Quel “1984” che dura da 70 anni
Triste e malato, George Orwell scrisse il suo libro su un’isola scozzese nel 1948. Da allora il romanzo ha ispirato altre distopie.
Nel “Venerdì di Repubblica” del 13 luglio 2018 è pubblicato questo articolo di Paolo di Paolo, alle pp. 94-97. E’ probabile che, tra qualche tempo, ci si dovrà meditare nel nostro Occidente.
E’ l’eterno bestseller. Figurava tra i libri più venduti in Italia nel 2016 e nel 2017. E’ in classifica nella top ten dei tascabili anche in queste settimane, nell’edizione Oscar Mondadori (pp. 333, euro 14, traduzione di Stefano Manferlotti). L’aggettivo intramontabile, almeno in un caso simile, non stona. Se George Orwell, scrivendo “1984”, avesse immaginato tanto e duraturo successo, avrebbe forse penato un po’ meno su quel manoscritto. Titolo di lavoro: “The last man in Europe”, l’ultimo uomo in Europa. Inquietante quanto il resto.
Orwell, all’anagrafe Eric Arthur Blair, si rompeva la testa sul congegno narrativo, che i posteri avrebbero giudicato profetico, settant’anni fa esatti. La vulgata vuole che l’anno 1984 sia stato scelto semplicemente invertendo le cifre di quello in cui conclude la stesura, 1948. Fatto è che –vedovo spezzato dal dolore- lo scrittore si ritira su un’isola delle Ebridi, a sud-ovest della Scozia. Jura, questo il nome, diventa velocemente un inferno: un’infame stagione invernale, un’estate passata a tossire, con la tubercolosi che non dà tregua. Quando confessava che scrivere un libro è “una lotta orribile, estenuante, come un lungo attacco di una malattia dolorosa”, non immaginava cosa lo attendesse all’orizzonte.
Quanto al contenuto dell’opera, e alla sua forma, non è soddisfatto e nemmeno insoddisfatto: quando arriva all’ultima ribattitura su una scassata macchina per scrivere, nell’autunno del ’48, si sente svuotato e in allarme. C’entra la salute ma c’entravano anche le visioni che ha cavato dalla sua testa per metterle su carta. E’ quasi superfluo dire quali: “1984” è fra i rari romanzi del secolo scorso che basta nominare perché evochino qualcosa anche in chi non li ha letti. Le macro-nazioni, la terza guerra mondiale e, soprattutto, il Grande Fratello. Un mondo spettrale e angosciante senza libero pensiero, con troppi occhi indiscreti, un Ministero della Verità che si occupa del contrario di ciò a cui è intitolato. E il povero funzionario Winston che cerca di tenere acceso, funzionante e autonomo, il proprio cervello. In sette decenni, “1984” – per chi ama giocare con le distopie- ha offerto conferme di tutti i tipi. Quella più recente, alle nostre latitudini, riguarda forse l’Odio con la o maiuscola, i due minuti d’Odio indetti dal Partito unico per incanalare verso un preciso bersaglio la frustrazione collettiva: “Un’estasi orrenda, indotta da un misto di paura e di sordo rancore, un desiderio di uccidere, di torturare, di spaccare facce a martellate, sembrava attraversare come una corrente elettrica tutte le persone lì raccolte, trasformando il singolo individuo, anche contro la sua volontà, in un folle urlante, il volto alterato da smorfie”. Può bastare così? “E tuttavia la rabbia che ognuno provava costituiva un’emozione astratta, indiretta, che era possibile spostare da un oggetto all’altro come una fiamma ossidrica”.
Definire Orwell attuale è quasi sminuirlo. E soprattutto si rischia di appiccicare alla cronaca qualcosa che invece funziona come i miti. Si digeriscono, diventano parte di noi, per svilupparsi in altre e infinite forme. Non è difficile, mettiamo, definire “orwelliano” un terzo delle puntate di una serie tv come Black Mirror, con api-robot assassine, strumenti di controllo parentale fin troppo intrusivi, ricatti tra erotico e politico. Per il 2019, settantesimo anniversario della pubblicazione, potrebbe vedere la luce una nuova versione cinematografica di “1984”, dopo quella di Michael Radford: sarà molto Trump-oriented, assicurano dal cantiere del regista Paul Greengrass. D’altra parte, come accadde a inizio ventunesimo secolo con le prime edizioni del Big Brother televisivo, appena dopo l’elezione dell’ultimo presidente degli Stati Uniti, il romanzo di Orwell era schizzato in cima alle classifiche dei libri più venduti. Ma si può chiedere a una grande opera di fantasia di spiegarci la realtà? Forse proprio questo è il punto.
Del “metodo Orwell” si mettono a fuoco parecchi aspetti nelle pagine, appena assemblate e curate da Vittorio Giacopini, di “Come un pesciolino roso in una vasca di lucci” (Eleuthera, pp. 219, euro 16, traduzione di Elena Cantoni). “L’esperienza della politica rappresenta lo sfondo e l’oggetto costante di tutta l’opera di Orwell” chiarisce Giacopini, e non che questo fosse naturale, facile, scontato. “Voleva trasformare la scrittura politica in un’arte”: lo fa a modo suo, da scrittore politico “disgustato dalla politica”. Non passa quasi giorno senza che, su una testata internazionale o su un blog, non si interroghi Orwell, il socialista o l’anti-socialista, non ci si domandi se fosse un infiltrato reazionario, e come sia diventato nel tempo un santo laico –così scriveva qualche settimana fa The Indipendent– o una specie di meme buono per il web. Il nome Orwell è stato dato di recente persino a una serie di videogame. Trama: in un Paese chiamato semplicemente “The Nation”, messo sotto scacco da un attacco terroristico, un programma governativo per la sicurezza azzera la privacy dei cittadini. Il giocatore può accedere a conti bancari, cartelle cliniche, ascoltare brani di conversazioni private di esseri umani immaginari. Divertente? Anche parecchio angosciante.
Non sarebbe stato scandalizzato nemmeno da questa trasformazione pop. “L’unica forma di arte che riusciva a capire e giustificare” osserva ancora Giacopini “era un’arte sporca e contaminata, attraversata dal mondo e dalla Storia”. Che lo scambiassero pure per un giornalista-pamphlettista! In un testo dell’agosto 1948 inserito nella raccolta si affida –per perimetrare il lavoro dello scrittore- a tre aggettivi: agitatore, anarchico, incendiario. L’importante è restare un individuo, un outsider, “uno sgradito guerrigliero al fianco dell’esercito regolare”. E non farsi portare fuori strada dalla voglia di potere o dal desiderio di piacere a tutti: quando rievoca i suoi anni in Birmania, racconta come in quella stagione della sua vita il fallimento gli sembrasse la sola virtù.
A ricostruire il periodo –tra il 1922 e il 1928- in cui Orwell, arruolato nella Indian Imperial Police, presta servizio nel Sud-est asiatico, ha provato Emma Larkin, pseudonimo di un’autrice americana nata in Asia. Il suo libro, pubblicato solo di recente in Italia (“Sulle tracce di George Orwell in Birmania”, Add editore, pp. 288, euro 18, traduzione di Piernicola D’Ortona e Margherita Emo) è una doppia esplorazione di una mente umana e di un paesaggio. Dopo l’uscita originale, nel 2005, circolava in copie pirata e clandestine per le strade dell’ex capitale birmana Yangon, la vecchia Rangoon. E’ facile, spiega Larkin, ritrovare i luoghi visitati da Orwell così come li vide lui: “Questo aver preservato i luoghi come erano è, in un certo senso, l’unico merito della dittatura, ammesso che sia un merito”. Ma soprattutto è facile intuire per quali vie, grazie a quel soggiorno, lo scrittore sia diventato uno scrittore politico.
Quando, arrivata a Mandalay, Larkin chiede conto a un attivista democratico del suo rapporto con i romanzi di Orwell, si sente rispondere: “Sono libri molto birmani”. La “Fattoria degli animali” parla di maiali e di cani che governano un Paese. “E’ quello che succede in Birmania da tanti anni”. E “1984”? “Non parla di socialismo, comunismo o autoritarismo. E’ un libro sul potere e sull’abuso che se ne fa. Tutto qui”. “Ma i birmani l’hanno letto?” insiste Larkin. “Perché dovrebbero? In “1984” ci vivono già, tutti i giorni”.
Paolo Di Paolo