La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La religione cristiana e la Chiesa cattolica romana. “La carità domenicana”
E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.
Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.
Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dello studio obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
“La carità domenicana” 30 marzo 1836
M’è stato detto da perzone pratiche
che nun zempre li frati a Ssant’Ufizzio
tutte le genti aretiche e ssismatiche
le sarveno coll’urtimo supprizzio. 4
Ma, siconno li casi e le brammatiche
pijeno per esempio o Caglio o Ttizzio,
e li snèrbeno a ssangue in zu le natiche
pe convertilli e métteje giudizzio. 8
Lì a sséde intanto er gran inquisitore,
che li fa sfraggellà ppe lòro bene,
beve ir zuo mischio e dà lode ar Ziggnore. 11
“Forte, fratelli”, strilla all’aguzzini:
“Libberamo sti fiji da le pene
de l’inferno”; e qui intiggne li grostini. 14
“La carità dei frati domenicani”
Mi è stato riferito da persone molto informate che non sempre i frati –nel tribunale e nei processi del Sant’Uffizio- salvano dal peccato, con la pena di morte, tutti gli eretici e gli scismatici. Ma –a seconda dei casi e delle Prammatiche (nel linguaggio giuridico romano –dal sec. V in poi- erano i provvedimenti diretti a regolare in modo definitivo l’applicazione di una determinata norma a casi concreti)- pigliano per esempio o Caio o Tizio e li frustano a sangue sulle natiche per convertirli alla vera religione e mettere loro giudizio. In quelle sale intanto sta seduto sulla sua poltrona il grande inquisitore, colui che li fa dilaniare e ridurre in pezzi per il loro bene, e beve il suo caffè e cioccolato e offre lodi al Signore. “Torturate forte, fratelli”, strilla agli aguzzini: “Liberiamo questi figlioli dalle pene dell’inferno”; e qui intinge i crostini.
Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).
Le quartine. E’ bene sottolineare subito che questo sonetto è stato scritto nello stesso giorno, il 30 marzo 1836, nel quale Belli aveva composto “La pantomina cristiana” e a qualche mese di distanza da “La riliggione der tempo nostro”, tutti testi nei quali, oltre alla polemica evidente verso una religiosità tutta esteriore e coreografica, il racconto si struttura con suggestiva teatralità. E il giorno dopo, il 31 marzo, il nostro poeta scriverà “Er miserere de la sittimana santa”, altro grandioso affresco di coreografia baroccheggiante.
Qui, a introdurre il discorso, è un osservatore che si dimostra abbastanza informato sulle procedure dell’Inquisizione. L’andatura meditativa, cronachistica è intercettata da una sapida ironia che si appunta, con le rime, su dettagli divertenti: “tutte le gente aretiche e ssismatiche… li snèrbeno a ssangue in zu le natiche”; pe convertilli e mètteje giudizzio… le sarveno coll’urtimo supprizzio”.
Le terzine. Nei versi finali la scena di colpo si trasforma e assume toni cupi e inquietanti. Il grande Inquisitore, seduto in poltrona, pasteggia con caffè e cioccolato. Gli inservienti si danno da fare con gli strumenti di tortura. E anche in questo caso le rime sono illuminanti: er gran inquisitore… dà lode ar Ziggnore; libberamo sti fiji da le pene… li fa sfraggellà ppe loro bene; strilla all’aguzzini… e qui intiggne li grostini”. Il nostro poeta si è trasformato in un reporter alle frontiere della conoscenza e delle denuncia. Ha saputo trovare gli elementi essenziali e comunicarli con chiarezza. Non solo un atto narrativo ma un atto cruciale del pensiero. La precisione dei dettagli e la svolta improvvisa della trama raccontano i personaggi, le figure complesse dei buoni e dei cattivi che in realtà è difficile classificare una volta per tutte da una parte o dall’altra della barricata dove si combattono il bene e il male.
Il 31 marzo 1836, soltanto un giorno dopo, Belli scrive un sonetto in tema:
“La messa in copia”
Nun è pprete er zor Conte, sora Checca,
ma vistito in pianeta a la pretina
sta a l’artare in cappella oggni matina
un’ora a celebbrà la “messa secca”. 4
E bisoggna sentì come s’imbecca
queli sciroppi de lingua latina:
e bisoggna vedé come s’aìna
cor calicetto, e come se lo lecca! 8
Pe cirimonie poi e ppe ssegrete
manco er decane der Zagro Colleggio
farìa mejo de lui la scimmia a un prete. 11
Ma nun conzagra! Eh nun è questo er peggio,
perché in ner cunzumà, sposa, vedete,
che ar meno nun commette un zagrileggio. 14
Il signor Conte non è un prete, signora Checca, ma vestito con la cotta e la pianeta –come se fosse un pretino- ogni mattina in cappella sta sull’altare un’ora a celebrare la “messa secca” (era quella messa che veniva celebrata da alcuni devoti per imitazione di quella vera). E dovresti sentire come ripete e recita tutti quegli sciroppi in lingua latina: e dovresti vedere come si affaccenda col piccolo calice, e come beve il vino e ne lecca il bordo! Poi per le cerimonie e per le orazioni “segrete” della messa –quelle recitate dal sacerdote a bassa voce- neanche il cardinal decano del Sacro Collegio imiterebbe un prete meglio di lui (come se il Decano non fosse un prete). Ma, ecco, non consacra! Beh, non è questo il peggio, perché nel comunicarsi, sora sposa, vedete, almeno questo contino non commette un sacrilegio (con sarcasmo si sottintende che i preti veri a volte lo commettono, comunicandosi in stato di peccato mortale).
Gennaro Cucciniello