I francesi votano Révolution
Julia Cagé e Thomas Piketty hanno studiato 250 anni di risultati elettorali in Francia. Cosa hanno scoperto?
Ne “Il Venerdì di Repubblica” del 13 ottobre 2023, alle pp. 38-41, Anais Ginori commenta l’uscita del saggio “Une histoire du conflit politique” (Seuil), “Viaggio nella storia del conflitto politico attraverso il voto”, nel quale gli autori sono risaliti fino alla Rivoluzione francese del 1789.
Gli economisti Julia Cagé e Thomas Piketty hanno scavato negli archivi elettorali per un libro monumentale che analizza i modelli di voto in Francia, consultando gli scrutini di 36mila comuni. A partire proprio dal 1789. “E’ stato un progetto appassionante, e direi con diverse sorprese”, racconta Julia Cagé, autrice di diversi saggi sui media e docente a Sciences Po Paris, che per la prima volta firma un libro insieme al compagno Thomas Piketty, autore del bestseller “Il Capitale nel XXI secolo”, direttore di studi all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e professore alla Paris School of Economics.
Cosa vi ha spinti a fare questo studio storico su basi elettorali?
Cagé. Volevamo capire cosa c’era dietro certe presunte verità sulle tendenze elettorali di cui spesso si parla nel dibattito pubblico: per esempio che le classi lavoratrici hanno abbandonato la sinistra, o che le principali preoccupazioni dei francesi sono l’identità e l’immigrazione. Abbiamo deciso di verificare queste idee esaminando non solo le ultime elezioni, ma tutti gli scrutini degli ultimi 250 anni.
Con quali sorprese?
Piketty. Ci siamo resi conto che i fattori socio-economici non sono mai stati così determinanti come oggi. Oggi rappresentano il 70% delle differenze di voto rispetto al 50% del 1981. Siamo così arrivati alla conclusione che le tendenze sono influenzate da classi “geosociali”, in cui si legano classe sociale ma anche geografia intesa come territori di residenza.
Quale è stato il vostro metodo per definire le classi “geosociali”?
Piketty. Abbiamo preso in considerazione il reddito medio per comune, il valore delle abitazioni, il capitale immobiliare, la percentuale di proprietari di case e il tipo di professioni svolte. Ma abbiamo anche guardato a come si inseriscono nel tessuto territoriale e produttivo, osservando come si vota in città, nei villaggi, in periferia e nelle metropoli.
E quali tendenze si sono delineate?
Cagé. Nel lungo periodo abbiamo sì osservato che le aree rurali votano più a destra rispetto alle aree urbane. Ma anche che non è sempre stato così. Nel 1981 Mitterand ottenne punteggi quasi equivalenti nei villaggi, nelle periferie e nelle metropoli. E’ come se, con la bipolarizzazione tra destra e sinistra, la gauche fosse riuscita a convincere le classi lavoratrici urbane e rurali, facendo prevalere temi condivisi rispetto a quelli più divisivi.
Oggi la sinistra non ci riesce più.
Piketty. Ciò che colpisce negli ultimi trent’anni è un ritorno a un divario tra il voto della classe operaia nelle aree rurali e in quelle urbane. Oggi ci sono più lavoratori nei villaggi e nelle piccole città che nelle periferie e nelle metropoli. E si sentono delusi sia dalla sinistra che dalla destra che si sono succedute al potere. Hanno così sfruttato il voto all’estrema destra per esprimere un sentimento di abbandono di fronte alla diserzione dei servizi pubblici e alla deindustrializzazione.
Quindi il sentimento anti-immigrazione non è l’unica base del voto per l’estrema destra?
Piketty. Tutti i nostri dati suggeriscono che non si tratta principalmente di un voto anti-immigrati, ma di un voto che esprime un sentimento di abbandono socio-economico. Al contrario, gli impiegati delle metropoli e delle periferie, che lavorano come cassieri, nella ristorazione o nelle pulizie, e che spesso guadagnano meno dei colletti blu, votano a sinistra.
Resta comunque un dato di crisi della sinistra nell’elettorato più popolare.
Cagé. Già Marx odiava i contadini, rimproverandoli per le loro aspirazioni piccolo-borghesi alla proprietà. La sinistra ha continuato su questa linea, in particolare per quanto riguarda la questione ecologica: denuncia il fatto che la gente usa l’automobile, anche se le classi lavoratrici rurali non hanno trasporti pubblici e inquinano molto meno con le loro auto rispetto a molte classi urbane avvantaggiate, che magari volano a Barcellona per il fine settimana.
E l’astensionismo?
Cagé. E’ stato un altro risultato che ci ha sorpreso. Dai dati dei sondaggi più recenti sapevamo che i più poveri votano meno dei più ricchi. Ma è emerso che non è sempre stato così. Tra il 1950 e il 1980, i comuni più poveri hanno votato più di quelli ricchi. Questo calo del numero di elettori a basso reddito è un fenomeno legato al ritorno della tripartizione politica che la Francia ha vissuto alla fine dell’Ottocento. Esprime l’insoddisfazione per l’offerta elettorale.
Fate un parallelo tra l’attuale tripartizione politica e quella di fine Ottocento. Perché?
Piketty. All’inizio della Terza Repubblica, negli anni 1880-1890, c’era qualcosa di simile all’attuale blocco centrale di Emmanuel Macron, con i Repubblicani moderati, che venivano chiamati anche “opportunisti”. Raggruppavano in linea di massima le élite repubblicane e orleaniste, con i socialisti e i socialisti radicali alla loro sinistra, che tendevano a essere lavoratori urbani, e i conservatori monarchici alla loro destra, che tendevano a essere contadini. Questa divisione del voto popolare, rurale e urbano, ha permesso loro, proprio come oggi, di rimanere al potere dicendo: o noi o gli estremi, o noi o il caos.
Si capisce che non siete in favore del tripartitismo. Preferite il bipolarismo?
Cagé. Il limite della tripartizione è che tende a mantenere il potere esistente liquidando le opposizioni come populiste ed escludendole dal campo repubblicano. La democrazia è alternanza. Non è il campo della ragione contro il campo dell’irragionevolezza.
Se la questione dell’immigrazione non è così determinante nel voto perché nel dibattito pubblico le questioni identitarie dominano su quelle socio-economiche?
Cagé. Non possiamo ignorare la crescente influenza di Vincent Bolloré, con i suoi media che impongono una retorica su insicurezza e immigrazione. Ma i risultati del nostro lavoro mostrano l’importanza delle questioni sociali e sono un motivo di ottimismo perché sono questioni che possono essere risolte. Non è facile, perché le soluzioni devono essere finanziate in un contesto di debito e inflazione. Ma è possibile.
Come è cambiata la base elettorale del voto di estrema destra negli ultimi 50 anni?
Piketty. Nel 1965 il primo candidato di estrema destra, Tixier-Vignancour, raccoglieva un voto molto borghese, un po’ come Eric Zemmour oggi. Fino alle elezioni legislative del 1986 e del 1988, anche Jean-Marie Le Pen attraeva un voto urbano e borghese. E’ dal 2007-2012 che il voto del Front National, e poi del Rassemblement National, è diventato rurale e popolare, e molto meno ossessionato dall’immigrazione di quanto spesso si sostenga. Non dipendeva più dalla presenza di stranieri nei comuni. Ciò che conta è la percentuale di lavoratori e proprietari di case. Non si tratta di persone ricche, ma nemmeno di persone tra le più povere, che sono affezionate all’idea che il lavoro possa portare alla proprietà di una casa e che sentono molto poco il sostegno dei partiti tradizionali.
Dai vostri dati si evince che l’elettorato di Macron viene da classi più borghesi. E’ davvero “il Presidente dei ricchi” come dicono i suoi avversari?
Cagé. La correlazione tra il livello di ricchezza dei comuni e il voto di Macron è estremamente forte. Questo era già vero per i voti a Chirac, Giscard e Balladour, ma all’epoca la destra tradizionale era in grado di conquistare anche alcuni dei comuni più modesti, soprattutto nelle zone rurali. Con Macron non è più così.
Prendendo spunto da queste tendenze elettorali, pensate che una vittoria di Le Pen nel 2027 sia davvero possibile?
Piketty. Sulle elezioni presidenziali, con doppio turno, tutto può succedere. Dopodiché, per governare serve una maggioranza parlamentare. E questo sarà complicato, anche per Marine Le Pen.
Anais Ginori Julia Cagé Thomas Piketty