Giovanni Falcone. L’uomo che sconfisse la Cupola mafiosa.
Il 23 maggio 1992 Cosa nostra uccide il magistrato che 5 anni prima, con il maxiprocesso, ha inflitto alla mafia la prima sconfitta da quando esiste. E’ l’inizio della stagione delle stragi.
Questa è la seconda parte di uno Speciale, scritto da Attilio Bolzoni, che il quotidiano “la Repubblica” ha dedicato al venticinquesimo anniversario della strage di Capaci, in cui –insieme a Falcone- morirono la moglie, Francesca Morvillo, e i tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Il testo è stato pubblicato venerdì 19 maggio 2017, pp. 25-32.
Mezza parola.
E’ un lungo silenzio che racconta tanto, forse tutto. Un gioco di sguardi, dove uno “pesa” l’altro per scoprire fino a quale punto può lasciarsi andare. E’ la “mezza parola” che conta più del discorso, un impercettibile movimento delle labbra, un sopracciglio che si alza, la voce che diventa un soffio. Si intendono e si rispettano fin dalla prima guardata, nel luglio del 1984. Due siciliani seduti uno di fronte all’altro, un uomo dello Stato e un uomo della mafia. Falcone e Tommaso Buscetta. Da quell’incontro finisce il mito dell’invincibilità dei boss, il muro dell’omertà si spezza per sempre. Quarantacinque giorni. Tanto dura l’interrogatorio di don Masino, in una stanza soffocata dal caldo della Criminalpol di Roma. Loro due, soli. Buscetta che ogni tanto parla e scruta il volto del giudice, Falcone che verbalizza ogni frase senza un cancelliere, l’inchiostro verde della sua stilografica su una montagna di fogli bianchi. Tutto sul filo delle parole e dei sospiri. Perché Falcone capisce che la “parlata” mafiosa non è solo un linguaggio e non è solo un codice, è esercizio di intelligenza, esibizione permanente di potere. Tutto è messaggio. Anche le sfumature che sembrano più insignificanti, anche i gesti che prendono il posto delle voci. Don Masino fa tanti nomi, gli spiega che da una parte c’è l’aristocrazia mafiosa e dall’altra quei “terroristi” dei corleonesi con in testa Totò Riina, ma soprattutto gli consegna la chiave per penetrare in un mondo oscuro e attraversarlo. E lo avvisa: “Non credo che lo Stato italiano abbia veramente intenzione di combattere la mafia. L’avverto, dottor Falcone, dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non se lo dimentichi: il conto che ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai”.
Buscetta è la prima gola profonda della mafia siciliana che Falcone trasformerà in un collaboratore di giustizia. La sua prima opera d’arte. Non più informatori nell’ombra al servizio di commissari di polizia o ufficiali dei carabinieri, non più soffiate con delatori interessati e a pagamento. Ma testimoni che accusano se stessi prima di accusare gli altri, che mettono la loro firma sotto un verbale di interrogatorio, che depongono in un’aula di giustizia. Una gestione istituzionale, pubblica e non più segreta. Tutti gli schemi investigativi precedenti saltano, le inchieste subiscono uno sconvolgimento. Falcone capisce che Buscetta è solo il primo. E che altri, tanti altri come lui ne arriveranno. Anche i boss lo capiscono. E si preparano al peggio.
A consegnare don Masino al giudice è Gianni De Gennaro, il capo della Criminalpol di Roma. Due mesi e mezzo dopo il primo faccia a faccia fra i due, Falcone ordina al poliziotto 3600 riscontri alla “cantata” di don Masino. All’inizio del 1985 l’ufficio istruzione di Palermo è pronto a contestare a più di 700 imputati 438 capi d’imputazione e 121 omicidi. Cosa sa Falcone della mafia prima dell’arrivo di Buscetta? Molto. Soprattutto grazie al poliziotto che gli è più vicino, un amico: Ninni Cassarà, il capo dell’”Investigativa” della squadra mobile di Palermo. E’ uno “sbirro” elegante, colto, intelligente. Cassarà ha fonti straordinarie dentro la mafia palermitana. Una è Mariella Corleo, una donna imparentata con gli esattori Salvo. Gli racconta della morte del marito Ignazio Lo Presti, un amico di Buscetta. L’altra fonte è un boss legato alla vecchia guardia. Nei rapporti Cassarà lo chiama “Prima Luce”, proprio perché illumina il buio che avvolge quella società segreta. Gli spiffera nomi, ricostruisce la guerra scatenata da Riina contro Stefano Bontate, indica sicari e covi. “Prima Luce” è Salvatore Contorno, “Totuccio”, il mafioso che un anno dopo diventerà il secondo pentito di mafia. L’incontro fra Falcone e Cassarà è decisivo per il destino del maxi processo. Ma Cassarà non potrà mai ascoltare “Totuccio” sul banco dei testimoni dell’aula bunker dell’Ucciardone. Viene ucciso con l’agente Antiochia. Trecento colpi di kalashnikov, il 6 agosto del 1985. Una settimana prima in un agguato è stato colpito anche Beppe Montana, il capo della “Catturandi”. Intorno all’inchiesta di Falcone sugli Spatola e suglòi Inzerillo, iniziata alla fine del 1979, ci sono solo morti. Più l’indagine si allarga e più la mafia alza il tiro. La polizia di Palermo è allo sbando. Questori timorosi, commissari distratti. C’è voglia di tornare al passato. Per fortuna, scendono da Roma funzionari della Criminalpol, che diventano il braccio operativo di Falcone. Uno è Gianni De Gennaro, l’altro è Antonio Manganelli, il terzo Alessandro Pansa. Con Falcone hanno un rapporto di fiducia assoluta. E’ un’altra grande svolta nell’inchiesta di Palermo. Tutti e tre gli investigatori, pur prendendo in futuro strade diverse, diventeranno uno dopo l’altro capi della polizia di Stato.
Un capolavoro di ingegneria giudiziaria.
“Papa, aiutami a far funzionare questo coso!”. E’ un computer Olivetti, uno dei primi che il ministero di Grazia e Giustizia ha spedito a Palermo. Sono accatastati in un angolo del tribunale, ancora avvolti negli imballaggi. E’ “Papa”, Giovanni Paparcuri, che se ne porta uno nella sua stanza alla sezione dei “procedimenti contro ignoti”, lo accende, lo studia, impara ad usarlo e insegna come si fa al giudice Falcone. E’ il 1985, alla vigilia della sentenza di rinvio a giudizio per i 706 imputati del maxi. Tutto l’archivio di Falcone è “informatizzato” da Paparcuri e tutti i segreti del computer di Falcone sono custoditi da Paparcuri. Anche la password dell’Olivetti che il giudice ha sulla scrivania in mezzo alle sue papere colorate: “Avanti”. Paparcuri sino al 1983 è l’autista del giudice, un giorno Falcone è in Thailandia per una rogatoria e “Papa” va a prendere il consigliere Chinnici a casa sua. E’ quel 29 luglio. Anche Giovanni rimane incastrato fra le lamiere dell’auto corazzata. Si salva per miracolo. E poi il miracolo lo fa lui con i suoi computer.
Il maxiprocesso sta per iniziare. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo decidono di sposarsi, fissano la data del matrimonio a maggio del 1986. Il giorno prima delle nozze Falcone confida a Borsellino: “Con Francesca abbiamo deciso di non avere figli, la lista degli orfani è già lunga…”. Ogni via di Palermo ha una lapide, una croce, un altarino con un mazzo di fiori. Riina è latitante da 17 anni e Provenzano da 23.
E nessun giudice vuole fare il presidente del maxiprocesso. Qualcuno s’inventa malattie, qualcun altro problemi di famiglia. Hanno paura. Accetta solo un magistrato del civile, Alfonso Giordano. A lui affiancano un giudice che ha un grande sapere di mafia, Pietro Grasso. E’ quello che ha indagato per primo sulla morte di Piersanti Mattarella. Un giorno Grasso viene trascinato da Falcone in una stanza. Falcone agita una mano davanti a un milione di pagine e gli sorride: “Ti presento il maxiprocesso”. Si apre il 10 febbraio del 1986 e si chiude il 16 dicembre 1987 con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. E’ la prima sconfitta della mafia da quando c’è la mafia. E’ il capolavoro di ingegneria giudiziaria di Giovanni Falcone. Il suo “metodo” ha vinto.
Falcone confessa a Marcelle Padovani in “Cose di Cosa Nostra”, un libro testamento: “Professionalità significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora”. In queste parole c’è molto del pensiero del giudice. L’essenza “rivoluzionaria” del suo riformismo, la sua diversità, c’è il suo genio. Con il maxiprocesso è finita per sempre l’epoca delle assoluzioni per insufficienza di prove. E’ il primo successo dello Stato italiano contro Cosa Nostra. “La mafia è stata sconfitta per sempre”, dichiarano trionfanti i ministri di Roma il giorno dopo la sentenza di primo grado. C’è euforia. L’unico che non si fa contagiate dalla sbornia è Falcone. Conosce troppo bene la mafia.
Lentamente verso la morte.
Talpe. Corvi. Sciacalli. Cosa vuole ancora questo Falcone? La sua gloria l’ha avuta, rientri nei ranghi, basta con questi processi con centinaia di imputati, basta con i “teoremi”. Chi si crede di essere, lo zar dell’Antimafia? Il primo segnale arriva quando se ne va Caponnetto e il CSM, nella primavera del 1988, mette al suo posto Antonino Meli. Chi più di Falcone ha le carte in regola per occupare quella poltrona, per competenza, per la straordinaria prova che ha dato di sé, per i suoi contatti internazionali, per la sua dedizione assoluta alla causa, per il suo senso dello Stato? Ma Falcone va fermato. E lo fermano.
C’è già stata l’”aggiustatina” in appello del maxi, dove una Corte nega l’unitarietà dell’organizzazione criminale. Con la nuova nomina del consigliere istruttore Meli, l’inchiesta di Falcone si riduce a uno “spezzatino antimafia”, frantumata in una ventina di indagini sconnesse una dall’altra. In due settimane Meli seppellisce il pool. I primi nemici del giudice sono sempre i giudici. Nel breve volgere di qualche anno Falcone accumula una disfatta dopo l’altra. Bocciato come consigliere istruttore. Bocciato come Alto Commissario Antimafia. Bocciato come candidato al CSM. Bocciato come procuratore nazionale. Sulle colonne di “Repubblica” Mario Pirani lo descrive come l’Aureliano Buendia di “Cent’anni di solitudine”, che ha combattuto trentadue battaglie e le ha perse tutte.
La sua morte intanto è sempre più vicina. L’attentato fallito all’Addaura e le “menti raffinatissime” che l’hanno organizzato, le lettere di calunnia sul ritorno dei pentiti in Sicilia che lui avrebbe pilotato, il nuovo procuratore Piero Giammanco che lo umilia ogni giorno facendogli fare anticamera e fermando le sue indagini.
Falcone decide di lasciare Palermo. E accetta un incarico al ministero di Giustizia, come direttore generale degli Affari Penali. Per molti è un tradimento. Anche gli amici e pezzi dell’Antimafia che gli sono stati sempre vicini ora lo accusano: “Ti sei venduto al potere e hai tenuto chiuse nei cassetti le indagini sui delitti politici”. Un’altra sofferenza per il giudice. Non può stare in Sicilia, non può stare a Roma. Ha sempre qualcuno contro. Per quello che fa o per quello che non fa. E’ il settimo governo Andreotti, ministro degli Interni il democristiano Vincenzo Scotti, ministro della Giustizia il socialista Claudio Martelli. Il 13 marzo 1991 Falcone prende servizio al ministero di via Arenula. Sembra un altro uomo, apparentemente più sollevato, meno infelice. Presenta un “piano”. Confische dei beni, una legge sui pentiti, il carcere duro per i boss. E’ il suo “pacchetto antimafia”. I mafiosi capiscono quel che c’è da capire: a Roma sta diventando più pericoloso che a Palermo.
L’Italia è un Paese che riserva sempre sorprese.
Giulio Andreotti, l’uomo politico che più di tutti gli altri ha avuto i voti dei “galantuomini” per un trentennio, è il presidente di quel governo –decima legislatura- che sarà ricordato come l’esecutivo che approva le leggi antimafia più severe della nostra Repubblica. Nel periodo romano –un anno e tre mesi- Falcone gioca il tutto per tutto.
Il nuovo direttore degli Affari Penali ordina un’indagine sulla Cassazione e dispone, per i processi di mafia, una “rotazione” delle sezioni penali. Il maxi non passerà più dalle grinfie di Carnevale, la “leggenda in ermellino” che è appostato per regalargli l’ultima mortificazione. Falcone non lo sa ma è già un uomo morto. Il 30 gennaio del 1992 la Cassazione conferma gli ergastoli e, soprattutto, l’impianto dell’inchiesta del maxiprocesso. Il 12 marzo a Mondello uccidono Salvo Lima, l’uomo di Andreotti in Sicilia. Non ha mantenuto la promessa: far saltare il banco dell’inchiesta cominciata dodici anni prima con Rosario Spatola. La sua uccisione ferma il percorso di Andreotti verso il Quirinale.
Poi, lentamente, Falcone viene attirato nella tonnara. I killer di mafia sono già a Roma, pronti a tendergli l’agguato con “armi corte”. A Roma è un bersaglio facile. Ma Totò Riina ordina loro di tornare in Sicilia. Falcone deve morire in un altro modo. In un’operazione di guerra.
Il corteo di auto blindate sull’autostrada, l’esplosione che solleva la terra. Muore il giudice, muore sua moglie Francesca, muoiono i ragazzi della sua scorta, la “Quarto Savona 15”, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo. 48 ore dopo saltano tutti i veti incrociati per l’elezione del presidente della Repubblica e Oscar Luigi Scalfaro è il nuovo Capo dello Stato. La strage ha un effetto “stabilizzante” per la politica italiana. E gli avvertimenti di quella piccola agenzia giornalistica –“Repubblica”-, vicina a una fazione della corrente andreottiana che fa capo al deputato Vittoriuo Sbardella, padrone di tessere della DC romana, uno soprannominato “lo Squalo”- avevano un loro fondamento. Dopo 57 giorni muore anche Paolo Borsellino. Dopo un anno le bombe di Firenze, di Roma e di Milano. Nel 1993 vogliono buttare giù anche la Torre di Pisa, vogliono uccidere 100 carabinieri allo stadio Olimpico, vogliono disseminare le spiagge della riviera romagnola con siringhe infettate dal virus Hiv. Solo Totò Riina?
Oggi, venticinque anni dopo.
La mafia dei Corleonesi non c’è più, spazzata via da una repressione poliziesca e giudiziaria senza precedenti. Totò Riina è ormai un clown in cattività, un personaggio che recita a soggetto e che fa minacce al vento alle quali tutti fanno finta di credere. Non ha più esercito, non ha più un popolo, con le stragi del 1992 a Cosa Nostra ha causato più danni di Buscetta. Dopo le inchieste della prima ora, alcune rigorose e altre taroccate, dopo i depistaggi e le deviazioni e i falsi pentiti, è stata raggiunta una verità giudiziaria che non è poca. La magistratura ha fatto la sua parte, tutti gli uomini della Cupola sono all’ergastolo per la strage e per le stragi. Non era mai accaduto prima. La mafia siciliana sta pagando caro il conto della sua guerra allo Stato.
La verità giudiziaria però non ci consegna i “mandanti altri” o i “concorrenti esterni”, quelli che avevano –insieme a Cosa Nostra- l’interesse ad eliminare Falcone. E’ da un quarto di secolo che quattro procure italiane li cercano e non li trovano. Il cratere sull’autostrada è troppo grande per entrare in una piccola aula di giustizia.
Per coprire questa mancanza, per avere una narrazione attendibile e accettabile di quegli avvenimenti, è il momento che altri contribuiscano alla ricerca di una verità storica che ancora non c’è. Con Buscetta e tutti gli altri è crollato il muro di omertà della mafia. Ma il muro dell’omertà di Stato è rimasto inviolato. Nessuno parla. Nessuno ricorda. Nessuno si pente mai là dentro.
Cosa è accaduto nell’Italia del 1992, quando con l’uccuisione di Falcone –e con Tangentopoli- si è dissolta la Prima Repubblica? I Corleonesi. E chi, con loro? A Palermo e in Sicilia dopo quegli attentati non è più scoppiato nemmeno un mortaretto. La mafia è tornata quella di prima, quella di sempre. “Manza”, tranquilla. Oggi comanda senza armi. Come ai vecchi tempi. Istituzionale, pettinata, politicamente corretta. Pronta a celebrare anche gli “eroi” di cui si è liberata.
Su Giovanni Falcone è stato detto tanto e anche troppo in questi anni di commemorazioni e di parate in alta uniforme. La sua figura esaltata, ma anche usata, debilitata dalla retorica, snervata.
Sono tornato lì, sul cratere, una ventina di giorni fa. Dove c’era l’asfalto spaccato e gli ulivi abbattuti dall’esplosione oggi c’è un quartiere residenziale. Una trentina di villette separate da strade che confinano con il giardino della memoria dedicato ai tre poliziotti uccisi. E’ un piccolo villaggio costruito sopra e ai margini della devastazione, una speculazione edilizia entrata pochi anni dopo la strage nella relazione prefettizia che –nel 2012- ha portato allo scioglimento per mafia del comune di Isola delle Femmine. Da giù, si vede sull’altura il casotto dell’acquedotto dove erano appstati con il radiocomando Brusca e gli altri. Giù è Isola delle Femmine, su è Capaci. Nell’intrico di viuzze che portano da una villa all’altra, operai dell’azienda del gas hanno posizionato una centrale per la distribuzione del metano. E’ un parallelepipedo di acciaio con una grande scritta, molto sinistra: “Area in cui può formarsi un’atmosfera esplosiva”.
Attilio Bolzoni