La notte del Getsemani
La seconda preghiera di Gesù
Vi sono nella solitudine del Getsemani due modi fondamentali per Gesù di intendere e di praticare la preghiera. Un modo è quello della supplica che egli subito rivolge a Dio nella sua prima preghiera: dispensarlo dal bere sino in fondo il calice amaro della sua passione, lasciarlo vivere ancora, non richiedere il sacrificio della sua vita. Ma la supplica del figlio è destinata, come sappiamo, a cadere nel vuoto. Nel Getsemani Gesù occupa la stessa posizione di Giobbe: nessuna risposta alla sua domanda di soccorso, nessuna parola di Dio a rompere il silenzio del cielo.
Bonhoeffer in una lettera di capitale importanza, contenuta in “Resistenza e resa”, affronta a suo modo l’esperienza della preghiera di Gesù nell’orto del Getsemani. Il suo punto di partenza è che l’onestà più profonda di un uomo consisterebbe nell’accettare di vivere pienamente nel mondo. Non essere completamente del mondo, ma essere, al tempo stesso, completamente nel mondo. E questo essere nel mondo –pienamente nel mondo- implica l’assenza di Dio, assenza che si rivela proprio nell’angoscia e nella preghiera di Gesù. “Cristo –commenta Bonhoeffer- non ci aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza”. Quando Gesù chiede ai suoi: “non potete vegliare con me?”, sta rovesciando traumaticamente ogni rappresentazione teocentrica di Dio. Nessuna religione può pensare a Dio in questo modo. Gesù fa esperienza dell’abbandono, del tradimento e della morte ingiusta. La sua posizione è la stessa di Abramo di fronte alla chiamata di Dio; è la stessa di Giobbe di fronte all’esperienza insensata del male che non trova spiegazione. Non a caso proprio in Abramo e in Giobbe abbiamo una prova altrettanto radicale ed estrema di quella che Gesù è tenuto ad affrontare nella notte del Getsemani. Gesù chiede al Padre di allontanare il calice della morte; la sua domanda non è quella di avere la forza di assumere la morte, ma di potersene liberare. Gesù non è Socrate: non pone il logos al di là della vita.
E’ questa, come abbiamo visto, la prima preghiera, umanissima, di Gesù. Ma non è il solo modo della preghiera, non è la sola preghiera di Gesù nel Getsemani. Di fronte al silenzio di Dio davanti alla preghiera come supplica e invocazione, egli ritorna, per una ennesima volta, a rivolgersi al Padre, ma questa volta la sua postura è differente. La seconda preghiera di Gesù è un’altra forma della preghiera. Il silenzio dell’Altro lo ha costretto a modificare la sua posizione, lo ha costretto a trovare la Legge nel proprio cuore, a non ricercare la Legge nel luogo dell’Altro. Nella sua seconda preghiera egli non chiede più di sospendere la Legge, ma esige la sua assunzione: “Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: “Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà” (Mt, 26, 42).
Ora l’enunciazione di Gesù si raccoglie nel più profondo silenzio, si compie nella libera scelta di aderire al proprio destino, di scegliere nuovamente, per un’altra volta, di fronte al silenzio di Dio, l’eredità che il Padre gli ha consegnato. Gesù sembra avere fatto un giro vertiginoso di fronte al buco che quel silenzio ha introdotto traumaticamente in seno alla Legge. E al culmine di questo giro può, anziché invocare l’interruzione della Legge da parte del Padre, soggettivare questa stessa interruzione scegliendo di donare la sua vita non a una Legge che agisce contro la vita, ma a una Legge il cui compito è quello di affermare la vita al di là della Legge. Di affermarla radicalmente –al di là della Legge e al di là della morte- proprio perché portata sin dentro la morte. E’ questa la direzione ultima che assume la sua preghiera. Di fronte al silenzio del Padre egli non risponde né con l’odio ateo, né con il disincanto rassegnato, né con la credenza religiosa, né, infine, con la supplica della prima preghiera. La nuova preghiera, infatti, è resa possibile proprio dal silenzio di Dio; è la risposta finale di Gesù al silenzio di Dio. Non vuole rompere questo silenzio ma scaturisce da esso. E’ la frustrazione della supplica a generare la possibilità della seconda preghiera. Per questo Bonhoeffer può scrivere, paradossalmente, che l’ateo –colui che fa esperienza dell’assenza di Dio, del suo silenzio- è assai più vicino a Dio dell’uomo di fede perché “il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona”. E per questa ragione –continua Bonhoeffer- “essere cristiano non significa essere religioso, ma significa essere uomo”.
Gesù nel Getsemani –come Giobbe, ma oltre Giobbe- esperisce la preghiera come un affidamento al mistero di Dio più che alle sue parole. Essa non intende promuovere alcun sacrificio di sé, non piega la vita al dovere della Legge, ma si affida, di fronte alla prova della morte, alla volontà imperscrutabile del Padre: “non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc, 14, 36), “non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc, 22, 42). Ma cosa significa questo affidamento ultimo? Gesù è consegnato o si consegna alla volontà del Padre? Subisce la consegna o vive la consegna come un compito che definisce la propria stessa vita? Il pane e il vino sono il corpo e il sangue di Cristo. Ma farsi agnello pasquale significa immolarsi sull’altare del sacrificio? Versare il proprio sangue coincide con un atto di espiazione o con una donazione che si rivela come sovrabbondante? Il sacrificio pasquale è veramente un sacrificio? Il dono del pane e del vino, ovvero del proprio corpo, può essere davvero ridotto a un dispositivo sacrificale, a un fantasma apertamente masochistico?
“Il mio tempo (kairos) è vicino” (Mt, 26, 18), afferma Gesù poco prima dell’inizio della sua passione. Egli vuole cambiare il modo di intendere la Legge; non si sente sottomesso a una Legge che non risponde e non perdona, ma trova, in ultima istanza, solo in se stesso la propria Legge, la Legge del suo proprio desiderio. In questo modo Gesù, come scrive Paolo, non subisce la morte ma consegna se stesso (Gal, 2, 20) alla Legge. In questa sottile ma profonda differenza il gesto di Gesù non è affatto un gesto sacrificale, ma un gesto che, sin dalla notte del Getsemani, ben prima del supplizio dell’arresto, del processo, del Calvario e della crocifissione, libera la Legge dall’ombra mortifera del sacrificio.
Nella sua seconda preghiera Gesù capovolge il rapporto con la Legge: assume la Legge come verità del proprio desiderio senza più sottoporsi alla violenza della Legge. La sua obbedienza alla Legge coincide con l’obbedienza al proprio desiderio. E’ questa la svolta inaudita introdotta dalla seconda preghiera. Gesù si libera dall’attesa della risposta dell’Altro e dalla credenza nell’esistenza dell’Altro, dell’Altro come Altro della risposta. Egli può così attraversare il fantasma della prima Legge –quella patibolare sacrificale- per raggiungere una nuova versione della Legge –quella del dono di sé, dell’assumere la Legge del proprio desiderio.
Ma mentre è impegnato a compiere questa difficile e decisiva torsione, recandosi verso i suoi discepoli che avrebbero dovuto vegliarlo a poca distanza, li trova per l’ennesima volta addormentati: “Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti” (Mt, 26, 43). A sottolineare che è solo nella più totale solitudine (abbandonato da Dio e dai suoi discepoli) che Gesù può davvero operare questa nuova introiezione della Legge. Si tratta di una testimonianza a tutti gli effetti: egli mostra cosa può essere una Legge differente dalla Legge che si impone all’uomo come un giogo oppressivo, ma anche dall’attesa della Legge come risposta dell’Altro. In gioco è l’esistenza di una Legge che esige l’obbedienza non alla sua volontà di morte, né alla risposta dell’Altro, ma al desiderio più radicale del soggetto che coincide con l’alterità del destino che ci abita, ovvero con il suo affidamento all’Altro. Consegnare la propria vita al proprio desiderio non significa solo emancipare la Legge dal dover-essere come sacrificio del proprio essere, ma anche accogliere l’assenza di Dio, l’ateismo come condizione di fatto dell’uomo, l’inesistenza dell’Altro dell’Altro, dell’Altro della risposta. Significa cogliere che nella forma umana della vita l’essere consegnato all’Altro è una sua struttura ontologica fondamentale.
La mia vita è consegnata a se stessa, all’alterità che la abita, al suo compito etico, alla Legge e alla trascendenza del proprio desiderio. In questo senso Gesù si consegna al suo essere-consegnato, decide di affidarsi al proprio destino, si sottomette alla volontà del Padre. La sua responsabilità consiste nel trasformare la pulsione sacrificale in un atto di assoluta donazione di sé. Si tratta di un passaggio vertiginoso: non subisce semplicemente la potenza predittiva delle Scritture –“tutto era già scritto”-, ma genera una nuova scrittura: assumendo la propria vita come consegnata, la libera da ogni consegna.
Questo è forse l’insegnamento più alto che scaturisce dalla notte del Getsemani. La seconda preghiera di Gesù è l’esito di un disarmo assoluto. L’Io si piega a una alterità che lo supera, accoglie la Legge del desiderio come destino. Per questo l’opera bella della donna di Betania valeva più di quella di tutti i suoi discepoli. Mentre ella riconosceva la vita del Cristo come consegnata e a essa offriva tutto quello che le era possibile al di là di ogni calcolo e di ogni risparmio, il traditore, spalleggiato da altri suoi discepoli, favoriva la critica politica. Gesù si comporta proprio come quella donna: offre la vita che ama infinitamente in un gesto di donazione eccessivo, sovversivo, illimitato. Egli, nel buio fitto della notte del Getsemani, non tiene conto del costo del suo atto ma solo del suo atto, del valore assolutamente immanente del proprio atto.
Per liberare l’uomo dalla paura della morte e dall’interpretazione sacrificale della Legge è necessario un ultimo passo. Gesù prega e nella sua seconda preghiera coglie una verità ultima: non si tratta di chiedere la sospensione della Legge, ma di affidarsi alla Legge che è la Legge del Padre al di là del sacrificio. La fede sorge non perché Dio invia segni –come direbbe Paolo-, o perché incute timore con la sua presenza e con il suo sguardo severo, ma proprio perché è assente e non risponde. Questo è il paradosso estremo che si spalanca nell’orto del Getsemani mentre tutti i suoi discepoli restano chiusi nel loro sonno stordito e Giuda il traditore lo vende ai sacerdoti del tempio.
“Non sia fatta la mia, ma la tua volontà”, conclude il suo travaglio Gesù. Sicché l’Io cede, indietreggia, si affida all’Altro sebbene l’Altro –ed è questa la prova ultima- non risponda. Non c’è infatti alcuna presenza di Dio nel Getsemani, se non nella forma della sua assenza più radicale. Solo in Luca abbiamo l’apparizione di un angelo inviato da Dio, come in un gesto estremo di pietas, a consolare il proprio figlio (Lc, 22, 43). Un resto del cielo che cade a terra, un residuo della presenza dissolta del grande Altro.
Massimo Recalcati
Il testo è tratto dal saggio, “La notte del Getsemani”, Einaudi, pp. 71-78