Fuga e morte di Antonio Machado (1875-1939).
Il 22 febbraio 1939, esattamente 80 anni fa, il grande poeta spagnolo moriva in un paesino francese dopo un breve esilio e una lunga odissea. L’abbiamo ripercorsa. Dal capolinea.
Il “Venerdì di Repubblica” del 22 febbraio 2019, alle pp. 90-93 pubblica un articolo di Marco Cicala dedicato a spiegare le circostanze dell’esilio e della morte del poeta spagnolo Antonio Machado.
Collioure (Francia). Faceva scuro, pioveva, l’Europa correva verso la rovina. Dal treno della sera scesero quattro figure vestite di nero: una coppia sulla cinquantina, una donna anziana e un tipo che dimostrava molto più dei suoi 63 anni. Curvo, scavato, il volto una maschera grigia, quell’uomo è Antonio Machado, il più grande poeta di Spagna, un classico che vive tra noi ha detto di lui la filosofa Maria Zambrano. Lo accompagnano la madre Ana e il fratello minore José con la moglie Matea. Il gruppetto ha un’aria spettrale. Sono in marcia da giorni. Hanno dormito in cascinali e vagoni abbandonati. Per riparare in Francia hanno attraversato la frontiera a piedi sotto un nubifragio, fusi nella fiumana dei profughi che scappano dalla Spagna ormai quasi totalmente in mano alle truppe nazionaliste di Francisco Franco. E’ la Retirada: l’esodo di mezzo milione di disgraziati –soldati repubblicani allo sbando, donne, vecchi, ragazzini- che finiranno ammassati in lugubri campi di internamento.
In quell’inverno di tregenda, la strada tra la stazione e il villaggio di Collioure -25 chilometri dal confine- è interrotta per lavori, sbarrata ai taxi. Fino in paese tocca farsela di nuovo a piedi. Donna Ana, 88 anni, è portata giù a braccia. Delira: “Stiamo arrivando a Siviglia?”. Nel viaggio allucinante la vecchia andalusa rivede la città dov’è nata, dove ha messo al mondo quattro dei sei figli, tra cui Antonio, il prediletto.
Sulla Placette, la piazza principale di Collioure, c’è oggi un’enoteca dal nome altisonante: Vini d’autore. Quando ottant’anni fa, il 28 gennaio del 1939, i Machado approdano nel borgo, il negozio è una merceria. La tiene Madame Juliette Figueres, donna di buon cuore. Rifocilla gli sfollati con pane e caffellatte. Dall’altra parte della piazza c’è un’altra donna così, Pauline Quintana, proprietaria dell’hotel omonimo. Poco più di una pensioncina, ma fiera del proprio blasone: “La plus ancienne réputation” si legge sull’insegna. Subito accuditi, i transfughi alloggeranno in due stanze comunicanti al primo piano: in una il poeta e sua madre, in quella accanto il fratello e consorte. “Ignoravo che Machado fosse uno scrittore famoso”, avrebbe raccontato in seguito Madame Quintana. “Mi sembrava una persona perbene. Non sapevo nulla di lui, ma se qualcuno è in difficoltà mica devi conoscerlo per dargli una mano”.
La lunga fuga di Antonio Machado era iniziata tre anni prima. Nel novembre ’36, martellata dai bombardamenti fascisti, Madrid tiene duro, ma non si sa ancora per quanto. I capofila dell’intellighenzia repubblicana decidono che una personalità del prestigio di Machado bisogna metterla al sicuro. Il poeta recalcitra, però si farà convincere a lasciare la capitale. Con la famiglia li trasferiscono a Valencia, baluardo governativo. Verranno sistemati nel sobborgo di Rocafort, in una dimora dal nome accogliente: Villa Amparo, Villa Riparo. Machado arranca, la tragedia spagnola lo sta consumando fisicamente. “Una guerra civile”, scriveva Saint-Exupéry, “non è una guerra, ma una malattia”. E’ proprio così che la vive Don Antonio. Il grande trauma della sua esistenza è stato, decenni prima, la morte di Leonor, la venerata moglie-bambina uccisa dalla tisi a 18 anni.
Lui è riemerso dalla disperazione aggrappandosi alla corda stoica che si porta dentro, e che adesso è rimessa alla prova. In settembre apprende della fucilazione di Garcia Lorca, al quale dedicherà un’elegia lancinante, Il delitto fu a Granada. A infossarlo un po’ di più nell’afflizione arrivano poi le notizie del fratello Manuel, scrittore a sua volta. Bloccato in zona nazionalista dal golpe militare, “Manolo” ha finito per affezionarsi a quella sponda politica e diverrà una perfetta antitesi di Antonio: un aedo della falange e del Caudillo Franco.
Machado è malconcio, eppure durante la tappa valenziana lavora a rompicollo. Firma appelli antifascisti, articoli, non si nega a nessuna intervista, compone poesie. Nei comizi lo vedono arrampicarsi sul palco, spaurito. Le folle non sono la tazza di tè. Che ci fa uno come lui nei panni del tribuno? E’ sempre stato uomo mite, assorto, schivo: ha trascorso una vita insegnando francese in scuole di provincia. E’ un poeta dall’intimismo asciutto, allergico agli slanci lirici, alle intemerate sentimentali. Però viene da una stirpe sivigliana di liberi pensatori progressisti, e il repubblicanesimo è in lui la fede radicata di un demofilo, un patito del popolo. “Non sono marxista”, confessa, non lo sono mai stato ed è possibilissimo che non lo sarò mai. Vedo tuttavia nel socialismo una tappa inevitabile sul cammino della giustizia”. Non si affilia a nessun partito, ma dai comunisti, che del campo repubblicano hanno impugnato le redini politiche e militari, si fa un po’ manovrare. Per la causa antifascista è un testimonial di lusso. E commette qualche ingenuità. Si lascia imbambolare dal mito dell’Urss grande chioccia del proletariato universale: “Russia, nobile Russia, santa Russia… Senti la voce della Spagna?… “Sorella”! essa ti grida da mare a mare”. Quasi che Stalin fosse intervenuto nella guerra civile mosso da filantropici ideali tolstojani.
In sala da pranzo, Don Antonio legge e scrive fino all’alba, bevendo caffè di cicoria e sparendo quasi nel cappotto: del signore in carne che è stato resta appena il torsolo. “L’uomo dall’aspetto più trasandato, ma dall’anima più pura” lo definì Unamuno, però adesso Machado sembra un clochard: mal rasato, gli abiti velati di cenere. In barba ai guai respiratori, fuma come un dannato. Quando il tabacco finisce ricicla quello dei mozziconi. Quando finisce la carta, rolla le sigarette con foglie di eucalyptus raccattate in giardino. La villa valenziana è dotata di una torretta da cui si vede il Mediterraneo. Contemplate da lassù, le giornate di sole sono d’una bellezza che ferisce. Il poeta riflette, presago: “Se vado in esilio, ci muoio”.
Intanto per i repubblicani la guerra si mette sempre peggio. Nell’aprile ’38 un telegramma del governo invita perentoriamente i Machado a lasciare Rocafort per Barcellona. Nella capitale catalana la famiglia è alloggiata nella Torre Castanyer, un palazzetto aristocratico requisito dalla Repubblica. Antonio ci trascorrerà otto mesi amari. Non si illude: “La guerra è persa”. Nel gennaio ’39 i franchisti sono alle porte di Barcellona: bisogna sloggiare anche da lì.
Il percorso fino alla frontiera è un’angoscia lunga 150 chilometri. Quando l’aviazione fascista non le mitraglia, le colonne di profughi procedono a rilento, in un silenzio irreale, intralciate da mucchi di cose abbandonate: bauli, materassi, masserizie. Ti trascini dietro il necessario, ma strada facendo il concetto di necessario si scarnifica e alla fine pensi solo a portare in salvo la pellaccia. Anche quello di Machado è un tragitto di progressiva spoliazione: a Collioure il poeta sbarca con lo puesto, soltanto con quanto ha addosso. Libri, documenti, ultimi scritti… ha mollato tutto. All’hotel Quintana la padrona si chiede perché i fratelli Machado non scendano mai insieme a mangiare. “Perché non abbiamo ricambio”, li spiegherà José. “Mentre una camicia è ad asciugare, ci alterniamo con quella pulita”. Anni prima, Antonio aveva chiuso una delle sue poesie più celebri con i versi: “E quando verrà il giorno dell’ultimo viaggio / e salperà la nave che mai più farà ritorno / mi troverete a bordo leggero di bagaglio / quasi nudo, come i figli del mare”. Parole che suonano profetiche.
Tremila abitanti allora come oggi, Collioure era un ameno villaggio di pescatori già adocchiato dagli artisti. La qualità della luce che giocando col blu mistico del mare trasforma in caleidoscopio le facciate rosa, celesti e gialle delle case attirò qui i Fauves, ma pure Matisse, Derain, Picasso. La pesca e la lavorazione dell’acciuga crearono piccole dinastie commerciali di cui resta traccia su qualche insegna, anche se a metà del secolo scorso le acciughe cominciarono a farsi rare fin quasi a scomparire. Adesso le importano dall’Argentina. Sempre delizioso, il borgo vive di villeggianti e memorie. Nel folto dell’inverno l’atmosfera è rarefatta ai limiti del sovrannaturale. In giro non circola anima viva. Restano aperti solo un albergo e un bar. Se tendi l’orecchio non senti che lo shh-shh della risacca sui sassetti di cui è fatta la spiaggia. Un clima da polar anni ’70 con Maurice Ronet.
L’edificio dell’hotel Quintana è ancora lì, però disabitato. Machado usciva di rado. E quando lo faceva si allontanava giusto pochi metri: raggiunta la prima panchina a tiro, osservava i giocatori di pétanque sullo sterrato. Lui che per tutta la vita aveva gelosamente coltivato l’umanesimo delle proprie abitudini –la passeggiata, il gazzettino, due chiacchiere al caffè- adesso si sentiva vecchio, “vecchio come la Spagna”. A Collioure soltanto una persona si accorse chi era il famoso Machado: si chiamava Jacques Baills, faceva il vice-capostazione, ma per arrotondare dava una mano a Madame Quintana con la contabilità dell’albergo. Quando sul registro degli ospiti lesse “Antonio Machado – professore” corse a chiedergli: “Ma lei è il poeta?”, “Sì, soi yo”, rispose Don Antonio quasi a malincuore. Durante i corsi serali di spagnolo, Monsieur Baills ne aveva mandato a memoria i versi e li aveva trascritti su un quaderno. Sfogliarlo fu per Machado il primo momento di felicità dopo tanto di quel tempo. Tra il poeta e il ferroviere si strinse un’amicizia che ricorda quella dell’esule Neruda col postino.
Una mattina ventosa di sole, Antonio afferra il braccio del fratello: “José, andiamo a vedere il mare”. In spiaggia siedono su una barca rovesciata. Fissando le case dei pescatori, Machado sospira: “Ah, poter vivere dietro una di quelle finestre senza angustie”. Poche ore dopo ha una crisi, respira male. Il medico che lo visita è scuro in volto. Sul letto accanto l’anziana madre dorme da giorni come in coma profondo. “Adiòs, madre, adiòs” le sussurra Antonio. Poi è lui ad entrare in coma. Muore nel pomeriggio del 22 febbraio – un mercoledì delle Ceneri. La stanza è piccola, portare fuori la salma è un problema: bisogna farla passare sopra al letto della vecchia ancora immersa nel suo sonno. Ma appena sparito il corpo del figlio, Donna Ana si rianima di colpo: “Dov’è Antonio? Che è successo?”. Morirà tre giorni più tardi.
Avvolta nel tricolore repubblicano, la bara di Machado è portata al cimitero sulle spalle di sei soldati spagnoli dell’esercito sconfitto. La tomba –riallestita nel 1958 con il contributo di gente come André Malraux, René Char, Albert Camus- è oggi provvista di cassetta postale: “Negli ultimi trent’anni abbiamo raccolto trentamila lettereinviate dai devoti” mi dice Jacques Rodor che le sistema con dedizione negli archivi della benemerita Fondazione Machado. Indicando la vecchia pensione Quintana aggiunge: “I letti su cui morirono Antonio esua madre sono ancora lì dentro”. All’abbandono.
Ma nelle poche settimane trascorse a Collioure Machado scrisse qualcosa? Vexata quaestio sulla quale si aggrumano leggende. Nella sua casa di Perpignan, Jacques Issorel, 78 anni, ispanista emerito e massimo studioso del poeta, sorride: “No, a Collioure Machado non scrisse niente”. Dalla tasca del suo cappotto recuperarono un foglietto con su annotato un unico verso: “Estos dias azules y este sol de la infancia”. Questi giorni azzurri e questo sole dell’infanzia. “Due emistichi perfetti, non trova?”.
Marco Cicala