Enzo Bianchi, “La vita e i giorni”. L’ora di andare.

Enzo Bianchi, “La vita e i giorni”, il Mulino

La bellezza e la poesia della nostra vita viste “ne l’ura d’andè”. La terza età, la fragilità del corpo, la scoperta della luce, la saggezza.

 

Quanto si può amare la vita? Perché il desiderio di vivere può essere così forte? Lo racconta Enzo Bianchi in un libro delicato e in certi passaggi struggente, dedicato –paradossalmente- alla vecchiaia, ovvero alla vita nella sua ultima stagione. E’, dunque, la vita e non la morte il vero protagonista di queste pagine. Tutto il cristianesimo radicale di Bianchi vi si condensa: nessuno gnosticismo, nessuna separazione tra l’anima e il corpo, nessuno spiritualismo ascetico, nessuna fuga, nessun culto penitenziale del sacrificio. E’ troppo ricco, troppo entusiasmante il dono della vita. La lezione cristiana per Bianchi è qui riassunta: non è la gloria di Dio a risplendere nell’alto dei cieli, né la dottrina dogmatica della teologia a rifletterne l’onnipotenza.

Il suo umanesimo non coincide con nessun antropocentrismo narcisistico, ma appare piuttosto come un cristocentrismo: Gesù insegna che Dio è radicalmente uomo e che per essere cristiani bisogna, più che servire sacrificalmente la domanda di un Dio spietato, imparare innanzitutto ad essere uomini. Dunque vivere la vita nella pienezza misteriosa del suo evento.

Per tale ragione risuona forte in queste pagine un canto appassionato per tutto il creato: i fiori, le pietre, gli alberi, le montagne, la propria cella di monaco, l’acqua, il vino, il cibo, i corpi e i volti degli amici. Tutto è preghiera, tutto è espressione dell’evento assoluto della vita. “L’eternità va cercata e afferrata oggi e qui”, canta Rimbaud citato.

Ma in tutto il creato è l’evento della luce che rapisce il vecchio monaco. Nulla più della luce mostra, infatti, l’evento assoluto della vita. E lo segnala proprio la vecchiaia, ovvero il tempo della vita dove gli occhi fanno sempre più fatica a trattenere la luce del mondo. L’amore per la luce è amore per l’apertura sempre aperta del mondo: “Ho amato la terra, l’acqua, ma la luce mi è stata ancora più cara”, scrive. E’ la luce delle chiese gotiche e romaniche dove essa sembra “penetrare attraverso le pietre”, è la luce di Santorini, del Peloponneso, di tutto il Mediterraneo, della Provenza, del monte dei venti, di Saint-Paul-de-Vence e della cappella di Matisse, dell’alba che ogni giorno ripete il miracolo della sua apparizione.

Nel tempo della vecchiaia la passione per la luce riflette la passione mai stanca del mondo. Un grido? Un’invocazione? Non è forse la luce il primo dono gratuito per chi viene al mondo…? Non è la luce che permette di vedere la terra e il mare, gli alberi e tutte le creature, ma soprattutto il volto delle persone amate?”. Tutto è degno di lode, non nonostante la vecchiaia ma soprattutto nella vecchiaia, nella vulnerabile e fragilissima decadenza della vita. La perdita di vigore del corpo, l’indebolimento della vista e dell’udito, la perdita del sonno ristoratore, la fame meno avida, il coraggio meno forte, il passo meno sicuro. La vecchiaia, ci dice Bianchi, assomiglia all’autunno. Per aggiungere subito che nessuna stagione è più dell’autunno ricca di poesia. Perché l’anziano monaco di Bose sa bene che la poesia è davvero tale solo se sa ospitare la ferita, la mancanza, la caduta, perché non esiste ars poetica se non per un’anima che ha conosciuto l’abbandono. La vecchiaia coincide con “l’ura d’andè”, come si dice nel vecchio piemontese del Monferrato dove Enzo è cresciuto. E’ l’ora di andare, dicevano i vecchi a fine serata congedandosi stanchi e in anticipo dal resto del gruppo. Perché questo è –l’ura d’andè– l’ultimo annuncio della vita. Il suo ultimo passaggio. Abbiamo, diceva l’ateo Sartre, un biglietto di sola andata. Non ci sarà alcun ritorno.

Lo ripete a suo modo anche Bianchi: abbiamo solo una vita, solo questa vita. Ma egli aggiunge che questo –diversamente da Sartre- non gli impedisce di credere alla promessa di Gesù: ci rivedremo ancora in un’altra vita; la morte non può essere l’ultima parola della vita; la vita è ancora vita al di là del muro della morte. La vecchiaia non è, dunque, l’ultima stazione del nostro viaggio. Essa ci conduce ancora altrove.

Eppure non è questo il punto sul quale Bianchi, diversamente da una certa tradizione del cristianesimo, insiste. Il suo problema non è tanto quello di prepararsi alla morte, ma di “aggiungere vita ai giorni e non giorni alla vita”. Il suo problema è come mantenere vivo il suo desiderio della vita. Imparare a lasciare la presa –“non poter più tenere in mano tutte le corde”– non significa rinunciare a vivere, rassegnarsi alla presenza imminente della morte. Al contrario: “lasciare la presa della vita” significa fare esperienza di un altro volto della vita dove camminare, leggere, ascoltare, vedere, ricordare diventano atti sempre più essenziali. Non è più la vita che virilmente si vuole impossessare del mondo, ma è la vita del mondo che si offre alla vita di chi finalmente può imparare ad accoglierne la bellezza. E’ la vita che nella vecchiaia può trovare l’occasione di accogliere l’evento del mondo senza la preoccupazione di trasformarlo.

La meditazione di Bianchi non è –spinozianamente- una meditatio mortis ma una meditatio vitae. E’ la sovrabbondanza della vita la vera promessa di eternità. Come gli alberi e le rocce moreniche lasciate dal ritiro dei ghiacciai che Enzo abbraccia con tenerezza come fossero sua madre perduta da piccolo. Per restare attaccato alla vita, per mescolare la sua vita alla vita della terra, per essere “adam”, che –come spesso la sua predicazione ricorda- traduce letteralmente l’essere terrestre dell’uomo, la sua appartenenza totale alla terra.

Anche nel tempo dove la fede può vacillare e i dubbi crescere, quello che salva –ripete Bianchi- è l’amore per Gesù. L’amore dell’amante per l’amato vale più di tutto l’amore che l’amante può ricevere. La gloria, mi disse una volta Enzo, è sempre innanzitutto “gloria dell’amante”. E’ la lezione memorabile del Cantico dei cantici con la quale il libro si chiude: “L’amore è più forte della morte, la passione più tenace degli inferi, l’amore è una fiamma divina”.

                                                                  Massimo Recalcati

 

 Articolo pubblicato in “Repubblica”, venerdì 13 aprile 2018, p. 39