Un saggio sulle radici cristiane, sulle anime dell’Europa.
Pubblico una parte dell’intervento che il cardinale Gianfranco Ravasi ha scritto tempo fa per la rivista “East”, diretta da Vittorio Borelli ed edita da Baldini Castoldi Dalai. Lo faccio perché oggi l’Europa è nel pieno di una crisi gravissima, epocale. Proveniente dal greco “krinein” la parola “crisi” avrebbe un’origine medica e si riferirebbe a quel momento –“krisis”- dell’evoluzione della malattia giudicato pericoloso, difficile, decisivo. Bisogna saper ravvisare quel momento e decidere di fare una scelta che sarà determinante per la guarigione. C’è una frase di Borges per me illuminante: “Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà d’un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è”.
Sui destini d’Europa viviamo tutti un forte disincanto. Ma essa è necessaria, ancor più per quei milioni di giovani che aspettavano l’Europa della conoscenza e dell’innovazione e che stanno vivendo quella della disoccupazione di massa, del precariato e della crisi del Welfare. Come tanti della mia generazione ho creduto in un’Europa unita nella ragione e nella parità delle lingue e delle sue grandissime culture, e ci credo ancora anche se questa Europa non è poi nata, sembra anzi, da quando si è data le sue prime istituzioni, più lontana che mai. Il nostro continente è stato nei secoli un laboratorio di esperienze culturali e di idee politiche e sociali senza equivalenti in nessun’altra parte del mondo e l’identità europea nasce dal dialogo e dal dissenso fra molte culture politiche diverse. Il mondo europeo custodisce nelle sue profondità un apparato d’elaborazione pressoché unico per dare un senso umano alle sfide gigantesche (filosofiche, politiche, estetiche, religiose, tecnologiche, esistenziali) attraverso cui abbiamo posto le basi per il funzionamento dell’intero Occidente. La crisi di oggi è drammatica: il welfare rattrappito, la disuguaglianza crescente, la mancanza di lavoro, la miseria. L’Europa unita serve per scongiurare insieme le sciagure: ieri le guerre, oggi la contrazione economica, la povertà, il mutamento climatico, le possibili guerre civili. Questa è la natura delle nostre menti e dei nostri cuori: persino quando sogniamo, essi provano sempre a salvare dalla distruzione quello che abbiamo vissuto.
Non dimentico, infine, quel motto di David Maria Turoldo voluto dal cardinale Ravasi quale simbolo del “Cortile dei gentili”: “Fratello ateo, nobilmente pensoso,/ alla ricerca di un Dio / che io non so darti / attraversiamo insieme il deserto”.
Gennaro Cucciniello
“L’Europa non ha quasi mai avuto una unità civica, politica o storica. Ma per secoli ha avuto una sua unità civile, culturale e spirituale. La stella polare di riferimento e contrasto è stato il Cristianesimo, ma anche la filosofia greca, il diritto romano, l’illuminismo liberale e del movimento operaio, inteso come lotta per la giustizia sociale, hanno giocato il loro innegabile ruolo.
C’è un suggestivo gioco di parole che è stato coniato dai giovani dei vari Paesi europei in occasione dei loro incontri di matrice religiosa: essi parlano di Eur-hope, un’Europa dunque da costruire nella speranza e non solo nel realismo dell’economia e della politica. Una comunità che sappia ancora tendere verso ideali e orizzonti più alti, stimolati dalla cultura, da una “politica” che riveli il senso più nobile del termine e da una spiritualità che non è solo confessione religiosa, ma anche ricerca del senso ultimo dell’esistenza e dei valori morali e umani che trascendono interessi e contingenze. Per raggiungere questa meta è paradossalmente necessario risalire lungo il fiume del passato, ritrovando le proprie sorgenti umane e spirituali. E’ ciò che il grande Goethe esprimeva in modo folgorante con la battuta: “La lingua materna dell’Europa è il cristianesimo”. Anche Kant era convinto che “il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà”.
Certo, a prima vista l’Europa si rivela come un mosaico, un vero e proprio arcipelago di culture: c’è l’area latina ma anche quella germanico-baltica, c’è l’area slava e c’è quella celtica. L’Europa non ebbe quasi mai un’unità civica o politica o storica. Tuttavia ebbe sostanzialmente per secoli e secoli una sua unità civile, culturale e spirituale. L’anima di questa unità interiore, spesso appannata o coperta da sedimenti ma mai spenta, ebbe anch’essa molte iridescenze: pensiamo solo al rilievo della filosofia greca o all’incidenza del diritto romano, ma anche, se giungiamo alle epoche più recenti, pensiamo all’influsso dell’Illuminismo liberale o del movimento operaio, cioè della ragione e della lotta per la giustizia sociale. Tuttavia è indubbio che il nodo d’oro che tenne insieme questa molteplicità o il filtro che ne vagliò gli effetti o anche la stella polare di riferimento e di contrasto fu il cristianesimo. (…)
Il cristianesimo, con la sua celebrazione della persona e della dignità umana, con la contemplazione (ora) e l’impegno sociale (labora) del monachesimo, con la riflessione del Medio Evo e con la cultura gloriosa dell’Umanesimo e del Rinascimento, costituiva il grande “codice ideale” dell’Europa. In particolare lo era attraverso la Bibbia, coinvolgendo così anche le matrici ebraiche (…) Il pittore Marc Chagall era convinto che per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell’”alfabeto colorato della speranza” che sono le Sacre Scritture, tant’è vero che senza la loro conoscenza è impossibile decifrare l’iconografia dell’arte europea. E’ naturalmente impossibile delineare ora la planimetria di questa storia culturale che ha nel cristianesimo quasi il suo “grande lessico”, per usare un’espressione del poeta francese Paul Claudel. Si tratta, infatti, di un rapporto estremamente complesso, non di rado dialettico e fin conflittuale, che però risulta decisivo per la comprensione della nostra stessa identità. Perciò anche per la storia presente dell’Europa è necessario tener presente l’illuminante contrappunto che Cristo propone in quella sua celebre asserzione: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (vedi Matteo 22, 15-22). La sfera politica, economica, “laica” ha una sua dignità e una sua autonomia emblematicamente rappresentata da un parlamento comune e da una moneta, l’euro. Ma c’è un’altra sfera che è distinta ma non antitetica, ed è quella della persona umana, della cultura, della spiritualità ove si configura l’immagine non di Cesare ma di Dio: infatti, “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò” (Genesi 1, 27). L’Europa di Cesare e l’Europa di Dio, cioè immanenza e trascendenza, politica e religione, economia e cultura devono intrecciarsi tra loro, senza reciprocamente prevaricare. In questa luce il cristianesimo è, come affermava Francesco De Sanctis, spirito laico dell’Ottocento, la radice del nostro “sentimento religioso che è lo stesso sentimento morale nel suo senso più elevato” (così nell’opera La giovinezza).
E’ su questa traiettoria che vorremmo, proprio sulla scia dell’anima cristiana che pulsa sotto la superficie della nostra civiltà, proporre un appello che impedisca la dissoluzione della nostra specificità, della nostra autenticità, della nostra identità gloriosa. E’ un discorso passibile di mille sfaccettature: noi ne scegliamo –considerati i limiti di questa riflessione soltanto “provocatoria” e quasi “impressionistica”- solo tre, componendole in un ideale trittico nel quale tutti riescano a riconoscersi e a impegnarsi, dato che “non possiamo non dirci cristiani” per le ragioni che Croce ebbe già a formulare nel suo famoso intervento del 1942 su La Critica.
E’ innanzitutto necessario lottare contro la smemoratezza nei confronti delle proprie radici, dei valori costitutivi, dell’identità genuina dell’Europa. Lo scrittore francese Georges Bernanos in una sua analisi dello svuotarsi dell’anima della nostra società, sviluppata nel saggio “La France contre les robots”, dichiarava: “Una civiltà non crolla come un edificio; si direbbe molto più esattamente che si svuota a poco a poco della sua sostanza finché non ne resta più che la scorza”. C’è il rischio che l’Europa si riduca proprio a scorza, a tronco arido, avendo disseccato la linfa delle sue radici profonde cristiane, votata solo alla “virtualità” (i Robots che si affacciavano sul panorama europeo degli anni Quaranta in cui viveva Bernanos), appiattita su modelli estrinseci come quello americano contemporaneo. Le cattedrali e i gloriosi monumenti si trasformano allora, come diceva il poeta tedesco Whilhelm Willms, in “vuoti gusci di chiocciola”, percorsi solo da distratti sciami di turisti, privi di cuore, di vita, di canti, di voci, di fede. I nobili segni della nostra cultura si riducono, così, a essere conchiglie senza l’eco del mare del passato. (…)
Un seconda lotta è da intraprendere ed è quella, conseguente alla precedente e ad essa connessa, contro la superficialità, la banalità, la vacuità, la volgarità, la bruttezza. E’ un ritorno all’etica e alla bellezza che erano le stelle fisse del cielo della civiltà europea nei secoli, proprio sullo stimolo del messaggio cristiano, un annunzio di giustizia e di bellezza, di verità e di luce, di amore e di armonia. Aveva ragione Benedetto Croce quando in un opuscolo del 1935, Orientamenti, ammoniva: “Non vi date pensiero di dove vada il mondo, ma di dove bisogna che andiate voi per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi del vostro passato tradito”. E’ necessario un sussulto di moralità, un supplemento di anima, una purificazione alle fonti della bellezza, realtà che hanno reso l’Europa un vessillo tra i popoli del mondo. (…) Sempre più quella sorta di Moloch della comunicazione che è la televisione comunica solo –a folle di persone con le mani alzate in segno di resa o di adorazione- ciò che dobbiamo mangiare, indossare, le mode e i modi della vita. Manca una voce che indichi la rotta, il senso della vita, che ci interpelli sul bene e sul male, sul giusto e sull’ingiusto, sul vero e sul falso, sull’esistere e sul morire.
Infine c’è un ultimo impegno che vogliamo evocare per ritornare a essere autenticamente europei ed è quello della lotta contro gli estremi, gli eccessi, la spirale delle pure antitesi. La cultura greca ci ricordava che il sapiente è un uomo meth’orios, “da crinale”, capace di procedere con intelligenza e cautela sul vertice tagliente di un monte, lungo il quale si distendono due versanti (così l’alessandrino ebreo Filone nel De Somniis). Da un lato, infatti, si può scivolare lungo il versante di un sincretismo che diventa relativismo incolore e che spegne e dissolve la nostra identità specifica. Dostoevskij con veemenza gridava: “L’Europa ha rinnegato Cristo. E’ per questo, è solo per questo che sta morendo”. D’altro lato, c’è il rischio di precipitare lungo il versante del fondamentalismo che diventa esclusivismo acceso e che cancella ogni rispetto e ignora ogni valore altrui, in una sorta di foga iconoclastica, feroce e impaurita al tempo stesso, nei confronti di tutto ciò che è diverso. E’, invece, indispensabile ritrovare la grande tradizione del dialogo, del confronto tra le culture e le religioni, nello spirito di quel cristianesimo genuino –spesso tradito- che vedeva i semina Verbi, cioè i semi del verbo divino nella molteplicità della ricerca umana. (…)
E’, dunque, risalendo lungo il corso del fiume della storia europea sino alle sue sorgenti che riusciamo a riproporre un’Europa che non sia solo geografica o economica. E che questo pellegrinaggio ideale, necessario per credenti e per agnostici, sia decisivo lo ricordava in modo suggestivo uno dei massimi poeti del ‘900, Thomas Stearns Eliot, un americano che scelse l’Europa come patria: “Un cittadino europeo può non credere che il cristianesimo sia vero e tuttavia quel che dice e fa scaturisce dalla cultura cristiana di cui è erede. Senza il cristianesimo non ci sarebbe stato neppure un Voltaire o un Nietzsche. Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto”.
Gianfranco Ravasi