Giuseppe Ungaretti, “I fiumi” (16 agosto 1916)
Questo è un lavoro scritto nel maggio 1988 da una studentessa del quinto anno dell’indirizzo socio-pedagogico del Liceo Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di acute osservazioni e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, anche se vagliate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica), inevitabilmente ricavate dai manuali scolastici e da alcune pagine saggistiche studiate in precedenza. Mi ha interessato, invece, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture, il non rinunciare al piacere delle idee e dei pensieri pazienti e curiosi. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero.
Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. E credo anche che la scuola dovrebbe essere un vivaio di menti indagatrici, quelle persone curiose che Francesco Bacone, nel ‘500, definiva “mercanti di luce”. Con il tempo ho imparato che l’apprendere è una grande fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla. Soprattutto non deve dominarci la paura delle difficoltà: bisogna accettare culturalmente l’idea che un ostacolo va affrontato e superato. Non voglio, perciò, che questi micro-testi (anche se sono manifestazioni esteriori di pensieri legittimamente ingenui) siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi.
Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.
prof. Gennaro Cucciniello
“I fiumi” Cotici, il 16 agosto 1916
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo 5
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua 10
e come una reliquia
ho riposato
L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso 15
Ho tirato su
le mie quattr’ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua 20
Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere 25
il sole
Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra 30
dell’universo
Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia 35
Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara 40
felicità
Ho ripassato
le epoche
della mia vita
Questi sono 45
i miei fiumi
Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola 50
e mio padre e mia madre
Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza 55
nelle estese pianure
Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto 60
Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare 65
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre
Metro: quindici strofe di versi liberi.
Il poeta stesso ha strutturato il suo testo in sequenze:
- 1-8: abbandonato nella dolina
- 9-12: disteso in un’urna d’acqua
- 13-15: levigato dall’Isonzo
- 16-20: come un acrobata sull’acqua
- 21-26: accoccolato come un beduino
- 27-31: docile fibra dell’universo
- 32-35: il mio supplizio
- 36-41: occulte mani m’intridono
- 42-44: ho ripassato la mia vita
- 45-46: i miei fiumi
- 47-51: il Serchio
- 52-56: il Nilo
- 57-60: la Senna
- 61-62: li ho contati nell’Isonzo
- 63-69: la vita, una corolla di tenebre
- 1-8 Sto aggrappato a quest’albero dilaniato dalle bombe, abbandonato in questo avvallamento, con un senso dolente di abbandono e di solitudine tipico di un circo trasandato prima o dopo lo spettacolo, e guardo il passaggio tranquillo delle nuvole sulla luna.
Il carattere autobiografico del testo è sottolineato dall’uso della prima persona con cui inizia questa prima strofa e dalla frequenza dei pronomi personali e possessivi “mi, mie, miei”. L’incipit è drammatico: il soldato Ungaretti appeso, l’albero squarciato, la cavità brulla della dolina; ma d’incanto la natura desolata si trasforma nella fantasia di un circo solitario, con un languore che si placa, nonostante le nuvole, nella limpida serenità della notte lunare. Da rimarcare la ripetizione del pronome dimostrativo (quest’albero, questa dolina), pronome che si ripeterà regolarmente, con anafora insistente, all’inizio delle ultime sei strofe. E la rima (mutilato, abbandonato): anche questo suono in “ato” verrà ripreso in modo significativo in diverse strofe successive (riposato, tirato, andato, accoccolato, chinato, ripassato, rimescolato).
La lirica si apre con un’amara, dolorosa immagine vegetale (l’albero mutilato) e si chiuderà con un’altra immagine equivalente, il fiore con una corolla di tenebre (vv. 68-69), -figure ossimoriche, dice la critica-, cioè accostamenti di parole di senso opposto per generare un significato supplementare, segnali del mondo violento e contro natura della guerra. Questo è un registro linguistico notturno, carico di dolore, di ferita, di malinconia. Anche in altre poesie Ungaretti riesce a comporre “lettere piene d’amore” vicino a un “compagno massacrato” (“Veglia”), mantenendo le forze vitali dell’allegria pur nell’ora buia del naufragio.
- 9-12: Questa mattina il mio corpo si è disteso nell’acqua del fiume e come in un vaso sacro la mia persona-reliquia ha riposato.
Il bagno mattutino nelle acque del fiume è nello stesso tempo religioso e liberatorio. Il poeta, senza esitare, ricorre a vocaboli che estrae dal codice linguistico religioso e liturgico (urna, reliquia) per spiegarci che la sua immersione vale come simbolo di un bagno cerimoniale, di una purificazione battesimale e la sua persona è un frammento prezioso che sopravvive della sua perduta identità, pur dentro una terribile stagione di crisi e lacerazione esistenziale.
Nell’allitterazione “acqua-reliquia” e nella consonanza “disteso-riposato” c’è l’inizio del confronto tra lo scorrere del fiume e lo scorrere della vita: ciascuno di noi, anche per una memoria di antichi proverbi, può paragonare facilmente il progresso della vita a quello di un fiume, poiché per entrambi (il fiume e la vita) sono conosciuti il principio da una sorgente (nel tempo della nascita) e la fine alla foce (nell’ora della morte).
- 13-15: Il fiume Isonzo, scorrendo, mi levigava come un suo ciottolo.
Ora il poeta procede con similitudini intrecciate in serie: ha cominciato, nel v. 11, con “come una reliquia”, per mettere in luce la qualità quasi mistica del ritrovato rapporto d’intimità con la natura. Ora, nel v. 15, si definisce “un sasso” del fiume, per dirci la propria abbandonata armonia con il creato, la sua piena assimilazione alla natura del fiume, il suo essere ridotto quasi a realtà minerale.
- 16-20: Ho sollevato dall’acqua il mio corpo scheletrico e ho camminato con difficoltà facendo acrobazie sulle pietre del fiume.
Continuano le similitudini, connotazioni rivolte all’io del poeta, ora apparentate a cose (le prime due) ora a esseri viventi (le altre due), ora a sensazioni di immobilità e ora di movimento. “Come un acrobata sull’acqua” è una figurazione eccentrica e a suo modo evangelica, che rappresenta chi è capace di passare sulle acque, richiamo al miracolo di Gesù e, annota un critico, “col poeta capace di compiere a ritroso, nella memoria, il percorso attraverso i fiumi della propria biografia”. L’acrobata richiama anche il circo al quale il poeta ha paragonato “la dolina” nella prima strofa: chiaro riferimento allo spettacolo drammatico e insensato in cui egli in qualche modo cerca un equilibrio difficile, precario, sul filo della morte. Mi sembra che vi si possa rintracciare una specie di “resurrezione” del corpo, dalle “quattr’ossa” alla leggerezza dell’acrobata fino all’integrazione con il sole (vv. 25-6).
- 21-26: Mi sono seduto accovacciato (nella posizione tipica del contadino egiziano), spogliato dei miei panni sporchi di guerra, e come un nomade pastore arabo mi sono inchinato (quasi in preghiera) ad accogliere il sole.
E’ l’ultima similitudine e non riflette la folgorazione di una scoperta improvvisa ma i passaggi di una più lenta e serena conquista interiore. Ora il poeta è nudo, libero dei “panni sudici di guerra” (simbolo della corruzione e della morte), e –in un immediato rapporto con la natura- si china a “ricevere il sole” che porta con sé la luce e il calore della vita. Il paragone, “come un beduino”, introduce l’atmosfera africana su cui Ungaretti tornerà nei vv. 52-56, quelli del Nilo egiziano, ma non è da trascurare la sacralità del gesto dei popoli arabi che si genuflettono a salutare il sole. Mi sembra chiaro il nesso tra ritualità cristiana e ritualità islamica.
- 27-31: Questo, in cui mi bagno, è il fiume Isonzo e qui mi sono meglio riconosciuto come una remissiva particella dell’immensità del creato.
Graduando tutti questi passaggi, simbolicamente confluiti nel fiume Isonzo che attraversa il Carso, il poeta ha conquistato definitivamente coscienza della propria identità, partecipe in modo pieno della vita del tutto e capace di assecondarne con umiltà e armonia (“docile fibra”) i più intimi movimenti, vibrando all’unisono con il creato. Sta riscoprendo la propria smarrita e sacra identità. Il bagno nell’acqua del fiume può anche essere inteso come una sorta di nuova immersione nel liquido amniotico, nell’imminenza di una nuova nascita.
- 32-35: Il mio tormento è quando non mi credo e non mi sento in questo stato di armonia.
E’ questa l’armonia, v. 35, e sarà poi la “rara felicità”, vv. 40-41, di cui il poeta va alla ricerca e che solo pochi momenti privilegiati di pienezza dell’essere sembrano in grado di poter realizzare.
- 36-41: Solo le mani nascoste e misteriose della natura, che ora mi impregnano di un liquido vitale, sanno donarmi la “rara felicità” di sentirmi in armonia con essa.
I versi trasmettono sensazioni indimenticabili (relativi alla bellezza, al silenzio, al mistero della vita in un’atmosfera di morte, in ciò che ha di fragile e di eterno, di contingente e di assoluto). Qualcuno ha voluto vedere in questa immagine anche il ricordo delle mani materne che impastavano il pane ad Alessandria d’Egitto. Infatti le mani impastano e non intridono (questo verbo si accorda meglio all’elemento alluso –l’acqua- che non al segno letterale).
- 42-44: Così sono stato capace di rievocare le epoche della mia esistenza.
Nella luce di questa confidente sincronia con l’universo il poeta ora sente non solo il presente ma anche il passato: ora finalmente è possibile costruirne il processo di riappropriazione, di rivederlo e di passarlo in rassegna, ora che il soldato smette gli abiti della guerra e ritorna trasparente a se stesso.
- 45-46: Quelli che ora evocherò sono i miei fiumi.
Ha scritto Ungaretti: “L’Allegria di naufragi” è la presa di coscienza di sé, è la scoperta che prima adagio avviene, poi culmina d’improvviso in un canto scritto in piena guerra, in trincea, e che s’intitola “I fiumi”. Vi sono enumerate le quattro fonti che in me mescolavano le loro acque, i quattro fiumi il cui moto dettò i canti che allora scrissi”. “E’ la poesia, quindi, della consapevolezza e di una raggiunta identità, che deriva dal recupero del proprio passato attraverso la memoria. Immergersi nella corrente dell’Isonzo equivale a ricordare tutti gli altri fiumi che hanno segnato la mia esperienza, ricomponendone il tessuto lacerato”.
- 47-51: Questo è il Serchio, fiume toscano che scorre vicino a Lucca, nel quale si sono abbeverati nei secoli i miei antenati contadini per generazioni e generazioni, e mio padre e mia madre.
L’acqua, evidente simbolo della vita, richiama le origini ancestrali della famiglia del poeta che –nel suo essere contadina- sottolinea il legame tra il fiume e la campagna che se ne nutre. Si coglie qui anche il rimpianto per la patria impossibile e negata al poeta prima ancora della nascita (il padre operaio era emigrato in Egitto dalla Toscana con la famiglia per lavorare nei cantieri del canale di Suez).
- 52-56: Questo è il Nilo che mi ha visto nascere e crescere (Ungaretti era nato, da genitori emigrati, ad Alessandria d’Egitto, nella zona a nord-ovest del delta) e bruciare di speranze e passioni nell’ora ingenua della giovinezza nelle pianure del deserto.
Il Nilo rievoca la stagione libera e avventurosa dell’infanzia e della prima giovinezza africana, con le acquisizioni spontanee della vita e dei sensi, rievocate in climax dai tre verbi all’infinito, “nascere e crescere e ardere”, uniti dalla rima e dalla sdrucciola.
- 57-60: Questa è la Senna e nel colore limaccioso del fiume (nelle tumultuose e contrastanti esperienze culturali della vita a Parigi) io mi sono immerso e ho avuto più chiara conoscenza di me stesso.
La Senna richiama gli anni parigini dell’inquieta formazione artistica e intellettuale di Ungaretti, che nella capitale francese ha scoperto la propria vocazione letteraria (mi sono conosciuto), che si oppone allo spensierato e adolescenziale “ardere d’inconsapevolezza” della strofa precedente, ma rappresenta ancora una fase anteriore rispetto al “mi sono riconosciuto” nell’Isonzo del v. 29, più elementare ed esistenziale, definitivo e assoluto.
- 61-62: Questi sono i miei tre fiumi ritrovati e ricordati nell’Isonzo.
I tre fiumi ricordati, concreto riscontro geografico, sono fiumi della realtà ma anche e soprattutto fiumi della memoria (contati), le cui acque, nota la critica, “ora zampillano in un’unica sorgente di vita e di poesia”. Voglio ricordare la forza dimostrativa dei pronomi che, riprendendo il v. 27 –“questo è l’Isonzo”– , il fiume del drammatico fronte italo-austriaco, si ripetono regolarmente , in anafora, all’inizio delle ultime strofe.
Ungaretti più volte ha sottolineato l’importanza di questo catalogo poetico: “Finalmente mi avviene in guerra di avere una carta d’identità: i segni che mi serviranno a riconoscermi sono i fiumi che mi hanno formato. Questa è una poesia che tutti conoscono ormai, è la più celebre delle mie poesie: è la poesia dove so finalmente in modo preciso che sono un lucchese, e che sono anche un uomo sorto ai limiti del deserto e lungo il Nilo. E so anche che se non ci fosse stata Parigi, non avrei avuto parola; e so anche che se non ci fosse stato l’Isonzo non avrei avuto parola originale”.
- 63-69: Questa è la mia nostalgia, vista in trasparenza nell’acqua di ognuno di questi fiumi, ora che è notte intorno a me, vicino all’albero dilaniato, e la mia vita mi sembra la corona dei petali di un fiore, corona in cui si immergono le tenebre della morte.
Il poeta si è finalmente pacificato: si è creato, così, un legame di quiete con il paesaggio notturno che incornicia ad anello il componimento (vedi il “passaggio quieto delle nuvole sulla luna” dei vv. 7-8). Ora è notte: il poeta sente nostalgia per la felice mattina sull’Isonzo e per la memoria lì ritrovata dei diversi suoi fiumi. Nel ritorno alla desolazione dei versi iniziali Ungaretti avverte la propria vita come un condensato di angoscia ed evoca la fantasia della “corolla di tenebre”. Ma l’immagine è un ossimoro, perché allude insieme alla bellezza dei fiori e al timore per l’oscuro e precario destino che incombe in ogni momento di questa sua esperienza in trincea.
Lucia B.