Franco Fortini (1917-1994), “Lontano Lontano”, 1991
Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra. 2
Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito. 4
Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra! 6
Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare. 8
E se anche potessi, o genti indifese,
ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese! 10
Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi? 12
Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via. 14
da “Sette canzonette del Golfo”, in “Composita solvantur”
L’esiliato Fortini e il ridicolo della Storia
Distici di doppi senari a rima baciata: come tutti i versi parisillabi, in italiano la tradizione li vuole più adatti al comico che al tragico. A parte due sonetti (sarcastici per arcaismo), anche le altre “Canzonette del Golfo” hanno per metro un verso pari, otto o decasillabo. Ma il doppio senario è nei cori delle tragedie manzoniane, e in ottonari Carducci racconta la morte disperata del re Teodorico; ritmi del ridicolo o della Storia –qui, del ridicolo della Storia: la tragicommedia della propria impotenza di fronte all’ingiustizia di un rapporto di forze. La chiave del testo è al v. 7, “non posso parlare”. Fortini me lo ricordo, nel dispettoso auto-esilio di Bocca di Magra, a me che lo congratulavo per essersi tirato fuori dalla lotta politica, rispondere con durezza “non mi sono tirato fuori, mi hanno escluso”. Era uscito dal Corriere sbattendo la porta, Il Manifesto ospitava i suoi articoli ma lui ci credeva sempre meno, era stanco della “battaglia delle idee”; le alternative anti-imperialistiche in cui aveva creduto erano cadute una dopo l’altra. In quell’inverno del ’91 l’unanimismo filo-americano non concedeva margini di discussione, stare con gli iracheni di Saddam Hussein sembrava una follia. Nella nota che accompagna il testo, Fortini definisce quella guerra “un’operazione di polizia”: falsa nei moventi e ipocrita negli scopi, assurdamente asimmetrica. Lui la guardava in tivù, curava il giardino della sua villa aggrappandosi angosciosamente all’immagine dei saggi cinesi, tra Brecht e Lu Hsun. Aveva 74 anni.
La leggerezza è voluta e patita, non rientrava nel suo carattere: è un surrogato del silenzio. “Lontano lontano” si dice nelle fiabe, ma è anche il titolo di una malinconica canzone di Tenco; era pure la consolazione degli italiani in quel momento, per fortuna sta succedendo così lontano. Il sangue era degli altri: la sproporzione tra i due eserciti, in termini di perdite umane, fu incredibile e inaudita –era una guerra a senso unico. Ecco che scatta, parodistico, il confronto fra le ferite belliche e la puntura di una rosa. Non dice “succhiandomi il dito” ma “succhiando quel dito”, come se l’insopportabilità del sangue rendesse estraneo perfino il proprio corpo. E i pensieri sono elementari, senza mordente politico; sono i pensieri di un povero vecchio qualunque: lui che più di vent’anni prima a Firenze, in un’altra “manifestazione unitaria” contro un’altra impresa dell’imperialismo americano, aveva acuminato i paradossi (“sul Vietnam non ci si unisce, sul Vietnam ci si divide”) fino a rischiare l’ostracismo della sinistra. Ora si sente solo, tagliato fuori da ogni dibattito: non gli resta che il sogno patetico e infantile di un impossibile arruolamento. La vecchiaia, le barriere linguistiche (il suo tardivo dispiacere di aver studiato il francese e non l’inglese, da giovane). Il “fitto volume di versi”esisteva davvero: l’anno prima, nel 1990, Einaudi aveva pubblicato i Versi scelti –un’amplissima antologia che era anche una consacrazione. L’autoironia amara raggiunge qui (nella ricca rima “versi/riversi” dei vv. 11-12) il suo culmine: di fronte all’ingiustizia storica e al dolore creaturale la letteratura conta meno di zero. La stessa regolarità metrica suona come uno sberleffo. E forse agiscono anche i dubbi sulla sorgività della propria vocazione di poeta (l’invidia per Pasolini ed Eluard); i poeti nativi e sorgivi possono permettersi di essere irresponsabili e poco lucidi, lui no. La riflessione autocritica gli fa cadere la verve, non ha più voglia di scherzare. Quell’inutile non credo del v. 13 è puro desiderio di finire, per fortuna il sole sta tramontando e a quell’ora i bravi vecchietti si mettono la maglia di lana.
Tante volte Fortini, sia saggista che poeta, è stato accusato di oscurità (lo prendevamo in giro, “si spezza ma non si spiega”); e invece qui, in questa senilità inerme e smarrita, la cosa più commovente è proprio la semplicità. Non c’è una parola difficile o astrusa, non c’è una citazione colta, non c’è un’inversione sintattica latineggiante o preziosa: il testo si presenta indifeso come le “genti” che non può andare a soccorrere. Mai Fortini ha raggiunto, parlando d’amore, l’intimità emotiva di questo testo di delusione e di rabbia. E’ una resa, ma una resa che sottintende una resistenza più profonda: gli altri poeti italiani della sua generazione, da Sereni a Caproni a Bertolucci, di fronte al crollo delle vecchie categorie si trincerano dietro un grande-stile lapidario e un po’ mortuario, pronunciano le verità ultime e sublimi, si astraggono dalla cronaca o la interpretano secondo sottili equivalenze metaforiche. Lui continua a guardare la cronaca in faccia, come di lì a poco guarderà la malattia; accetta la propria miseria e inefficacia ma non smette di testimoniare: questa volta si spiega, riducendo il proprio armamentario retorico ai minimi termini, ma non si piega all’idea di una lirica che appartenga solo a se stessa. Sul rapporto tra impegno e forma, tra Storia e assoluto, forse i suoi saggi orgogliosi e poco ruffiani, così appassionati nell’intervento e così poco giornalistici, potrebbero ancora servire: per “un buon uso delle rovine”, come suona il sottotitolo di uno dei suoi ultimi libri.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 27 luglio 2014, p. 54