“Feste e spettacoli a Roma nei primi anni della Controriforma. 1565-1590.

“Feste e spettacoli nella Roma dei primi anni della Controriforma (1565-1590)

 

Questo testo è estratto da un capitolo della mia tesi di laurea, discussa nel lontano ottobre 1967, relatore il prof. Giovanni Macchia, correlatore il prof. Giorgio Melchiori, pp. 105-122. La ricerca si intitolava: “Il teatro e lo spettacolo a Roma durante i pontificati di Gregorio XIII e Sisto V”.

 

Si è visto, nei capitoli precedenti, che il teatro era solo un momento, e forse neanche il più importante, della festa; e vedremo oltre che il gusto generale del tempo si orientava verso altre forme di divertimento, complicate e apertamente spettacolari; del resto il fenomeno era antico ma in questi anni si enucleava con maggiore rilievo e con pompa più fastosa. Prevalendo ormai la festività carnevalesca, lo spettacolo aveva assunto una configurazione più definita: il meraviglioso scenografico riempiva di stupore nobili e popolo insieme; l’associazione di cortei, di gare e di teatro nell’unità complessa della festa rivelava lo spazio quotidiano della città, le vie le piazze i cortili. Ma la festa in generale conservava sempre due aspetti: il divertimento pubblico, al quale s’associava il popolo, incentrato soprattutto nel periodo di Carnevale, e quello riservato ai nobili che si svolgeva nei palazzi, nei parchi o nei giardini. La nobiltà, saldamente ancorata ad una situazione di sfrontato privilegio, aveva innalzato il “decoro” a prerogativa nobile ed eroica, come emblema e stile di un ceto superiore della società, che imponeva l’osservanza delle norme vigenti in una élite, che serviva a distinguerne i membri, che consigliava il conformismo, che era un impegno a rispettare lo status quo autoritario e classista. Le lunghissime guerre avevano prodotto una terribile stanchezza e una reale desolazione, ed in questo quadro l’avvenuta restaurazione delle corti e la rigida etichetta spagnola imposta alle convenienze sociali avevano causato una paurosa dissociazione tra la realtà sociale italiana e la vita delle sue classi dirigenti. Roma non si sottraeva a queste caratteristiche generali del tempo; anzi, l’alto tenore di vita dei suoi ceti abbienti, le numerose corti cardinalizie e nobiliari, la sua posizione di centralità e la composizione internazione dei suoi abitanti ne acuivano l’esemplarità. Se si pensa alle fortune considerevoli dei cardinali e dei grandi signori laici, alle spese inverosimili sostenute per una sola festa, si ha una riprova del tenore di vita e di sperpero della nobiltà romana e dell’alto grado di raffinata perfezione dei suoi divertimenti. Un “Avviso di Roma” dell’8 aprile 1600 riporta che il card. Aldobrandini aveva donato un banchetto nel palazzo del Quirinale al Viceré di Napoli, venuto a Roma in pellegrinaggio per l’Anno Santo, con 1500 invitati e che la spesa si era aggirata sui 5mila scudi (Cod. urbin. 1069, p. 213 recto). Fu superato dal card. Montalto che offrendo, pochi giorni dopo, allo stesso personaggio un ricevimento nei giardini di Villa Medici, era riuscito a spendere 7mila scudi (circa 205 chilogrammi di argento fino) (ibidem, 12 aprile 1600, pp. 223 recto e verso).

La varietà dei divertimenti. Questi solitamente consistevano in cacce, quintane, barriere, tornei, girandole, sfide all’anello, in giochi organizzati e curati in ogni minimo dettaglio. La caccia era ancora molto di moda, nonostante il progressivo disboscamento dei dintorni di Roma e la lenta sparizione dei cinghiali. Verso la metà del XVI secolo si cacciava ancora furiosamente: gli Avvisi riferiscono che i Carafa avevano più di 1300 cani e che il solo cardinale nipote ne aveva oltre 400. E la moda non venne meno negli anni seguenti. Ecco una cronaca del 1578: “Il medesimo giorno il card. de Medici con 150 cavalli fece la riserbata caccia del Pantano di Marcigliano del signor Francesco Orsino di Monterotondo, che fu bellissima et piacevole per essere in piano, dove furono alcuni Prelati con il signor Giovan Giorgio Cesarini, con preda di nove Caprj, di due porci cinghiali, di tre grossissimi lupi, et di molte lepri, et giovedì andò alla caccia della Muratella, et ammazzò quattro porci selvatichi d’honesta grandezza” (“Avviso di Roma”, 25 gennaio 1578, cod. urbin. 1046, Bibl. Vat.).

Accanto alla caccia erano di moda le quintane, le barriere, le giostre d’armi ed altri esercizi di abilità. I nobili romani, ne è testimone il Montaigne, erano molto bravi negli esercizi a cavallo e nei volteggi edulcorati. Les jantilshomes, en certein endret de la rue où les dames ont plus de veue, courent sur des beaus chevaus la quintaine, et y ont bonne grace: car il n’est rien que cete noblesse sache communémant bien faire que les exercises de cheval” (M. de Montaigne, “Journal de voyage”, a cura di M. Dedeyan, Les Belles Lettres, Paris, 1946, p. 249). Non ci si limitava però solo ad esercizi di abilità e di forza; erano frequenti anche i giochi con i tori, le lotte fra animali (solitamente fra cani ed orsi ma non mancava a volte il leone), i banchetti fastosi, le cene luculliane. “L’ambasciatore di Francia per dare qualche trattenimento a Mons. De Foys fece una caccia di toro nella sua piazza, combattuta da quattro cani, coll’intervento di molti signori, alcuni dei quali la sera furono banchettati con tre cardinali e cinque eccellenze” (“Avviso di Roma”, 7 febbraio 1574, cod. urbin. 1044). “Gio. Giorgio Cesarini nel suo giardino di S. Pietro in Vincola fece eseguire una giostra tra un toro ed un leone; furono presenti tutti i nobili e le dame della città, con alla testa Clelia, detta nido delle Veneri e degli Amori; et il lione, alle due scornate che hebbe nel primo assalto che diede al toro, si avvilì, et alli cani toccò di baruffarsi seco” (“Avviso”, 15 febbraio 1584, cod. urb. 1052). Le feste nobiliari, però, proprio per il loro esclusivismo, non incidevano che in parte sulle consuetudini generali della città.

Nel Rinascimento l’occasione della festività quasi sempre era data da due fattori: la celebrazione di un avvenimento memorabile e il Carnevale. Ma mentre il secondo elemento aveva assunto una dimensione ed una caratterizzazione precisi, nel tempo ed anche nello spazio, il primo trovava la sua occasione nei grandi fatti della vita politica (visite di sovrani, nozze tra membri di famiglie nobili) e nelle particolari tradizioni locali (la cavalcata del Senato romano, l’incoronazione di poeti in Campidoglio). Una entrata solenne, quasi un trionfo ricalcante quello degli antichi generali romani, la si ebbe nel novembre del 1572, in occasione del trionfale arrivo a Roma di Marcantonio Colonna, uno dei vincitori di Lepanto. Uno spettacolo inusitato fu poi l’arrivo solenne nella città dell’ambasciatore dello czar Ivan il Terribile, nel 1582: “Entrò giovedì sera in Roma l’internuntio moscovito, incontrato fin alla vigna di Giulio III, et accompagnato dal marchese di Arriano, con una bella Cavalcata concertata dal duca di Sora, et con cocchi et carrozze, senza però li soldati della guardia del papa, né di strepito di tamburi o trombe, ma sì bene col saluto di tutta l’artiglieria di Borgo e di Castello S. Angelo, che fece una salva duplicata; essendo d’ogni intorno per dove passava grandissimo concorso di gente da piedi et da cavallo, in cocchi et alle finestre, smontò al palazzo del card. Colonna, a santi Apostoli, addobbato alla grande, d’ordine del papa, dove si trovò anco parte della famiglia di S. B. per riceverlo, servirlo et spesarlo papalmente” (“Avviso di Roma”, 10 settembre 1582, cod. urbin. 1050). Queste relazioni diplomatiche tra Mosca e il Vaticano erano state volute da Gregorio XIII, nel quadro della sua vasta politica di penetrazione e di espansione del cattolicesimo, e più contingentemente per cercare di porre fine ai dissensi tra Ivan e il re di Polonia Stefano Bàthory. Un episodio curioso occorse all’ambasciatore russo qualche giorno dopo il suo arrivo. Ecco il racconto delle cronache: “Sono stati carcerati alcuni che cantando l’altra notte sotto le finestre del Moscovito dalla parte di dietro del palazzo del card. Colonna, quelle genti e l’Ambasciatore ancora si fecero alle finestre con i lumi a sentire, e quei di fuora facendo cenno che li levassero, essi stavano pur ostinati, onde furono tirati dalli cantatori alcuni sassi alla volta dei lumi, et perciò l’ambasciatore in collera l’ha fatto sapere a S. S.” (“Avviso”, 3 ottobre, ibidem).

Era però il carnevale il “clou” delle feste, un periodo di spensieratezza e di sfrenamento, che poco per volta, con graduale arricchimento, aveva raggiunto un marcato formalismo, una organizzazione-tipo, le cui principali componenti erano le maschere (capricciose, galanti, travolgenti) e le corse. Proprio le corse erano la caratteristica del carnevale romano e la fondamentale base di spettacolo dei famosi giochi di Agone e di Testaccio. L’origine doveva essere antica ma fu Paolo II a dar loro ordine e regolarità di svolgimento. Il diario quattrocentesco di Stefano Infessura, infatti, così riporta: “Lo ditto papa Paulo in principio del suo papato volendo far cosa grata alli romani se ne venne ad habitare ad Santo Marco, et ampliò la festa dello carne levare, et fece che lo lunedì dinanzi allo carne levare se corresse per li garzoni un palio, et lo martedì per li judei se corresse l’altro; lo mercordì quello delli vecchi; lo iovedì se giva ad nagoni; lo venerdì se stava in casa; lo sabbato alla caccia; la domenica se ricorrevano li tre palii consueti; lo lunedì correvano li buffali et lo martedì li asini; et di queste cose lui si pigliava piacere” (Diario della città di Roma”, nell’edizione a cura di O. Tommasini, “Fonti per la storia d’Italia pubblicate dall’Istituto storico italiano”, Roma, 1890, p. 69). I giochi di Agone si facevano nel giovedì grasso, quello di Testaccio nell’ultima domenica di carnevale, ed in seguito s’era aggiunto un terzo giorno intermedio, il sabato, destinato alla caccia dei tori. Questa caccia costituiva senza dubbio la parte più spassosa della festa: era una specie di caotica corrida, frenetica e tumultuante, che si scatenava intorno a tori e cinghiali, quando venivano giù da un monticello nella pianura, insieme con i carri; qui aspettavano i giocatori che combattevano aspramente per contendersi le prede; ne nasceva spesso un’incredibile sanguinosa gazzarra con numerosi morti e feriti. Pio V, con una bolla dell’ 1 novembre 1566, vietò rigorosamente questo gioco, minacciando gravi sanzioni ai trasgressori.

Quasi a chiudere lo spettacolo venivano poi le corse vere e proprie, corse raramente fatte dai cavalli, più spesso dai bufali o dagli asini, e normalmente dai vecchi, dai ragazzi e dagli ebrei. Spettatore stupefatto, così le descrisse il Montaigne nel 1581: “Le long du Cours, qui est une longue rue de Rome, qui a son nom pour cela, on faict courir à l’envi, tantost des vieillards tout nuds, d’un bout de rue à autre. Vous n’y avés nul plesir que de les voir passer devant l’endret où vous estes. Autant en font-ils des chevaus, sur-quoi il y a des petits enfans qui les chassent à coups de fouet, et des anes et des baffles poussés à tout des éguillons par des jans de cheval. A toutes les courses, il y a un pris propose, qu’ils appellent “el palio”: ce sont des pieces de velours ou de drap” (Montaigne, op. cit., p. 211).

Del resto ogni occasione poteva essere tramutata in spettacolo, anche la più futile e banale, persino l’orrore e la crudeltà dei supplizi capitali. Esemplare è questa cronaca tratta dall’Avviso di Roma del 2 agosto 1581 che narra di un inglese che aveva sacrilegamente profanato il Calice in una Messa ed ingiuriato le ostie eucaristiche; preso dall’Inquisizione, era stato condannato a morte. “Sabato alle 22 hore fu trasportato dall’Inquisitione quel Pellegrino inglese che come si scrisse levò il calice dalle mani del Prete, che celebrava in S. Pietro, et gittollo in terra. Il quale passò per mezo Banchi a piedi et una tonica indosso dipinta a fiamme, et questa mattina l’hanno condotto a cavallo sopra un assino, ignudo alla piazza di S. Pietro, dove l’hanno abbrugiato vivo, et per strada mentre si conduceva alla morte, lo percotevano per tutta la strada con torcie accese abbruggiandolo di mano in mano, ma egli è stato sempre pertinace nella sua falsa opinione, nonostante che dal principio della sua cattura fino all’ultimo della vita Sua Santità gli abbia fatto stare appresso alcuni Gesuiti inglesi per convertirlo. Ma come s’è detto ha voluto morir ostinatissimo, senza mai aver baciato il crocifisso, et prima che sia stato abbrugiato gli hanno tagliato una mano, et insomma ha mostrato gran costanza nella sua falsa opinione, parendo che non istimasse punto così atroce morte, al quale spettacolo è concorsa tutta Roma, et fino i putti aiutavano a darli il fuoco” (Cod. urbin, 1049, Bibl. Vat.). Anche il Montaigne, nel suo diario di viaggio, citato, a p. 233 parla della crudeltà delle esecuzioni capitali a Roma: “ils ne font guiere mourir les homes que d’une mort simple, et exercent leur rudesse après la mort. M. de Montaigne y remerqua ce qu’il a dict ailleurs (“Essais”, 1111), combien le peuple s’effraie des rigurs qui s’exercent sur les cors mors; car le peuple, qui n’avoit pas santi de le voir estrangler, à chaque coup qu’on donnoit pour le hacher, s’écroit d’une voix piteuse. Soudein qu’ils sont morts, un ou plusieurs jésuistes ou autres, se mettent sur quelque lieu hault, et crient au peuple, qui deca, qui delà, et le preschent pour lui faire gouster cet exemple. Après qu’il fut estranglè, on le detrancha en quattre cartiers”.

Conclusione. Si è così parlato delle feste nobiliari e dei divertimenti pubblici, e lo si è fatto senza voler tentare giudizi di sorta; ma forse non è inutile rischiare qualche ipotesi di lavoro per un approfondimento futuro. Si è notata la separazione profonda fra nobili e popolo ed è legittima quindi l’ipotesi che la festa, invece di creare un sentimento di comunione tra i membri della città, invece producesse un effetto opposto, quando si aristocratizzava eccessivamente, quando si rinchiudeva nelle sale d’un palazzo, quando diventava l’occasione di uno sperpero stravagante, quando per la più gran parte della popolazione non era che illusione ed inganno. L’epoca conservava l’appetito del sacro, dello splendido, del meraviglioso, il gusto della metamorfosi. E così la nobiltà si circondava di sfarzo, di magnificenza e di ostentazione; il divertimento di corte evidenziava i suoi aspetti di frivolezza, il giubilo pubblico rivelava gli originari elementi di calcolo politico, la festa in generale scopriva l’esistenza d’una ideologia e d’una propaganda (v. J. Jacquot, “Les fetes de la Renaissance”, Editions du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris, 1956).  

 

Più di 250 anni dopo questi avvenimenti un grande poeta romano, Giuseppe Gioacchino Belli, il 26 novembre 1831 fa descrivere da un suo popolano, tra il meravigliato e l’insolente, uno spettacolo di questa fatta:

 

Er mortorio de Leone Duodecimosiconno

 

Jerzera er Papa morto c’è ppassato

propi’ avanti, ar cantone de Pasquino.

Tritticanno la testa sur cuscino

pareva un angeletto appennicato.

 

Vienivano le tromme cor zordino,

poi li tammurri a tammurro scordato:

poi le mule cor letto a bardacchino

e le chiave e ‘r trerregno der papato.

 

Preti, frati, cannoni de strapazzo,

palafreggneri co le torce accese,

eppoi ste guardie nobbile der cazzo.

 

Cominciorno a intoccà ttutte le chiese

appena uscito er morto da Palazzo.

Che gran belle funzione a sto paese!    

 

Il funerale di papa Leone XII

 

In questo sonetto c’è una probabile confusione tra il funerale di Leone XII e quello di Pio VIII (l’aveva già notato il Morandi). Infatti Leone XII morì il 10 febbraio 1829 in Vaticano e perciò il suo corpo fu esposto a S. Pietro su un grande tumulo, innalzato dal Valadier, senza essere trasportato per le vie di Roma. Pio VIII invece morì nel Quirinale il 30 novembre 1830 e il suo corpo, dopo essere stato esposto nella cappella Paolina di quel palazzo, fu trasferito nella cappella Sistina in Vaticano e poi in S. Pietro. Il Belli doveva aver visto il cadavere di Leone XII a S. Pietro o nel trasporto dal palazzo alla basilica, dato che il verso 4 del sonetto non può che riferirsi al volto magro di Leone (Pio VIII era assai grasso). Il ricordo si fuse con quello del trasporto di Pio.

Ieri sera il papa morto c’è passato proprio davanti, all’angolo dove c’è la statua del Pasquino (all’inizio della via del Governo Vecchio, accanto a palazzo Braschi). La testa gli tremava sul cuscino (per lo sballottamento) e sembrava un angioletto leggermente addormentato. Seguivano poi le trombe con la sordina, e poi i tamburi a tamburo scordato: poi i muli col letto a baldacchino e le chiavi e il triregno, simboli del papato. Uno stuolo di preti, di frati, cannoni da strapazzo (cioè inutili), palafrenieri con le torce accese, e poi queste guardie nobili… Cominciarono a rintoccare le campane di tutte le chiese di Roma non appena la salma fu uscita dal Quirinale. Che belle funzioni ci sono in questo paese!

Due secoli e mezzo sono passati senza che nessuno se ne sia accorto.

 

                                                                       Gennaro Cucciniello