Fernando Pessoa (1888-1935), “E’ una brezza leggera”, 1922
E’ una brezza leggera
che l’aria un momento ebbe
e che passa senza avere
quasi avuto bisogno di essere. 4
Chi amo non esiste.
Vivo indeciso e triste.
Chi volli essere già mi dimentica.
Chi sono non mi conosce. 8
E in mezzo a questo l’aroma
portato dalla brezza, mi affiora
un momento alla coscienza
come una confidenza.
“E’ una brisa leve”
E’ una brisa leve
que o ar um momento teve
e que passa sem ter
quase que tido ser. 4
Quem amo nao existe.
Vivo indeciso e triste.
Quem quis ser jà me esquece.
Quem sou nao me conhece. 8
E em meio disto o aroma
que a brisa traz me assoma
um momento à consciencia
como uma confidencia. 12
da “Poemas”, 1921-1930
La prima strofa è la più difficile da tradurre: c’è una brezza così leggera che è come un’affezione dell’aria, come se l’aria avesse avuto un brivido. Passa senza “ter”, cioè tenere; “ter” in portoghese significa anche avere, come nei nostri dialetti meridionali (“tenho fome”, ho fame); ma esprime anche un dovere (“tenho que estudar”, devo studiare) e inoltre può funzionare da verbo ausiliare (“tenho dormido”, ho dormito). Qui il gioco in rima è tra i due ausiliari, poi c’è un bisticcio legato a ben tre forme del verbo tenere (“teve, ter, tido”, vv. 2-4): la brezza passa senza quasi aver avuto bisogno di essere. La brezza è stata avuta ma non ha avuto, è stata passiva e non attiva, e proprio nella sua passività ha vinto sull’aria che voleva trattenerla. Meno si esiste e più si è liberi. Se c’è un segreto in Pessoa, è dire con leggerezza le cose più gravi.
Questo testo sembra un idillio insignificante: una folata di vento, un po’ di profumo e di tristezza. Ma Pessoa non si limita a descrivere: lui è quella folata di vento. Come confessa in una lettera, una delle sue paure è sempre stata che la propria riconosciuta passività spirituale diventasse passività sessuale. Come la brezza, anche lui oscilla tra la tentazione di essere tutto (superiore al timore e alla speranza) e la voglia di sparire, di non essere niente. “Chi amo non esiste” (v. 5)–ma in altri testi ammette che essere amato gli dà fastidio. La rima “triste/esiste” (vv. 5-6) gli torna sotto la penna spesso, il fatto di esistere è tristezza. L’io è un incidente momentaneo, il vuoto d’aria che si crea tra una proiezione di sé e l’altra: “chi volli essere già mi dimentica” (v. 7). La tipica frase scettica “io non conosco chi sono” si rovescia in un inquietante “chi sono non mi conosce”, v. 8.
A sei anni il piccolo Fernando scriveva lettere a se stesso, firmandosi con un’altra identità. La sua infanzia era già finita: morto il padre, morto quasi in fasce il fratellino minore, la nonna paterna ricoverata in manicomio. A otto anni seguirà la madre, risposatasi con un diplomatico, in Sudafrica dove resterà fino ai diciassette; imparando l’inglese meglio degli inglesi, unico ormai della sua famiglia a chiamarsi Pessoa (che in portoghese significa “persona”). In quel trauma infantile sta forse la radice: tornato in patria e re-imparata la sua lingua come se fosse una lingua straniera, troverà la vocazione essendo non un unico poeta ma molti, “io sono un’antologia”. “Persona”, in latino e per Jung, vuol dire “maschera”. Pessoa inventa molte maschere (i cosiddetti eteronimi): ognuna ha nome e biografia, scrive poesie con calligrafia diversa e con uno stile proprio. Non sono parodie, sono poeti separati (e seri) che convivono dentro di lui: uno è un epicureo ammiratore di Orazio, uno è un quasi-futurista, uno è un appartato poeta di cose agresti. Litigano tra loro, si recensiscono a vicenda (non sempre benevolmente). E’ molto più che bravura letteraria, è un’esperienza ai confini della schizofrenia; all’unica fidanzata della sua vita (con la quale non farà mai sesso) Pessoa scrive lettere a nome di uno degli eteronimi, un omosessuale che la detesta e le parla male di Pessoa. La letteratura è una difesa contro la pazzia ma anche un modo per corteggiarla: “a forza di fingermi chi sono davvero / ormai disconosco chi davvero sono”.
I testi degli eteronimi talvolta sono belli ma rappresentano la poesia come postura; sono alibi, tecniche per espellere l’inautentico che gira nell’ambiente. Le poesie scritte da lui-lui (l’ortonimo, come dicono i critici) rappresentano la poesia come ferita. Il testo di questa pagina è una poesia ortonima; una musica fatta di niente, esasillabi a rima baciata che più melodici non si può (la musica è pericolosa perché è amica del perdersi, le poesie degli eteronimi non sono quasi mai in rima). Una semplicità che si avvita in una spirale d’abisso. Dopo aver detto in frasi lapidarie i paradossi dell’io, nell’ultima strofa il testo ritorna alla brezza e al suo profumo –anzi meno che un profumo, un aroma. Un’ipotesi di ricordo che affiora, “come una confidenza”, v. 12. E’ inutile teorizzare, darsi arie da dandy nichilista; fondare riviste d’avanguardia, lanciarsi in utopie millenaristiche o (come Pessoa ha pure fatto) appellarsi all’occultismo, alla teosofia, alle teorie massoniche dei Rosacroce. Quel che resta nel fondo è un’immedicabile solitudine; un bisogno tremendo di confidenza che, non potendo appoggiarsi a nessun essere vivente, si affida all’aria che passa.
Dal nirvana alla cirrosi epatica, di cui Pessoa morirà a 47 anni (il suo ultimo verso è “dammi più vino, che la vita è niente”). Alla fine della vita ha scritto poesiole feroci contro il dittatore Salazar ma nel 1928 aveva salutato la dittatura come l’unica soluzione possibile. Da quando il mondo lo ha rifiutato, a Pessoa non importa più niente del mondo: “la vita è tendere la mano a qualcuno? no, è scrivere bene una canzone”. Pensatore senza pensiero, nazionalista senza decisione: tra volere, essere, sognare, meditare, sentire, instaura un gioco combinatorio a somma zero da cui solo si salva il talento che ha avuto in dono. Poesia che ci attira nel gorgo, in una giostra di specchi che è la cognizione del male.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 16 febbraio 2014, p. 56