spettrale, della destrutturazione dell’autorità e dell’autorevolezza di genitori, insegnanti ed esperti. Il disprezzo verso gli intellettuali (come nella Cina della rivoluzione culturale maoista) e la distruzione della sanità, considerata all’epoca una scienza borghese ossessionata dall’ospedalizzazione forzata, mentre già si diffondevano quelle suggestioni naturiste che tanta influenza avrebbero avuto sul fenomeno no-vax.
Insomma quello che non poté Ivan Illich è perfettamente riuscito a Silvio Berlusconi. E alla sua corte di post-sessantottini e pseudosituazionisti, oltre che di ex settantasettini, che tra gli anni Ottanta e Novanta ha creato la neotelevisione commerciale (come l’ha definita Umberto Eco), convertendo in riflusso edonistico il giovanilismo barricadero (e narcisistico) e l’anti-istituzionalismo del Maggio parigino. Perniola se la prende con il pensiero debole, identificato come ideologia di questo sommovimento, e foglia di fico di una generalizzata ignoranza –che in termini più politicamente corretti dovremmo definire smobilitazione cognitiva- preesistente al berlusconismo, ma da esso allargata a dismisura e strumentalizzata prima per ragioni commerciali e, in seguito, elettorali. E si scaglia contro i meccanismi dell’imperialismo comunicativo della società dell’immagine e dello spettacolo, che aveva magistralmente decostruito nel libro “Contro la comunicazione” del 2004.
E che le sue argomentazioni siano tutt’altro che peregrine lo dimostra proprio la tv berlusconiana, che si riempì di coloro che avevano voluto dare l’assalto al cielo ma hanno preferito espugnare il “palazz(ett)o d’inverno” dei tinelli e delle sale da pranzo degli italiani.
Massimiliano Panarari