Febbraio 1933: il mese che uccise l’intellettuale tedesco

Febbraio 1933: il mese che uccise l’intellettuale tedesco

 

Questo articolo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 3 febbraio 2023, alle pp. 94-95. Autore: Marino Freschi.

 

Ancora un paio di anni fa, il saggio di Uwe Wittstock, “Febbraio 1933. L’inverno della letteratura” (Marsilio) ci sarebbe sembrato un racconto di una storia lontana, ma recenti avvenimenti ci rendono cauti e insicuri come se quell’inverno del ’33 fosse una storia da cui possiamo di nuovo apprendere molto.

Il racconto di Wittstock, noto critico letterario tedesco, è un resoconto assai vivace, tra cronaca, gossip e tragedia: giorno dopo giorno si dipanano i destini dei protagonisti intellettuali della mitica Repubblica di Weimar, durata appena 14 anni, schiacciata dal Terzo Reich, quello millenario, che ne sarebbe durato 12. Eppure quei 26 anni sono indimenticabili, hanno segnato per sempre la tragedia tedesca e il dramma dell’Europa, ancora disorientata. La svolta è centrata nel febbraio 1933, anticipata dal gran ballo della stampa a Berlino di sabato 28 gennaio, dove si tentava di dimenticare, almeno per una notte, la tempesta di gelo che stava calando sopra la Germania. Il risveglio fu amarissimo: a fine mese (sono passati 90 anni) Hitler è nominato Cancelliere del Reich da Hindenburg, il presidente, ormai decrepito. E subito cambia la musica, come veniamo a sapere dai ritagli di giornale che l’autore inserisce a fine di ogni giornata a conferma della montante violenza impunita da parte delle camicie brune delle SA e di quelle nere delle SS. Il racconto si dipana fino al 15 marzo, con particolare intensità per i fatali giorni di metà febbraio.

In poco più di un mese quella che era una repubblica parlamentare, solida ancorché dilacerata dalle lotte intestine tra nazisti e comunisti, viene travolta dalle leggi speciali. Lo Stato era democratico a tal punto da non poter funzionare. Ciò sarà d’insegnamento alla nuova Repubblica federale tedesca, che inserirà nella Costituzione dei contrappesi come la sfiducia costruttiva e la clausola di sbarramento nella legge elettorale.

Wittstock ricostruisce le ultime giornate di 33 protagonisti del mondo intellettuale tedesco: quello dei Mann –Thomas, Heinrich, Klaus, Erika-, quello di Gottfried Benn, di Bertolt Brecht, di sua moglie Helena Weigel e della sua amante Margarete Steffin, e poi di Fallada, Feuchtwanger, Erich Kastner, Else Lasker-Schuler, Remarque, Roth, Zweig.

Un caleidoscopio di destini tragici, di fughe, carceri, lager, torture, crolli, suicidi e gesti eroici o coraggiosamente ironici, come “Bruciami!”, l’appello a Goebbels dello scrittore bavarese Oskar Maria Graf affinché metta al rogo anche i suoi libri, ingiustamente scampati alle fiamme. Così nel terrore finiva la Germania. Hitler riuscì a distruggere l’ultima grande stagione della civiltà intellettuale e letteraria tedesca e quell’immenso inverno continua a durare. La Germania si è ripresa economicamente, democraticamente, ma la sua egemonia culturale, fondata sulla simbiosi ebraico-tedesca, è tramontata (forse) per sempre.

L’emigrazione, l’esilio soprattutto negli Usa rappresentarono la grande chance per la cultura americana, per il decollo delle università, delle scienze, del cinema e delle arti in America. Né fu un caso se alla fine della guerra il massimo esponente della cultura tedesca, Thomas Mann, si rifiutò di tornare in Germania, salvo per tre brevissime visite. Heinrich, il fratello maggiore (l’autore del Suddito e dell’Angelo azzurro), alla fine della guerra, venne nominato presidente della nuova Accademia delle arti nella Ddr, la Germania comunista, ma morì alla vigilia del rientro: ora riposa nel cimitero di Dorotheenstrasse, a Berlino, non distante da Brecht (e da Hegel e Fichte), Helene Weigel, Anna Seghers e Christa Wolf; mentre Klaus, il figlio geniale di Thomas, si era suicidato a Cannes: anche lui aveva rifiutato di tornare in una patria che non era più patria. Doblin –l’autore di “Berlin, Alexanderplatz”– tornò, ma espatriò di nuovo subito amareggiato dalla nuova Germania, ancora in mano ai vecchi gerarchi a Ovest e agli stalinisti a Est, così fece Carl Zuckmayer.

Questi rifiuti segnano, nell’immane silenzio del dopoguerra, la svolta epocale: dopo il terrore nazista, dettagliatamente ricostruito nel resoconto, quella Germania dello spirito è stata per sempre distrutta. E non poteva essere altrimenti: scorrendo le biografie dei protagonisti della cultura di Weimar si percepisce, accanto a un assordante nichilismo, una mercuriale vivacità artistica e intellettuale che per qualche anno trionfò sugli orrori e sulle viltà, sul conformismo.

In quel breve mese avvenne, a mo’ di emblema della labilità delle istituzioni repubblicane, il tracollo della celebre Accademia delle Arti, che contava il fior fiore degli scrittori e pensatori della Germania. La descrizione delle vicissitudini dell’Accademia illustra tutta la debolezza morale della classe intellettuale, ormai terrorizzata da Hitler oppure lusingata, corrotta e comprata dai nuovi padroni. Molti di quelli che dovevano essere gli esempi della nazione si rivelarono piccoli uomini attenti solo al tornaconto personale: mantenere lo stipendio e il posto, come il segretario Oskar Loerke (peraltro raffinato poeta), o lo stesso presidente, Max von Schillings, mediocre musicista, ma fervido burocrate del nuovo regime; mentre Benn fu accecato per un anno dalle sirene naziste (ma nel 1934 venne proibito e perseguitato dai camerati del Nuovo Ordine). Chi ne esce integra è Ricarda Huch, una straordinaria scrittrice, legata anche all’Italia (con un romanzo su Trieste e una biografia di Garibaldi), come anche Heinrich Mann, Alfred Doblin, tutti travolti, ma non spezzati dal sabba demoniaco del terrore nazista. Con poche leggi il Fuhrer dà scacco matto alla democrazia tedesca.

Ciò che oggi impressiona è che la stragrande maggioranza dei tedeschi, perfino tra i critici più acuti, riteneva che la dittatura di Hitler fosse uno sgradevole episodio passeggero. Non ci si doveva preoccupare eccessivamente. Il racconto-romanzo di Wittstock è un resoconto di “storie di persone che hanno corso rischi estremi. Molti di loro non hanno voluto prendere atto del pericolo, lo hanno sottovalutato, sono stati troppo lenti a reagire”. Ma era inimmaginabile una dittatura nel Paese più colto del mondo. Tutto sarebbe durato solo un paio di mesi; l’antisemitismo, mera propaganda, senza conseguenze. Il “Mein Kampf” di Hitler: un pamphlet, per altro illeggibile, di volgare proselitismo. E invece sappiamo come è andata a finire.

Solo Joseph Roth, lo scrittore ebreo di lingua tedesca, comprese subito la gravità della situazione, come scrisse all’amico Stefan Zweig: “Andiamo incontro a grandi catastrofi. A prescindere da quelle di carattere privato –la nostra esistenza letteraria e materiale è distrutta-, tutto ciò condurrà a una nuova guerra. Non si faccia illusioni. L’inferno è al potere”. Consapevoli o meno, furono tutti trascinati nella rovina. Chi definitivamente, come Ernst Toller e Stefan Zweig che si suicidarono in esilio; chi si distrusse con l’alcol come Roth. Gli scrittori ebrei austriaci furono i più lucidi a intuire il disastro senza ritorno. A Zweig non rimase che scriverne il meraviglioso necrologio: “Il mondo di ieri”.

 

    Marino  Freschi