La notte del Getsemani a Gerusalemme.
La colpa dei sacerdoti del Tempio.
Nel racconto dei Vangeli l’esperienza della notte del Getsemani apre il ciclo della Passione di Cristo. Alle sue spalle l’entrata festosa in Gerusalemme, la luce della città che accoglie con giubilo il suo Messia. Disarmato, seduto su un’asina, Gesù entra nelle mura della città. Il popolo, lo stesso che più tardi richiederà con fragore e violenza carica di odio la sua morte, lo accoglie festoso esaltandone la gloria.
Nel tempo che lo separa dall’Osanna entusiasta all’angoscia scura del Getsemani la predicazione di Gesù si fa sempre più aspra e radicale. La sovversione investe la religione codificata dei sacerdoti e i loro simboli più tradizionali, tra i quali il Tempio di Gerusalemme. Tocchiamo qui un punto chiave dell’esperienza di Gesù: la potenza della parola animata dalla fede tende a urtare contro la sua istituzionalizzazione. E’ un tema ripreso con forza in psicoanalisi da Bion e da Fachinelli: il mistico entra sempre in collisione conflittuale con il religioso. Lo slancio del desiderio e la passione per la verità inevitabilmente cozzano con l’arroccamento dell’istituzione che difende e conserva la propria identità sottraendola a qualunque forma di contaminazione. Al tempo stesso, quando la forza libera della parola si istituzionalizza –si irreggimenta in un codice stabilito- rischia sempre di smarrire la propria potenza generatrice. L’”organizzar”, come direbbe Pasolini, finisce col prevalere a senso unico sulla spinta propulsiva del “trasumanar”. Per questo i funzionari sacerdotali del tempio, gli scribi e i maestri della Legge, diventano i bersagli privilegiati dell’ira di Gesù. Entrando nel Tempio, divenuto luogo di commercio e di degradazione, egli “scacciò tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe” (Matteo, 21, 12). Gesù svuota il Tempio dagli oggetti-idoli che lo riempiono, lo sgombera, riapre il suo “vuoto centrale” affinché esso continui a essere un luogo di preghiera.
La colpa dei sacerdoti è quella di essere l’immagine di una fede che ha dimenticato se stessa, che ha perso contatto con la potenza del desiderio, che si è isterilita nella gestione del potere; è quella di non avere bene interpretato la posta in gioco dell’eredità. Chi è un giusto erede? Cosa significa ereditare? Cosa è l’eredità della Legge? Ecco la colpa più grande dei sacerdoti: essi hanno interpretato l’eredità solo come continuità, come replica formale, come ripetizione rituale schiacciandola sulla mera conservazione del passato. Essi sono, nelle celebri parole di Gesù, “sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume” (Mt, 23, 27).
In una parabola durissima, che Gesù racconta proprio tra le mura di Gerusalemme, i sacerdoti sono assimilati a quei contadini che non riconoscono di aver ricevuto dal loro padrone le vigne nelle quali lavorano. Questi contadini non rispettano il contratto di affitto che hanno stipulato con il legittimo proprietario delle vigne; maltrattano e uccidono i servi che vengono inviati nel tempo della vendemmia per riscuotere la parte che spettava al padrone. Essi rivendicano solo un diritto ottuso di proprietà misconoscendo ogni forma di debito simbolico. Per questo sono cattivi eredi: vorrebbero impossessarsi dell’eredità anziché riconoscere che l’eredità è innanzitutto relazione con la nostra stessa provenienza, responsabilità di coltivare quello che abbiamo ricevuto dall’Altro senza però misconoscerne il debito. Il padrone della parabola decide così di inviare presso di loro il suo unico figlio con l’intento di avere la parte dei frutti del podere che gli spetta e nella convinzione che di fronte a suo figlio –l’erede legittimo- non avrebbero osato perpetrare la stessa violenza. Ma i contadini colgono questa occasione per impossessarsi definitivamente dell’eredità uccidendo senza pietà il figlio del loro padrone. La metafora teologico-politica è qui chiarissima: i sacerdoti sono come i contadini-omicidi che riducono brutalmente il movimento complesso dell’ereditare a una usurpazione del significato più alto della Legge facendo i propri interessi contro quelli della Legge. Per questo la parabola si conclude con un avvertimento: “Quando verrà dunque il padrone delle vigne, che cosa farà a quei contadini?” (Mt, 21, 33-40).
L’erede giusto quindi è colui che lavora su ciò che ha ricevuto con la libertà di generare frutti nuovi. Ma se viene misconosciuto il debito, se l’ereditare diviene appropriazione o usurpazione, se viene tradito il debito, non si avrà alcuna generatività ma solo morte; la trasmissione diviene solo trasmissione della violenza.
Nel giusto erede ucciso brutalmente dai contadini Gesù mostra l’incombenza del suo destino. I farisei e gli scribi rigettano la parola di Gesù, la vivono come una minaccia. Non rispondono alla chiamata, non accolgono la venuta tra loro del giusto erede. Uccidono l’erede giusto per non mettere sottosopra il loro potere; irrigidiscono la difesa della loro identità anziché accogliere chi viene a portare una nuova immagine della Legge. In realtà è solo la chiamata del desiderio –incarnata da Gesù- che promette di liberare la vita dal peso sacrificale della Legge: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Matteo, 11, 28).
L’articolo è tratto dal saggio, “La notte del Getsemani”, Einaudi, pp. 5-9