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Leopardi, “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” (22 ottobre 1829-29 aprile 1830). Una lettura.
Questo è un lavoro scritto nel dicembre del 1992 da una studentessa del quinto anno del Corso Propedeutico all’Università dell’Istituto “L. Stefanini” di Venezia-Mestre, iniziato in classe e poi completato a casa. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di acute osservazioni e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, anche se vagliate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica), inevitabilmente ricavate dai manuali scolastici e da alcune pagine saggistiche studiate in precedenza. Mi ha interessato, invece, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture, il non rinunciare al piacere delle idee e dei pensieri pazienti e curiosi. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero. Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. E credo anche che la scuola dovrebbe essere un vivaio di menti indagatrici, quelle persone curiose che Francesco Bacone, nel ‘500, definiva “mercanti di luce”.
Con il tempo ho imparato che l’apprendere è una grande fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla. Non voglio, perciò, che questi micro-testi (anche se sono manifestazioni esteriori di pensieri legittimamente ingenui) siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi.
Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.
prof. Gennaro Cucciniello
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga 5
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore. 10
Sorge in sul primo albore,
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera;
altro mai non ispera. 15
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale? 20
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti ed alta rena, e fratte, 25
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anèla,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta, 30
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso, 35
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica, 40
edè rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene, 45
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato 50
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura, 55
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale. 60
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo 65
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto 70
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci 75
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano, 80
che,in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggioando a mano a mano;
e quando miro in ciel arder le stelle;
dico fra me pensando: 85
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza 90
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa, 95
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento, 100
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata, 105
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno, 110
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno 115
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente,ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge 120
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei. 125
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia,né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso, 130
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una, 135
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei,dolce mia greggia,
più felice sarei,candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero 140
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
Metro: canzone libera, articolata in sei strofe di diversa lunghezza, nelle quali si alternano endecasillabi e settenari. Un’identica rima in “ale” chiude tutte le strofe.
Ho costruito questo schema sequenziale:
- 1-8 Il poeta interroga la luna.
- 9-20 La vita del pastore somiglia alla vita della luna.
- 21-38 La fine di una vita umana travagliatissima.
- 39-51 La vita è dolore, fin dalla nascita.
- 52-60 La vita è sventura e la luna è indifferente al nostro dolore.
- 61-78 Le domande alla luna si rinnovano ma non hanno risposta.
- 79-89 Le domande del pastore si concentrano sui fenomeni celesti.
- 90-99 Il pastore niente sa, la luna di certo tutto sa.
- 100-104 Eternità dell’universo, fragilità e dolore della vita di Giacomo.
- 105-116 Il pastore ora interpella la greggia, che riposa placida.
- 117-123 Il pastore-poeta assalito dal tedio.
- 124-132 La sorte degli animali è contrapposta a quella dell’uomo.
- 133-138 Il volo fantastico e impossibile.
- 139-143 La conclusione negativa e assoluta.
Leopardi derivò lo spunto da un articolo del “Journal des savants” di Parigi (settembre 1826), che riportava il “Viaggio da Orenbourg a Boukhara” del barone di Meyendorff: “molti di essi (pastori nomadi dell’Asia) passano la notte seduti su una pietra a guardare la luna, e ad improvvisare parole assai tristi su arie che non lo sono meno”.
- 1-8 Il poeta interroga la luna. Cosa fai tu, luna, in cielo? Qual è lo scopo della tua esistenza, la ragione del tuo essere e del tuo vagare? Dimmi, cosa fai, luna silenziosa? Di sera sorgi e ti metti in cammino e contempli le vaste steppe disabitate; poi, al sorgere del nuovo giorno, tramonti. Ancora non sei appagata, dopo aver ripetuto infinite volte nei millenni lo stesso uguale tragitto, di ripercorrere le eterne vie del cielo? Non ti è ancora venuto a noia il cammino, c’è ancora qualcosa, forse, che ti fa desiderare di rifare la via, di ammirare le valli di questa nostra terra?
Colpisce subito, fin dall’inizio, la frequenza delle ripetizioni, vicine o distanti, che secondo taluni critici danno al canto il ritmo di una nenia dolente o di un canto religioso: che fai ( due volte già nel primo verso, familiare e desolato), luna (vv. 1 e 2), ancor (vv. 5 e 7), sei (ibidem). Le ripetizioni si intrecciano al parallelismo (il già citato che fai, ancor non sei tu paga… ancor non prendi… ancor sei vaga (vv. 5 e 7) e costruiscono una sintassi deliberatamente povera, in compagnia di un lessico ridotto e semplificato. I verbi si rincorrono in una serie curiosamente trinitaria, sorgi-vai-ti posi (vv. 4-5), non sei paga-non prendi a schivo-sei vaga (vv. 5-7), poi binaria (riandare-mirar, vv. 6-8).
La luna, in questa fase iniziale, è detta silenziosa, con una citazione da Virgilio, “tacitae per amica silentia Lunae” (Eneide, II, 255); del resto in una Operetta, il “Dialogo della terra e della luna”, l’aveva chiamata “amica del silenzio”. L’aggettivo sembra già sottolineare un rifiuto consapevole della luna a rispondere alle domande del pastore. Sembra quindi che da subito la luna sia presentata non solo o non tanto come confidente dell’ingenuo nomade, una presenza consolatrice, quanto invece come un’entità da cui invano si aspettano risposte a interrogativi esistenziali e conoscitivi di portata universale.
Un cenno, infine, all’uso della rima e dell’assonanza. La critica insiste su un impiego nuovo, quasi a disegnare un’eco remota, come se Leopardi fosse alla ricerca di sonorità nuove. Si notino le coppie paga-vaga (vv. 5-7) e calli-valli (vv. 6-8), come pure il sorgi-posi (vv. 3-4): esse sembrano sottolineare il ripetersi sempre uguale del moto della luna e lo stupore del pastore nel pensarci.
- 9-20 La vita del pastore somiglia alla vita della luna. La vita del pastore è simile alla tua. Egli si alza alle prime luci dell’alba, fa muovere le sue pecore sempre più avanti per la campagna, vede altre greggi, fonti d’acqua, prati (nessun essere umano), poi –arrivato a sera- stanco si riposa: non desidera mai altro dalla vita. O luna, dimmi: che valore ha per il pastore la sua vita, che senso ha per voi (astri del firmamento) la vostra vita? Dimmi: qual è il fine della mia effimera vita nomade e quello del tuo viaggio perpetuo preordinato dalle leggi dell’universo eterno?
Comincia l’identificazione-antitesi tra il vagare breve dell’uomo e il corso immortale degli astri, che è uno dei motivi più alti di questo canto. C’è una musica lirica lenta, distaccata, quasi una stanchezza monotona: il pastore vaga solitario tra i deserti. La solerzia dei critici ha da subito osservato che tra le espressioni dedicate alla luna e quelle dedicate al pastore c’è una corrispondenza esatta: sorgi la sera (v. 3)… sorge in sul primo albore (v. 11), indi ti posi (v. 4)… poi stanco si riposa (v. 14); e il ripetersi delle preposizioni (in sul primo, v. 11; oltre pel, v. 12; in su la sera, v. 14) genera proprio un’impressione di lentezza stanca.
Ancora le ripetizioni e i parallelismi. La parola “vita” ricorre ben quattro volte in coppie che producono anche rime interne (vv. 9-10, 17-18: la sua vita, la vostra vita); pastore (vv. 10 e 17); dimmi (v. 16) riprende il dimmi del v. 1 e ci sarà ancora nel v. 18, con più ansia e insistenza; sorge del v. 11 e il sorgi del v. 3; si riposa… posi dei vv. 14 e 4; greggia… greggi dei vv. 12 e 13; vede greggi, fontane ed erbe… contemplando i deserti dei vv. 13 e 4; in su la sera… la sera dei vv. 14 e 3. Mi sembra importante far notare l’a che vale? del v. 16 che, riprendendo il che fai del primo verso, chiarisce il senso di quella domanda che era già nella Bibbia, Ecclesiaste, I, 3: “Quid habet amplius homo de universo la bore suo, quo laborat sub sole? Quale vantaggio ricava l’uomo dallo sforzo grandissimo che sopporta sotto il sole?”. Preziosi sono i chiasmi dei vv. 17-20: al pastor la sua vita,/ la vostra vita a voi; vagar mio / tuo corso. E c’è anche una forte evidenza dell’antinomia: il “breve vagar del pastore” contro “il corso immortale della luna” a sottolineare il confronto ma anche l’irrimediabile differenza; il paragone accosta ma anche separa due vite che restano infinitamente distanti e incomunicabili (si noti la mancanza della congiunzione “e” fra le due frasi). L’affermazione del v. 15, altro mai non ispera, introduce tra le due serie di domande una nota dolorosa. Leopardi è guidato dalla sua concezione della lirica come genere poetico che precede tutti gli altri ed è capace di esprimere i sentimenti anche dell’uomo incolto e primitivo.
Poi le rime e le assonanze, numerose: pastore, albore; vede, tende, erbe, breve; sera, ispera; vale, immortale. Cominciamo ad avvertire la perfetta unione di contenuti difficili ed aspri con una forma piacevole e musicale.
- 21-38 La fine di una vita umana travagliatissima. Un vecchietto canuto, malsicuro, cencioso e senza scarpe, con un pesantissimo carico sulle spalle, corre, ansima e va per montagne e per valli, su pietraie aguzze e dune sabbiose (dove il piede affonda) e burroni pieni di rovi e sterpi, tormentato dai venti e dalle tempeste, nelle ore canicolari d’estate e al gelo d’inverno, supera torrenti e paludi, corre via, corre, ansima a causa dello sforzo, attraversa torrenti e stagni, cade, si rialza, e ancora si affretta, senza sosta e riposo, lacero, sanguinante, finché arriva a quel punto verso il quale si era indirizzato tutto quel cammino, tutto quell’affaticarsi: la voragine orribile, sterminata, della morte, del nulla eterno, nella quale egli –precipitando- dimentica ogni cosa, la fatica e la sua vita, persino la memoria della sua esistenza. Luna verginale, non toccata dalle miserie umane, tale è la vita mortale.
Un passo dello Zibaldone, (17 gennaio 1826) ci rivela che il concetto spiegato in questi versi (cioè l’attribuzione ad un essere debolissimo di una fatica immane) era già chiaro nella mente di Leopardi: “Che cosa è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso, per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere”. La vita umana è osservata dal punto di vista del baratro nel quale il simbolico “vecchierel” precipita: l’abisso orrido, immenso della morte che rende vane le fatiche degli uomini e la lotta dura per la sopravvivenza. Il diminutivo è di chiara derivazione petrarchesca: “Movesi il vecchierel canuto e bianco”, Canzoniere, XVI, 1, e “la stanca vecchierella pellegrina”, ibidem, L, 5. Un critico ci rinvia anche a un’orazione di Bossuet, grande predicatore francese del ‘600, conosciuto dal nostro poeta: “La vita umana è simile a un cammino, il cui sbocco è un precipizio orrendo. Mille traversie, mille pene ci affliggono e tormentano lungo il sentiero: potessi almeno evitare quel precipizio orribile. No, bisogna andare avanti, bisogna correre…”.
I versi descrivono il disagio del viaggio: prima la conformazione del terreno, dal generale al particolare (montagne, valli, sassi aguzzi, profonda sabbia, macchie o sterpeti), poi gli accidenti atmosferici (vento, tempesta, caldo, gelo), e qui dominano le assonanze (montagna, alta, avvampa; valle, fratte). Perseguitato da queste avversità il vecchietto non si dà pace o tregua: e in questa fase si infittiscono le ripetizioni (corre via, corre, v. 28), le rime (gela, anela, in assonanza con s’affretta, vv. 27-30), persino un climax (cade, risorge, e più e più s’affretta, v. 30). Nel ritmo, nel susseguirsi delle espressioni, velocissime eppure interrotte da pause continue, con frequenti cesure, si sentono quasi l’ansia e la fatica di quella corsa, rivolta verso il nulla; il suo cammino faticoso tocca le varie stagioni dell’anno, non c’è la cronaca realistica, c’è il simbolo. Un gioco retoricamente raffinato cesella lo sbocco finale, col verso che si dilata in modo straordinario, “abisso orrido, immenso”: con una vocale atona di fine parola e vocale iniziale tonica della parola che segue, e tra vocali finale di parola e iniziale della successiva separate dalla virgola. Infine è da notare la forza assertiva, irrimediabile, della rima baciata finale ai vv. 37-38, tra due settenari, “tale / mortale”, e in interessante assonanza con spalle, valle (in rima, ai vv. 23-24) e fratte e cade (ai vv. 25 e 30).
- 39-51 La vita è dolore, fin dalla nascita. Nasce l’uomo con penosa difficoltà e la stessa nascita è un rischio grave di morte. Per prima cosa prova pena e tormento; e all’inizio stesso della vita, proprio nel momento del felice evento, la madre e il padre cominciano a consolarlo per il fatto di essere nato. Dopo, man mano che il bimbo cresce, entrambi lo sorreggono, lo confortano; e, di seguito, a mano a mano che avanza negli anni cercano in ogni modo di fargli coraggio, di rincuorarlo della condizione sua e degli uomini in genere. Non è possibile che i genitori compiano dovere più grato nei confronti dei loro figli.
Sostiene la critica che in questo canto, e segnatamente in questa strofa, sono riassunte meditazioni sparse in luoghi diversi dello Zibaldone. C’è un passo della carta 68 del 1819, cioè dei primissimi tempi: “Il nascere stesso dell’uomo cioè il cominciamento della vita è un pericolo della vita, come apparisce dal gran numero di coloro per cui la nascita è cagione di morte, non reggendo al travaglio e ai disagi che il bambino prova nel nascere”. E qualche anno dopo, nel 1822 (cfr. Zibaldone 2607), scrive: “Così tosto come il bambino è nato convien tosto che la madre che in quel punto lo mette al mondo, lo consoli, accheti il suo pianto, e gli alleggerisca il peso di quell’esistenza che gli dà”. Cfr. anche Lucrezio, De rerum natura, V, vv. 226-227: “riempie lo spazio di lugubri vagiti, come è giusto per chi nella vita dovrà attraversare tanti mali”. Ma c’è una nota ancora più intima, un documento che Giacomo può aver conosciuto nell’archivio paterno. E’ una lettera circolare a stampa che Monaldo aveva mandato a tutti i parenti ed amici in occasione della nascita del poeta: “Con vero contento, ho l’onore di parteciparle come venerdì 29 scaduto alle ore 19 Adelaide Antici mia moglie sgravò felicemente di un maschio dopo nove mesi di matrimonio. Tanto più grave è il mio giubilo, quanto che preceduto da quarantotto ore di pena per le lunghe doglie sofferte dalla partoriente. Al sagro fonte s’impose al neonato il nome di Giacomo (5 luglio 1798)”. Trova così giustificazione il ricorrere tre volte del verbo “consolare” a brevissima distanza l’una dall’altra (vv. 44, 49, 54), con l’aggiunta di “fargli core” (v. 48) e ben si comprendono le pause stanche, il rimare lento (nascimento-tormento, viene-sostiene, stato-grato, parole-prole).
Si è operato un rovesciamento di prospettiva rispetto alla strofa precedente: non più la morte ma la vita, osservata nel giorno festoso della nascita; e le lacrime dei bambini sono la prima espressione del dolore che li accompagnerà per sempre.
- 52-60 La vita è sventura e la luna è indifferente al nostro dolore. Ma perché far nascere, perché mantenere in vita colui che poi bisognerà consolare della sua esistenza? Se la vita è sventura, perché da noi è sopportata, perché la si vuol far durare? Pura, incontaminata luna, non toccata dalle miserie del mondo, questa è la condizione umana. Ma tu non sei mortale e forse queste mie parole non ti toccano (il nostro è un colloquio senza una possibilità di risposta).
Le parole di Leopardi non sono rivolte ai genitori degli esseri umani ma alla natura, che è la loro prima procreatrice e che crea tale inganno e tale sofferenza. Commenta il De Sanctis: “Chi medita non è un viaggiatore-filosofo ma è l’anima semplicetta di un pastore, che sa nulla e contempla innamorato la luna e le stelle, e fantastica sul fine e sull’uso della vita, incalzato da tanti perché, a cui non trova risposta. La profondità del concetto è questa, che in ultimo il filosofo ne sa quanto il pastore, e che quello che appare un’ignoranza e una semplicità del pastore è appunto la verità”. La ragione, che è potente nello smascherare le credenze false, è insufficiente a comprendere “l’orribile mistero delle cose e della vita universale” (Zibaldone, p. 4099).
Ancora una volta sono le rime, anche baciate (sventura/dura, vv. 55-56, in inquietante assonanza con luna, v. 57; tale/mortale/cale, vv. 57, 58, 60), che provocano uno snodarsi del ritmo, uno di quegli accordi che segnano l’intonazione dolorosa e pausata di questo canto. Le domande, insistenti, sembrano pesanti e retoriche ma sono riscattate da quell’orizzonte desertico, da quella figura antichissima di pastore, dalla intatta luce lunare. Le domande sono autentiche ma in fondo retoriche: in realtà il pastore –col suo lamento profondo e struggente- interroga se stesso e può contare solo sulle proprie esigue forze. Nella chiusa della stanza sfocia la tristezza poetica del canto e torna, ribadita, la conclusione della seconda strofa; ma si affaccia, anche, il tema dell’impassibilità della natura di fronte allo stato mortale: “e forse del mio dir poco ti cale”.
Tutto il passo può ancora una volta essere confrontato con una pagina dello Zibaldone: “E l’uno de’ principali uffizi de’ buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di consolarli, d’incoraggiarli alla vita; perciocché i dolori e i mali e le passioni riescono in quell’età molto più gravi, che non a quelli che per lunga esperienza, o solamente per esser più lungo tempo vissuti, sono assuefatti a patire. E in verità conviene che il buon padre e la buona madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli, emendino alla meglio, ed alleggeriscano il danno che loro hanno fatto col procrearli. Per Dio! Perché dunque nasce l’uomo? E perché genera? Per poi racconsolar quelli che ha generati del medesimo essere stati generati?” (p. 2607, 13 agosto 1822).
- 61-78 Le domande alla luna si rinnovano ma non hanno risposta. Eppure tu, solitaria instancabile ed eterna viaggiatrice, che sei così pensosa e consideri tante cose–passando sui deserti immensi della terra-, tu forse capisci questa nostra vita terrena, i nostri patimenti, le nostre sofferenze; cosa sia questo morire, la morte vista nell’ultimo pallore del volto e nella perdita degli affetti più cari e consueti, unico conforto alle miserie del vivere. E certamente tu conosci la ragione ultima delle cose e sai quale sia lo scopo ultimo del mattino, lo scopo della sera e del silenzioso, infinito scorrere del tempo. Certamente tu sai a quale dolce innamorato sorrida la primavera, a chi giovi il caldo ardente dell’estate e quali utilità procuri l’inverno con i suoi ghiacci. Mille cose tu sai, mille cose tu scopri che sono nascoste al pastore ingenuo, che non sa nulla.
La ricerca del poeta ora sale dalle vicende degli uomini a quelle della terra e dell’universo. La luna rimane indifferente alle domande del pastore eppure questi non demorde, le rinnova, con più affetto e senza delusione, con voce più tenera, direi. Una prima volta egli usa il forse intendi (v. 62), poco dopo –in rima-il tu certo comprendi (v. 69), poi il vedi (v. 70), di nuovo il tu sai, tu certo (v. 73) e infine mille cose sai tu, mille discopri (v. 77), con una persuasione sempre maggiore che la natura tutto sappia e nulla riveli. Di fronte alla ragione ultima delle cose tanto vale la saggezza quanto l’ignoranza. Perciò, e su questo è concorde la critica, la voce del pastore suona così universale. Con un crescendo interessante e un incalzare di verbi all’infinito il poeta ci spiega: dal viver terreno (v. 63) si passa al patir nostro (v. 64) e poi il sospirar, fino all’impallidire della morte (questo supremo scolorar del sembiante) e allo scomparire totale dal mondo di chi muore (e perir dalla terra, vv. 65-67), con una nota intensa e profonda. La serie di domande del pastore riecheggia, e non è la prima volta, la Bibbia: “Qual è la via dove abita la luce? Qual è il luogo delle tenebre?… La pioggia ha forse un padre? O chi genera le gocce di rugiada? Dal seno di chi esce il ghiaccio? La brina del cielo chi la partorisce?” (Giobbe, 38, 19 e sgg).
Il motivo dell’usata, amante compagnia (v. 68) era stato affrontato da Leopardi poco tempo prima, nel settembre 1827, nel “Dialogo di Plotino e Porfirio”, nel quale così aveva fatto parlare Plotino: “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora”. Il tema sarà ripreso, con più efficacia ancora, ne “La Ginestra” (vv. 114-118). E sul mistero della morte cfr. il Coro dei morti nel “Dialogo di Federico Ruysch”: Che fummo? / Che fu quel punto acerbo / che di vita ebbe nome? / Cosa arcana e stupenda / oggi è la vita al pensier nostro, e tale / qual de’ vivi al pensiero / l’ignota morte appar”.
- 79-89 Le domande del pastore si concentrano sui fenomeni celesti. Spesso quando io ti contemplo stare così muta (come se conoscessi dei segreti e non volessi rivelarli) sulle pianure deserte, che confinano con il cielo nel giro lontano dell’estremo orizzonte; oppure muoverti e seguire me e il mio gregge nel nostro lento movimento; e quando contemplo in cielo scintillare le stelle; dico fra me pensando: a che scopo tante fiammelle? Qual è il significato di questa aria infinita e di quel profondo indeterminato sereno? Cosa significa la solitudine e piccolezza della Terra in mezzo agli spazi immensi? E io cosa sono? Quale senso, quale scopo ha la mia vita?
Prima il pastore ha chiesto di cose che sono per lui misteriose ma familiari, ora la sua curiosità si concentra su quelle celesti; le domande si fanno serrate e stringenti sullo sfondo della visione vasta di deserti e di stelle. La luna, che era silenziosa (v. 2) e poi pensosa (v. 62), ora è muta (v. 80), è più forte l’accentuazione patetica, l’aggettivo fa sentire la sconsolata tristezza del colloquio perché c’è coscienza della vanità delle domande rivolte alla luna. Si può forse notare una suggestione dello “Jacopo Ortis” di Foscolo, di un passo della lettera del 14 maggio 1799 nel quale il giovane si rivolge alla luna: “Ti ho sempre salutata mentre apparivi a consolare la muta solitudine della terra”. Questo pastore non accusa la natura: ne lascia solo intuire, nel silenzio cosmico in cui cadono le sue angosciose interrogazioni, la spietatezza nascosta, forse impotente.
Il paesaggio non è più quello familiare di Recanati ma è un paesaggio remoto e astratto, solo la luna e le vaste steppe desertiche. Il mondo si allarga, si profila l’universo e quasi si sente nelle parole poetiche di Giacomo l’infinito e la solitudine immensa del cosmo, un vuoto appena interrotto dalle stelle. E la terra sperduta negli spazi, sola nel vuoto. Ma non è un infinito creato dall’immaginazione, è invece contemplato dalla ragione, perciò la poesia è nuda e severa, di puro pensiero. Le rime sono suggestive: piano, lontano, a mano a mano suggeriscono il parallelismo tra il muoversi lento delle pecore nel deserto e quello della luna nel cielo, due pellegrini solitari; stelle, facelle illuminano il buio della notte. Con un linguaggio semplice e spoglio, di miracolosa essenzialità e purezza, il poeta affronta direttamente i grandi problemi filosofici dell’esistenza umana.
In quel “dico fra me pensando” del v. 85 la critica ha notato la ripresa di un componimento in ottave della poetessa Vittoria Colonna (1490-1547), amica di Michelangelo, antologizzato nella Crestomazia leopardiana, nel quale dalla vista della primavera scaturisce la considerazione della brevità della vita: “dico tra me pensando: quanto è breve / questa nostra mortal misera vita”. E io voglio sottolineare anche un ritorno del modello costruttivo dell’Infinito: il gioco “questo-quello”, quel profondo infinito seren (dei vv. 87-88) e questa solitudine immensa (dei vv. 88-89), con in entrambi i casi una voluta enfasi degli enjambement a rimarcare l’idea di indeterminato.
- 90-99 Il pastore niente sa, la luna di certo tutto sa. Così ragiono tra me e me: e non so indovinare alcun fine, alcuno scopo sia dell’universo vastissimo e superbo, sia di tutti gli esseri che lo popolano, creature piante erbe; e poi di tutto questo affannarsi, di tutti questi movimenti di ogni cosa terrena e celeste, di questi astri che girano senza fermarsi mai e che tornano sempre al punto da cui son partiti. Ma tu, giovinetta immortale, certamente conosci il tutto.
La luna giovinetta (del v. 99) riprende e rafforza la qualità espressa dagli aggettivi Vergine (v. 37) e Intatta (v. 57). La luna è simbolo di una vita celeste immortale a cui il poeta attribuisce la comprensione di tutte le cose e senza il dolore della coscienza, la luna forse conosce la ragione del dolore umano, degli umani desideri, anche della morte e non se ne cura, non se ne può curare. E gli esseri terreni, d’altro canto, hanno il loro ciclo –che dal nulla li riconduce al nulla- attraverso incessanti e nuove forme di vita.
Il muoversi insensato di tutte le cose è descritto dal poeta con un incalzare di ripetizioni (tanto adoprar, tanti moti /ogni celeste, ogni terrena cosa /uso alcuno, alcun frutto), con la ripresa del polisindeto (vv. 90, 92, 93), con il sapiente intercalare dell’enjambement (vv. 90-91, 93-94, 97-98), col chiasmo del v, 97 (uso alcuno, alcun frutto) e l’incupirsi negativo della vocale “u” (vv. 97-99). Quanto al “tornar sempre là donde son mosse” del v. 96 io ricordo il foscoliano “e involve / tutte cose l’obblio nella sua notte;/ e una forza operosa le affatica / di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe / e l’estreme sembianze e le reliquie / della terra e del ciel traveste il tempo” (“I Sepolcri”, vv. 17-22).
- 100-104 Eternità dell’universo, fragilità e dolore della vita di Giacomo. Questo solamente io conosco per diretta esperienza, che dal muoversi interminabile degli astri e che dalla mia vita fragilissima qualcun altro –a me ignoto- deriverà forse qualche vantaggio o qualche gioia; per me, per quello che mi riguarda, la vita è un male.
“Questo” è piantato all’inizio del v. 100, efficace e determinato, soprattutto dopo il “conosci il tutto” del verso immediatamente precedente, indirizzato alla luna. Tanto più grande l’integrità e l’immortalità lunare se rapportate alla tristezza terrena del nostro poeta. Nel “Dialogo di Tristano e di un amico” Leopardi scrive: “se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa; e il giudizio di questa non può fallare”. E ancora nel “Dialogo di un fisico e di un metafisico”: “la vita infelice, in quanto all’essere infelice, è male”. E’ bene però avvertire che nella persona del pastore si riassume tutta l’umanità; e perciò che consolazione può dare all’uomo una sapienza imperscrutabile?
Qualche anno prima, nell’epistola Al Pepoli del 1826, il poeta aveva fatto un tentativo ambizioso di scrutare il mistero del mondo; ora, invece, c’è un riconoscimento abbandonato e doloroso che quel mistero, comunque indagato e spiegato, riesce solamente a mostrare il peso del male sull’umanità. Nello Zibaldone, 1852-53, “grandissima e principalissima parte della natura non si può conoscere senza sentirla, anzi conoscerla non è che sentirla”.
Nei versi 101-102, “che degli eterni giri,/ che dell’esser mio frale”, in questi due settenari a specchio, il poeta pone a confronto l’eternità dell’universo e la fragilità della vita umana con lo stesso procedimento dei vv. 19-20, “ove tende / questo vagar mio breve,/ il tuo corso immortale?”. E la rima “frale-male” dei vv. 102, 104, sottolineando il legame stretto tra la fragilità dell’esistenza umana di Giacomo e il dolore, richiama il desiderio di morte. Leopardi sa di essere parte di un cosmo ma sa anche di essere l’unico a poter porre le domande su se stesso: “a che tante facelle? e io che sono?”. Cerca così di riattivare la dimensione eroica della vita senza deliri di onnipotenza, un destino da compiere con gli altri, come accadrà alla sua ginestra nel deserto di lava del Vesuvio.
- 105-116 Il pastore ora interpella la greggia, che riposa placida. O pecore mie che riposate col corpo ma anche con l’animo, oh voi beate che non avete –credo- la coscienza del male! Come vi invidio! Non solo perché vivete libere quasi da affanni; perché ogni difficoltà, ogni danno, ogni paura grande –provata per un improvviso pericolo- subito scordate; ma soprattutto perché non provate mai non il dispiacere di qualcosa ma la noia dello stesso vivere. Quando giacete sdraiate all’ombra, sopra le erbe, siete contente e tranquille; e gran parte dell’anno e delle varie stagioni trascorrete in quello stato(paghe della vostra semplice vita biologica).
Fino ad ora il poeta-pastore si è rivolto alla luna; ora, con un passaggio suggestivo dall’universo stellare alla greggia, si rivolge agli animali e riflette su un male che è proprio solo degli uomini. Già nel “De rerum natura” di Lucrezio (II, 222 e sgg.) veniva istituito un confronto tra l’uomo, che nasce piangendo, e gli animali che non hanno bisogno di cure particolari, che sentono la vita solo istante per istante. Il critico Walter Binni, poi, ha segnalato la ripresa di un luogo delle “Notti” del poeta inglese Young: “… guida la tua gregge in un pascolo pingue. Tu non la udrai belare mestamente… Ma la pace di cui godono è negata ai loro padroni. Un tedio, una scontentezza che non dà tregua rode l’uomo e lo tormenta da mane a sera”. E nelle prime pagine dello Zibaldone noi possiamo già leggere: “Beati voi, se le miserie vostre non sapete. Detto, per esempio, a qualche animale, alle api ecc.” (I, 100). E questo pensiero sarà ripreso nelle “Operette morali”, nei “Detti memorabili di Filippo Ottonieri”: “Osservando insieme con alcuni altri certe api occupate nelle loro faccende, disse: Beate voi, se non intendete la vostra infelicità”.
Quanto al concetto di “noia”, poi, Leopardi scriveva nello Zibaldone, alla data del 4 maggio 1829: “L’assenza di ogni special sentimento di male e di bene, che è lo stato più ordinario della vita, non è né indifferente, né bene, né piacere, ma dolore e male… Quando l’uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l’infelicità nativa dell’uomo, e questo è quel sentimento nativo che si chiama noia”. E ancora: “Or che cos’è la noia? Niun male né dolore particolare (anzi l’idea e la natura della noia esclude la presenza di qualsivoglia particolar male e dolore), ma la semplice vita pienamente sentita e provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, e occupantelo” (8 marzo 1824, II, 874-875). Quindi per Giacomo la noia non è il dispiacere di qualcosa ma la noia dello stesso esistere, sensazione prima e fondamentale dell’uomo, derivata in noi dalla ragione, che ci induce a vagheggiare ideali e sogni sempre superiori al reale.
Ora l’attenzione del nostro poeta si concentra sulla minuta realtà che circonda il pastore e così preparerà, per contrasto, il volo fantastico dell’ultima strofa. Sono ancora presenti le ripetizioni, “ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor” dei vv. 110-111, una serie trinitaria scandita anche da un climax ascendente (dai mali piccoli e passeggeri ai pericoli mortali); la rima, non sai – libera vai dei vv. 106 e 109, quasi in un nesso di causa-effetto; le assonanze scordi-provi (vv. 111-112) e anno-stato (vv. 115-116).
- 117-123 Il pastore-poeta assalito dal tedio. Eppure anche io trascorro come voi le ore in riposo sopra l’erba, all’ombra, e tuttavia una continua angosciosa insoddisfazione occupa la mia mente e quasi mi sembra che un’ansia inquieta dentro mi sospinga, mi affligga, sì che pur sedendo, pur riposando, più che mai io sono lontano dal trovar pace e riposo. Eppure io non bramo nulla, non ho desiderio di alcuna cosa e fino a questo momento non ho avuto ragione di dolermi e di piangere.
Un sottile gioco di contrapposizione si insinua a questo punto: alla greggia contenta del v. 114 si oppone il fastidio che ingombra il poeta del v. 118; al queta (v. 114) si contrappone lo spron (v. 119). E in questi versi sono più numerose le rime, anche baciate: ombra-ingombra, punge-lunge; le assonanze: erbe-mente, bramo-pianto.
- 124-132 La sorte degli animali è contrapposta a quella dell’uomo. Quale sia la natura e la quantità del piacere che provate io non saprei dire, lo ignoro, ripeto però che siete fortunate. E anch’io, come voi, provo pochi piaceri, né mi lamento soltanto di questo, cioè che il piacere mi manchi. Se voi sapeste parlare, io vi chiederei: ditemi: perché, giacendo secondo il suo piacere e comodo, nell’ozio, ogni animale è contento; se io sto comodamente in riposo il tedio invece mi assale d’improvviso?
La successione di domande, di riflessioni amaramente personali hanno creato, per tutto il canto, una struttura a schema –dicono i critici sapientemente calcolato- adatto a creare un effetto di litania triste e che si chiude, alla fine di ogni strofa, con una sentenza di valore generale, in questo caso la rima baciata dei vv. 131-132, “animale-assale”, il primo appagato, il secondo –il poeta- infastidito, e la radicale differenza tra i due è sancita dal pronome personale “me”, posto –da solo- a inizio del verso, quasi martellato, un complemento oggetto che domina la frase più del soggetto vero e proprio.
Ho trovato in un’antologia degli anni ’50 del ‘900 una notazione curiosa: “Il Leopardi qui aggiunse una nota che indica la sua preoccupazione di giustificare logicamente la stanchezza dell’ultima parte della strofa: “Il signor Bothe, traducendo in bei versi tedeschi questo componimento, accusa gli ultimi sette versi della presente stanza di tautologia, cioè di ripetizione delle cose dette avanti. Segue il pastore: ancor io godo pochi piaceri; né mi lagno di questo solo cioè che il piacere mi manchi; mi lagno dei patimenti che provo, cioè della noia. Questo non era detto avanti. Poi, conchiudendo, riduce in termini brevi la quistione trattata in tutta la stanza; perché gli animali non si annoino e l’uomo sì; la quale se fosse tautologia, tutte quelle conchiusioni, dove per evidenza si riepiloga il discorso, sarebbero tautologie” (Sapegno-Trombatore-Binni, “Scrittori d’Italia”, v. III, La Nuova Italia, Firenze, 1956, p. 260).
- 133-138 Il volo fantastico e impossibile. Forse se io avessi le ali per poter volare sulle nuvole e contare le stelle una per una, o fossi come il tuono per vagare da una vetta all’altra dei monti, più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna.
E’ un imprevedibile, bellissimo scatto fantastico questa invenzione del volo che trasporta d’un tratto il pastore tra le stelle e per un attimo lo proietta in una sfera magica e incantata ove sono possibili la felicità e anche una conoscenza superiore. Per paradosso il pastore non si libera delle sue inquietudini esistenziali ma trasporta nel cielo tutti i suoi dubbi, forse ogni sogno nasconde un inganno: la negatività della sua vita diventa negatività di tutti gli esseri terreni e anche celesti, la coscienza dell’universale miseria. E le ripetizioni, ancora una volta, -insieme alla secchezza e alla nudità del linguaggio-, scandiscono felicemente questa intenzione del poeta: intanto con la serie trinitaria dei verbi all’infinito, in rima e in climax (volar, noverar, errar), l’uomo vola, conta e passa in rassegna gli astri, “ad una ad una” (v. 135), poi si trasforma imprevedibilmente in un tuono che rumoreggia, “di giogo in giogo” (v. 136); il “più felice sarei” (vv. 137-138) e il binomio “dolce mia greggia, candida luna”, l’una e l’altra compagne fedeli del suo canto. La ripresa dei suoni –con le ripetizioni- crea quell’effetto di dolcezza quasi rassicurante che si contrappone all’asprezza dei contenuti.
La critica, in questo punto, si è sbizzarrita a trovare gli antecedenti nella tradizione letteraria: dal ricordo di un poema ossianesco, “La guerra di Caroso”, nella versione di Cesarotti, “errando andremo / su le penne de’ venti”; e forse anche della canzone di Celio Magno, presente nella “Crestomazia poetica” curata da Leopardi: “Deh l’ali avessi anch’io / qual tu da girne a volo”; e, con più credibilità, della canzone pseudo-quattrocentesca di Andrea del Basso: “Credevi d’aver l’ali / da volar su le nubi”.
- 139-143 La conclusione negativa e assoluta. O forse il mio pensiero si allontana dalla verità, considerando il destino degli altri esseri viventi e invidiando la loro sorte: forse in qualsiasi forma, in qualsiasi stato –o d’uomo o d’animale-, che la nascita avvenga in una tana o in una culla, è causa di lutto e di dolore per il neonato il giorno della nascita.
In alcuni appunti del 1823, dedicati alle testimonianze antiche intorno a questo tema, il poeta trascriveva nello Zibaldone una frase del “Voyage du jeune Anacharsis” di Barthélemy: “le jour de la naissance est un jour de deuil pour sa famille” (il giorno della nascita è un giorno di lutto per la famiglia). Ma già in un libro biblico, l’Ecclesiaste, si poteva leggere: “Meglio… il giorno della morte che quello della nascita” (6, 7).
Il “Forse” all’inizio del v. 139 riprende i tanti “forse” dei versi precedenti (60, 62, 104) e anche il forse del v. 133, improntato a una vaghezza incredula e col tono fiabesco del desiderio assurdo, quasi a pentirsi di quello scatto della fantasia e dell’immaginazione che lo aveva portato a veleggiare sulle nubi, e con la rima baciata “vero-pensiero” il poeta dimostra di essersi liberato degli errori e delle sciocche illusioni, il suo pensiero è infatti ormai chiaro e definitivo. “Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gli individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi” (Zibaldone, p. 4175, 22 aprile 1826).
E c’è ancora un altro “forse” al v. 141 che si lega all’accostamento drammatico, “in qual forma – in quale stato che sia” (la suprema assoluta negatività dell’esistere), e all’effetto quasi di paronomasia che viene dall’unione di dentro covile o cuna del v. 142. Un’altra rima, a distanza, mi sembra interessante: è quella che unisce le stelle, la luna, la culla dei bambini, “ad una ad una” (v. 135), “candida luna” (v. 138), “dentro una cuna” (v. 142). L’ultima notazione la dedicherei alla rima ad anello, “ale-natale”, dei vv. 133 e 143: non solo essa è la chiusa di tutte le rime in “ale” delle sei strofe del canto, che come eco remota di una sapienza antica contrassegna la meditazione poetica; essa è la constatazione di un desiderio impossibile e che approda a una conclusione negativa e assoluta, ma senza violenza e senza impeto. Il tono accorato richiama un passaggio del “Dialogo di Tristano e di un amico”: “In confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo”. Pietro Giordani scriveva a Leopardi l’11 novembre 1831: “Com’è stupendo quel tuo Pastore errante nell’Asia! Sei proprio arrivato all’estremo della grandezza e dello stile”.
Un ultimo pensiero. Leopardi sa di essere piccolissima parte di un cosmo infinito ma sa anche di essere l’unico a poter porre le domande su se stesso: “a che tante facelle? e io che sono?”. Giacomo cerca di riattivare la dimensione eroica della sua e nostra vita senza deliri di onnipotenza, un destino da compiere con gli altri, come accade alla sua ginestra nel deserto di lava.
Alessandra Z.