Francesco De Sanctis, “Un viaggio elettorale in alta Irpinia”, gennaio 1875. “Calitri la nebbiosa”.
Ritengo interessante riprodurre alcune pagine di cronaca e di riflessione, scritte da De Sanctis a riepilogo e commento della sua esperienza elettorale in alta Irpinia nel gennaio del 1875 (il grande critico, nato a Morra nel 1817, aveva 57 anni e morirà a Napoli nel 1883).
Partiamo da alcuni dati. Nel 1861, all’indomani dell’unità d’Italia, gli iscritti alle liste elettorali erano stati 418.696, un po’ meno del 2% dell’intera popolazione del Regno. La legge elettorale riproduceva in sostanza quella piemontese del 1848: per votare bisognava aver compiuto 25 anni, saper leggere e scrivere e pagare almeno 40 lire di imposte dirette all’anno. Presero parte alla votazione del 27 gennaio 1861 solo 239.583 elettori, cioè il 57,2% degli iscritti. Dopo 15 anni, nel 1876, gli elettori saranno 605.007 e i votanti 358.258, cioè il 59,2%. Solo nel 1882 sarà varata una nuova legge elettorale, Zanardelli-Depretis, che abbasserà il limite d’età da 25 a 21 anni, porrà come requisito essenziale la capacità e non il censo, abbasserà il censo –lasciato come alternativa all’esame di II elementare- da 40 lire a 19,80. Gli elettori così passeranno a 2.017.829, pari al 6,9% della popolazione. Nelle elezioni del 22 ottobre 1882 voteranno in 1.223.851, cioè il 60,7%.
Scrive lo storico inglese Denis Mack Smith che “la sua penetrante diagnosi dell’Italia degli anni intorno al 1870 è, ancor oggi, di notevole interesse ed utilità pratica. Egli si interrogò profondamente sulla natura della democrazia e del liberalismo; fu uno dei primi ad indicare l’esistenza di una “questione meridionale” e ad avvertire l’urgente necessità di unificare il paese riducendo le diversità fra le varie classi sociali e le varie regioni. Come scrittore politico, ebbe modo di insistere sulla necessità di un sistema bipartitico e di una reale alternanza al governo di uomini e programmi. Una delle sue richieste più insistenti fu volta ad ottenere uno sforzo particolare nel campo dell’istruzione popolare, con l’obiettivo di far partecipare maggiormente le masse alla vita pubblica. Egli si preoccupò anche dell’educazione politica degli intellettuali in Italia, perché una delle carenze del paese era la qualità della sua élite dominante, ed il distacco delle classi colte dalla politica attiva. In una frase rimasta famosa, disse che la scuola non avrebbe dovuto essere un’arcadia o una pura accademia ma avrebbe dovuto anche essere coinvolta nei problemi pratici e nella vita quotidiana. Pensava, infatti, che il sistema di educazione di allora producesse troppa vuota retorica, “quel vizio ereditario della nostra decadenza, che divenne il tarlo dell’intelligenza italiana… che nasconde la vacuità del pensiero e la freddezza del sentimento”. De Sanctis, benché il suo contributo più sostanzioso alla vita nazionale vada cercato altrove (nei suoi mirabili scritti di critica letteraria), sedette in Parlamento per più di vent’anni, e fu ministro non meno di cinque volte. Giudicando in prospettiva, possiamo oggi dire che probabilmente egli possedeva un’intelligenza troppo critica per essere un vero e proprio uomo politico di successo, e forse anche uno spirito e un senso dell’ironia troppo acuti. Era più incline alla teoria che alla pratica, ed era inoltre dotato di troppo senso morale per adattarsi supinamente a tutto quello che incontrava nella vita pubblica.
Egli era stato tra coloro che avevano creduto negli eventi del 1859-61 fino a sperare o ad immaginare che il compimento del risorgimento nazionale avrebbe presto reso l’Italia ricca e potente. Poi, la realtà degli anni seguenti lo rese sempre più scettico e disilluso. In contrasto con l’enorme entusiasmo del 1860, notava lo svilupparsi di “uno stato di atonia politica che è peggiore del malcontento”. Anche da parte degli intellettuali si “guarda con una cert’aria di diffidenza e quasi di disprezzo gli uomini politici… come se la politica fosse privilegio di pochi e non dovere di tutti”. Ed ancora peggio, sembrava prendere piede tra la gente la pericolosa concezione per cui “non si può essere insieme un uomo politico ed un uomo onesto”. Nel 1887 Antonio Salandra constaterà: “I partiti adesso, nel nostro Parlamento, non sono due o più; non sono potenti o fiacchi: sono disfatti. Non si sa quali e quanti siano né dove risiedano. Al disfacimento loro hanno lavorato molti uomini e molti eventi. Ricostituirli sarebbe cosa eccellente, purché si ricostituissero sulla base dei concetti e di realtà politiche, non sulla base di persone e di reminiscenze. Ma a farlo si richiede l’opera lunga e costante di uomini tenaci e volenterosi. Non si ricostituiscono con un fiat, né in un mese, né forse in un anno. Non si ricostituiscono evocando vecchie divisioni, che il Paese non sente. I nomi vecchi possono servire purché siano insegna di nuove idee. Ma non si può, risuscitando nomi, ridar vita a dissensi esauriti”. Una riflessione ancora attuale.
Nelle elezioni del novembre 1874 De Sanctis era stato eletto nel suo precedente collegio di Sansevero, ma era candidato anche nel suo collegio nativo, Lacedonia, dove si trovò in ballottaggio con un notabile locale. Nel dicembre 1874, a Lacedonia, egli raccolse un numero di voti sufficiente a vincere le elezioni supplementari, ma il risultato fu invalidato a causa di un’irregolarità di poca importanza, e si dovette procedere ad una nuova votazione nel gennaio 1875. Lo scrittore questa volta decise di partecipare attivamente alla campagna elettorale nella zona. Fino ad allora egli aveva preferito isolarsi nella sua fama di figura di livello nazionale, ed aveva anche criticato la mancanza di dignità di “un uomo che personalmente va per le case a buscar voti”. Al suo arrivo a Lacedonia trovò un’aspra lotta tra due gruppi indistinti e mutevoli nelle loro alleanze a livello nazionale ma in aspro conflitto per la supremazia locale. Da quarant’anni egli non era tornato nel suo paese natale, e l’occasione gli si presentò come una sorta di scoperta, un viaggio sentimentale che stimolò la sua fantasia. Era per lui un’esperienza inconsueta trovarsi in quello che egli chiamò “un mondo quasi ancora primitivo, rozzo e plebeo”, ben lontano dalle aule universitarie alle quali era abituato. Era tornato nella sua regione natale con l’idea di elevarne il livello della vita politica, e forse era anche riuscito a creare un temporaneo entusiasmo tra alcuni elettori, ma questo entusiasmo passò presto, mentre la rete dei vecchi interessi rimase salda ed inalterata come prima”. Il collegio elettorale di cui qui si parla contava i comuni di Rocchetta, Lacedonia, Calitri, Cairano, Monteverde, Aquilonia, Conza, S. Andrea di Conza, Andretta, Bisaccia, Teora, Morra.
A distanza di quasi 140 anni è opportuno chiedersi quanto e come sia cambiata la situazione economica, sociale, politica e culturale di quel territorio?
Gennaro Cucciniello
Calitri la nebbiosa
“Il tempo si faceva cattivo. La nebbia si levava. Il cielo era fosco. Volammo più che andammo. E giungemmo che era ancor giorno. Quella era la città nemica. Ivi erano i grandi elettori, i principali avversarii. Mutare la posizione, non era possibile. Lì non c’era equivoco, c’era partito preso. Ma, poiché ci si poteva andare in carrozza, la mia andata colà era un segno di rispetto a quel paese.
Avevo scritto al sindaco che andavo alla casa comunale. Ma il sindaco non si fece vivo. Sapevo bene che era uno dei più saldi avversarii. Pure il brav’uomo dovea comprendere che io non m’era diretto alla sua persona ma al rappresentante del paese, al quale chiedevo ospitalità, e che era della più elementare cortesia farmi gli onori di casa. E non mi meravigliai che avesse dimenticato di restituirmi il biglietto di visita di capo d’anno, mandato non a lui, ma al sindaco. Forse doveva avere per me qualche antipatia. E confuse la sua antipatia col suo ufficio di sindaco. Ma se non vidi il sindaco, vidi il Tozzoli, con faccia allegra come chi ti dà il benvenuto. Facevano ala, gentile pensiero del Tozzoli, i fanciulli delle scuole, e uno mi si avvicinò, e mi recitò una poesia, di cui m’è rimasto che invocavano me come angiolo tutelare del paese. Ringraziai.
Vidi Calitri in un mal momento. La strada era una fangaia; ci si vedeva poco, e un freddo acuto mi metteva i brividi. A sinistra era una specie di torrione oscuro, che pareva mi volesse bombardare; a destra una fitta nebbia involveva tutto; l’aria era nevosa, e il cielo grigio tristemente monotono. Salii a una gentile piazzetta, e passando sotto gli sguardi curiosi di molte donne ferme lì sulle botteghe, volsi a mancina in una specie di grotta sudicia che voleva essere un porticato, e giunsi in casa Tozzoli. Mi stava in capo che Calitri doveva essere una grande città e molto ricca; i Berrillo, i Zampaglione, i Tozzoli erano i nomi grossi della mia fanciullezza, e mi pareva che la città dovesse corrispondere alla grandezza di quei nomi. A quel ragguaglio la mi parve cosa meschina. Ciascuno fa il luogo dove si trova, a sua imagine. O come questi cittadini, che dicono così ricchi, non hanno avuto ambizione di trasformare la loro città e farla degna dimora di loro signorie? Non conoscevo le case, ma quelle strade erano impresentabili, e danno del paese una cattiva impressione a chi giunge nuovo; le strade sono pel paese quello che il vestire è per l’uomo. A tavola, cercai con garbo investigare le condizioni morali del paese, ma ne cavai poco. Frizzi, sarcasmi, ironie s’incrociavano dei presenti contro gli assenti; c’era lì del guelfo e del ghibellino, lotta di famiglie, lotta d’interessi, passioni vive e dense, col nuovo alimento che viene dai piccoli centri, dove non si pensa che a quello solo. Gittarmi entro quell’incendio mi pareva pazzia.
Ritiratomi, scrissi lettere a Teora, a Conza, a Sant’Andrea, dove, cosa incredibile, ma vera, non si potea andare in carrozza, sicché tutto un mandamento era come sequestrato dal collegio. Feci le mie scuse, come le avevo fatte ai sindaci di Aquilonia e Monteverde, paesi che si trovano nella stessa condizione. E scrissi a tutti compendiosamente quello che ero andato qua e là discorrendo a voce.
La mattina mi avviavo già alla casa comunale, quando mi fu porta una lettera del sindaco. Diceva così: “Se lei vuole venire nella casa comunale, padronissimo, ma la prevengo che non permetterò che vi si tengano riunioni elettorali politiche”. Lessi e rilessi, e tutti mi guardavano, come se volessero cogliere nella espressione del mio viso il senso della lettera. Il sindaco l’ha fatta grossa, diceva il mio viso oscuro e contratto. E senza più, lessi ad alta voce quella lettera modello. “Non è che questo”? disse uno. “Venga, andremo in casa dell’assessore”. E io m’avviai macchinalmente con gli altri. Questa prontezza di risposta m’era indizio che gli amici avevano qualche vento di quella strana risoluzione, e avevano tutto apparecchiato in altra stanza. Vidi per via gente aggruppata, che mi guardavano, in atto rispettoso, ma freddo. Entrai, trovai il salotto già pieno, e nella stanza attigua affollati i fanciulli delle scuole, ingegnosa idea per far numero e palliarmi l’assenza degli avversarii. Cominciai subito: “Io vengo qui con un cielo fosco, come sono i vostri animi. E non vengo già ad accattar voti, ad acquistarmi aderenti: siete voi che dovete conquistare me. Deputato di altro collegio a cui mi lega lunga e salda comunanza di pensieri e di sentimenti, prometto di esser vostro, e la condizione è in vostra mano: unitevi tutti, rimanga il mio nome alto sulle vostre divisioni locali. Io ve lo scrissi già: se tutta intera la mia vita spesa a illustrare la patria non vale a dare al mio nome tale autorità, che stia fuori dalle vostre passioni locali, a che giova il mio nome? Gittatelo nell’Ofanto, e dimenticatemi per sempre. Questo era il significato della mia elezione, così solo potevo essere utile. Guardate lì il sole, che si eleva e caccia e abbassa le nebbie; io saluto il sole di Calitri, che dissiperà le vostre nebbie, e saluto questi giovinetti, la nuova Calitri, sede di civiltà e di gentilezza”.
Non mancarono gli applausi, e ciò che mi piacque più colsi una commozione, che in alcuni giunse fino alla lacrima. In verità, io non spargeva su quel paese rose e fiori. Le punture erano delicatissime ma erano punture. Con molto seguito di amici attraversai il paese, guardato questa volta dal popolo con maggiore espansione. Notai nell’aria e nei modi una serietà che mi fece buona impressione. Alcuni popolani stavano lì ritti sulla piazza con una gravità di senatori romani. Dev’essere un popolo tenace e lavoratore, a testa alta, e ne augurai bene. Scesi sulla strada, dove ci attendevano le carrozze, mi volsi a guardare la nemica città, e rividi quel torrione fatto oscuro dai secoli, che mi guardava minaccioso, quasi volesse dirmi: qui sarai sconfitto. Ed ecco un corriere tutto anelante, che ci annuncia l’arrivo di parecchi elettori di Sant’Andrea, i quali, avuta la mia lettera, venivano a farmi visita. Giunsero poco poi, affannati e ridenti. Vidi faccie espansive e sincere. Quella brava gente si sentiva felice di esser giunta a tempo, venuta di così lontano, e di vedermi e di stringer la mia mano. E mi riferirono che Sant’Andrea era tutta per me, e quasi tutta la storica Conza e in gran parte anche Teora”.
Il brano è tratto da: Francesco De Sanctis, “Un viaggio elettorale”, Passigli Editori, Firenze, 2011, pp. 101-112 (passim).