George Orwell. Il fantasma della libertà.
I libri e le lettere ci spiegano perché, a 71 anni dalla morte, è ancora uno scrittore di culto, non solo a sinistra.
Ne “Il Venerdì di Repubblica” del 15 gennaio 2021 è pubblicato, alle pp. 16-21, questo articolo di Marco Cicala. I libri più importanti di Orwell: “1984”, “La fattoria degli animali”, “Omaggio alla Catalogna”.
Poteri, partiti, ortodossie: nella sua vita breve, George Orwell cercò di girare alla larga da ogni vincolo d’obbedienza.
Se oggi dici Grande Fratello quasi tutti pensano a un format-tv che rischia di diventare longevo quanto Canzonissima o Domenica in. Però Orwell resta autore non solo venerato ma innalzato a vessillo dalle tribù politiche più disparate: anarco-conservatori, decrescisti eco-ascetici, anti-liberisti, sovranisti, cacciatori di fake, fustigatori delle élite cosmopolite, nostalgici di una Sinistra maschia, aguzzini di radical-chic e molli progressisti bobò, castigatori della correctness e del neo-puritanesimo censorio, distopisti apocalittici, grandi inquisitori dell’economia digitale e dei suoi Big brothers –Google, Amazon, Facebook…- che controllano le nostre vite. Dal gran bazar esce un Orwell a taglia unica, in microfibra elasticizzata, che si può abbinare con tutto. Un profeta, un santo laico –lui che, refrattario a qualsiasi religione, considerava la santità “qualcosa da cui gli esseri umani dovrebbero guardarsi” e riteneva la sua vita poco esemplare, se non altro perché “vista dall’interno, ogni esistenza si presenta come una serie di sconfitte troppo umilianti e avvilenti per essere anche solo contemplate”.
Abbandonato da polmoni già malconci che un precoce e pervicace tabagismo aveva messo a durissima prova, Eric Arthur Blair –il suo nome all’anagrafe- muore a Londra il 21 gennaio del 1950: giusto a metà del terribile Novecento e agli albori della “Guerra fredda” –formula che era stato lui a coniare. Nel “secolo breve”, di cui pure sposò alcune tra le passioni, aveva riconosciuto l’epoca nella quale 2+2 smette di fare 4 e i totalitarismi cancellano “la nozione stessa di verità oggettiva” con l’incantesimo ideologico. Più che sommo romanziere, George Orwell fu un grande scrittore politico. Eppure nei confronti della politica –“per sua natura miscela di violenza e menzogna”– aveva maturato un disgusto profondo, addossandone le colpe principalmente alla Sinistra: “Ciò che ho visto in Spagna”, raccontava nel 1940, “e quanto ho visto da allora nel funzionamento dei partiti di sinistra, mi hanno ispirato un orrore per la politica. Per sentimento sono definitivamente di sinistra, ma sono convinto che uno scrittore può rimanere onesto solo se si mantiene libero da etichette di partito”. Nella traiettoria orwelliana la Guerra civile spagnola marca un prima e un dopo: è il vero battesimo di fuoco del polemista. Ma per ricostruire quello shock bisogna ripartire dal dicembre 1936.
Pochi giorni prima di Natale, George lascia Londra per andare a combattere con gli antifascisti in Catalogna. Ha 33 anni, buona parte dei quali vissuti disordinatamente. Malgrado provenga da una famiglia della middle class, è stato ammesso con una borsa di studio nell’elitaria università di Eton. Poi ha fatto il poliziotto in Birmania, toccando con mano, nel ruolo di sbirro, le atrocità del colonialismo. Alimentata dagli scapigliati furori del ribellismo giovanile, quell’esperienza lo porterà a una secessione morale ancor prima che politica dalla società borghese: “Sentivo di dovermi sottrarre non soltanto all’imperialismo, ma ad ogni forma di dominio dell’uomo sull’uomo”. Con la rabbia autopunitiva di chi vuole espiare le proprie radici di classe come un peccato originale, in Inghilterra Orwell vive da clochard, e sul finire degli anni Venti trascorre diciotto mesi a Parigi tra i plongeurs, i lavapiatti alla frusta dei grandi alberghi. Le discese negli inferi del sottoproletariato diverranno materia del suo primo libro, “Senza un soldo a Parigi e a Londra” (1933).
Dopo, scrive tre romanzi di cui si accorgono in pochi, poi molla l’impiego da commesso in una libreria londinese dell’usato e, su spinta dell’editore progressista Gollancz, si immerge per due mesi tra operai e minatori nelle regioni dell’Inghilterra settentrionale più malmenate dalla depressione economica. La minuziosa inchiesta esce in volume nel marzo 1937 col titolo di “La strada di Wigan Pier”.
Intanto Orwell si è avvicinato alle posizione dell’Ilp, il partitino dei socialisti democratici a sinistra del Labour. Più che gli scritti di Marx, di cui avrà sempre una conoscenza approssimativa, non gli vanno giù i marxisti, ai quali imputa pesanti vizi analitici. Con i loro schematismi, dice, tagliano “l’anatra arrosto con l’accetta e non si preoccupano mai di scoprire che cosa accade nella testa dei loro avversari”. Miseria speculativa, questa, che emergerà platealmente nell’interpretazione comunista del nazifascismo. Per Orwell l’ascesa degli Hitler e dei Mussolini non è –come pretende il marxismo dogmatico- l’ultimo rantolo di un sistema capitalistico destinato motu proprio al collasso, bensì un fenomeno a pieno titolo rivoluzionario, che fabbrica consenso canalizzando a destra i rancori sociali grazie alla violenza di scattanti strutture paramilitari e agli irretimenti di una formidabile comunicazione propagandistica.
Insomma, George Orwell approda in Spagna con il fondato sospetto che i fascismi altro non siano se non il socialismo davvero realizzato, però in chiave autoritaria. A Barcellona si incorpora nelle milizie del Poum, micro-partito generalmente definito “trozkista”, ma in realtà libertario-comunista. Una buffa fotografia di quei giorni mostra mister Blair –che era alto un metro e 88- torreggiare in coda a una colonna di tracagnotti combattenti spagnoli. Le fabbriche espropriate, le terre collettivizzate, i camerieri che al caffè rifiutano la mancia come orrida elemosina borghese, la gente che, abolito il Lei, si dà del Tu: l’eccitante atmosfera di fraternità rivoluzionaria che il flemmatico, inglesissimo Orwell respira nella Catalogna dominata dagli anarco-sindacalisti inciderà in lui un segno indelebile. E forse saranno proprio quei ricordi a mantenerlo, malgrado tutto, ancorato a sinistra fino all’ultimo. Ma battendosi nelle periferiche trincee aragonesi George scopre che, così come è condotta dagli anarchici, la crociata antifascista è parecchio diversa da come se l’era immaginata. E’ una sonnolenta, abborracciata guerra di posizione dove gli scontri col nemico si riducono a sporadiche scaramucce dai risvolti talora grotteschi. Un giorno vede un soldato franchista che, forse reduce dall’espletamento di inderogabili bisogni fisiologici, scappa tenendosi su i calzoni. Annoterà: “Ero venuto qui per sparare ai fascisti. Ma un uomo che si regge i pantaloni non è “un fascista”, è visibilmente un altro essere umano”.
Comunque quell’uggioso clima bellico lo irrita. Lo innervosisce al punto da convincerlo a trasferirsi nel cuore della battaglia, sul fronte di Madrid. Tra i suoi tanti fan libertari, pochi sembrano oggi ricordare che nella primavera del ’37 –pur sapendole al guinzaglio del partito comunista- Orwell sta per passare nelle Brigate Internazionali. Da anglosassone pragmatico, alla generosità del Poum preferisce l’efficacia dei comunisti: “Avevano una linea definita e pratica, di gran lunga migliore in termini di buon senso, che si poteva riassumere nello slogan: “Non possiamo parlare di rivoluzione finché non avremo vinto la guerra”. Orwell è dunque in procinto di smarcarsi dallo spontaneismo anarchico che –a dispetto delle ripetute batoste militari- difende ancora l’osmosi tra guerra antifascista e rivoluzione proletaria, quando a Barcellona succede qualcosa di traumatico.
Manovrate dai comunisti spagnoli e dai loro burattinai sovietici, le forze dell’ordine cominciano a far fuori i libertari. L’Urss di Stalin, che cerca ancora un’intesa tattica con la borghesia del Fronte Popolare, ne ha abbastanza di quegli incontrollabili. I leader del Poum e affini vengono eliminati. Sconvolto dal repulisti del maggio 1937, ma soprattutto dalla propaganda comunista che presenta rivoluzionari e trozkisti come agenti al soldo del nazifascismo, Orwell ingrana d’istinto la retromarcia: “Non ho nessun amore per il “lavoratore” idealizzato come si presenta alla fantasia del borghese comunista”, confessa, “ma quando vedo un operaio in carne e ossa in lotta con il suo nemico naturale, il poliziotto, allora non ho più da chiedermi da quale parte devo schierarmi”.
Così, per lealtà istintiva, per attaccamento alla maglia, George rientra nei ranghi del Poum e appena tornato sul fronte si becca in gola una pallottola franchista. La ferita è meno grave di quanto non sembri. Però mette fine alla sua guerra di Spagna, dando inizio a un’acerrima battaglia polemica contro lo stalinismo. Una lotta che rasenterà l’accanimento e post mortem attirerà su di lui calunniosi sospetti di delazione ai danni dell’intellighenzia filo-sovietica, facendone una specie di maccartista ante litteram.
Certo, nell’Inghilterra martellata dalle bombe hitleriane, Orwell si muove da patriota: davanti alle fauci totalitarie, appoggia la democrazia “borghese” come il male minore. Un po’ pochino per leggere in quella scelta una sua virata a destra. “Se alcuni pensano che io difenda lo status quo è perché, credo, sono loro a essere diventati pessimisti e a ritenere che non ci sia alcuna alternativa fra la dittature e il capitalismo del laissez-faire”, preciserà in seguito mister Blair. E, raffermando la propria fedeltà al socialismo, respingerà le accuse di paranoia anti-sovietica rivolte ai suoi romanzi. Della “Fattoria degli animali” spiegherà: “Ho concepito il libro come una satira della rivoluzione russa… ma intendevo dire che quel tipo di rivoluzione (rivoluzione cospiratoria violenta, guidata da persone inconsciamente assetate di potere) può condurre unicamente a un cambio di padroni. Volevo che la morale da trarre fosse che le rivoluzioni possono portare a miglioramenti radicali solo quando le masse sanno come sbarazzarsi dei loro leader non appena questi abbiano portato a termine il loro compito”. E poi, all’uscita di “1984”: “Il mio nuovo romanzo NON intende attaccare il socialismo o il partito laburista inglese (di cui sono sostenitore), ma mettere in luce le degenerazioni, in parte già verificatesi sotto il comunismo e il fascismo, a cui sono soggette le economie centralizzate”.
Uomo frugale, pacifico ma non pacifista, con un debole per “il tabacco nero, le stufe a carbone, la luce delle candele e le poltrone comode”, amante di giardinaggio e orticoltura, allergico alla vita metropolitana, Orwell rivendica un’idea di “patria” come civismo e decenza dei modi di vita. E’ un “populista” che, magari idealizzandole un po’, annette alle classi povere il primato morale della solidarietà. Nel giugno 1944, con la prima moglie Eileen, che morirà pochi mesi dopo, adottano un bambino, Richard. Per l’epoca, George è un padre anticonvenzionale: cambia i pannolini al bebè e ne sorveglia la pappa sui fornelli. Ma sul piano dei costumi –da anarchico-tory, quale si definiva- rimane un tradizionalista. Detesta il femminismo e “la donna che ha perso la propria connotazione sessuale, che si è irrigidita e/o mascolinizzata”, notava il suo ammiratore, Christopher Hitchens. D’altra parte, se non omofobo, Orwell non è di sicuro un tipo gay friendly. “Non sono uno dei vostri finocchietti alla moda” ringhiava contro gli scrittori della sinistra blasé tipo Wystan Hugh Auden e Stephen Spender. Con quest’ultimo, tuttavia, si scuserà dopo averlo incontrato di persona: “Quando si conosce qualcuno in carne ed ossa”, gli scrisse, “ci si rende subito conto di trovarsi di fronte a un essere umano e non a una sorta di caricatura che incarna certe idee. E’ questa la ragione per cui non frequento gli ambienti letterari. Per esperienza so infatti che dopo aver fatto la conoscenza di un qualsiasi individuo e avergli parlato, non sono più capace di trattarlo con brutalità intellettuale, pure nel caso in cui mi sentissi in dovere di farlo”.
Che anche le menti più libere siano attraversate dai limiti del proprio tempo è un’ovvietà. Ma oggi andatelo a spiegare ai prelati della correttezza politica o ai giustizieri della Cancel culture. Non è detto che prima o poi perfino il “santo” Orwell non finisca nelle loro liste nere. A Londra, davanti alla sede della Bbc, c’è una statua che lo rappresenta addirittura con la sigaretta in mano. Fossi uno della vigilanza, starei in campana.
George Orwell Marco Cicala