“Apollo scortica Marsia” di Tiziano, 1570. Castello di Kromeriz (Repubblica ceca). Lettura divulgativa.
La fonte ovidiana. Marsia, satiro della Frigia, raccoglie il flauto inventato dalla dea Atena (e da questa gettato via per la vergogna di gonfiare le guance) e sfida Apollo che –suonando la lira- lo vince e lo punisce scorticandolo vivo; Marsia si trasformerà in fiume.
“Un altro si sovvenne del Satiro (Satyri reminiscitur alter) che, suonando il flauto (inventato dalla dea del Tritone), fu vinto in una gara dal figlio di Latona e punito. “Perché mi sfili dalla mia persona?” –gridava il Satiro- “Ahi, mi pento! Ahi, il flauto non valeva tanto!” Urlava, e la pelle gli veniva strappata da tutto il corpo, e non era che un’unica piaga: il sangue stilla dappertutto, i muscoli restano allo scoperto, le vene pulsanti brillano senza più un filo d’epidermide; gli potresti contare i visceri che palpitano e le fibre translucide sul petto (cruor undique manat, detectique patent nervi, trepidaeque sine ulla pelle micant venae; salientia viscera possis et perlucentes numerare in pectore fibras). I Fauni campagnoli, divinità dei boschi, e i Satiri suoi fratelli, e Olimpo, a lui caro anche in quel momento, lo piansero, assieme a chiunque su quei monti faceva pascolare greggi lanute e mandrie cornute. Il suolo fertile s’inzuppò delle lacrime che cadevano, e inzuppatosi le raccolse e le assorbì fin nel profondo delle proprie vene; poi le convertì in un corso d’acqua, e riversò quest’acqua all’aria aperta. Così quel fiume che da lì corre tra rive in declivio verso il mare ondoso, si chiama Marsia, il più limpido fiume della Frigia” (Ovidio, Metamorfosi, libro sesto, vv. 383-400).
Descrizione del quadro. Seguo le suggestioni scritte in un saggio di A. Gentili. Il dipinto deriva la sua iconografia, con alcune varianti importanti e –vedremo- decisive, da un prototipo di Giulio Romano: quello del discepolo di Raffaello era un disegno preparatorio (ora al Louvre) per un affresco di Palazzo Te a Mantova.
Marsia, sconfitto da Apollo nella gara musicale, subisce un castigo durissimo: appeso a un albero a testa in giù, è spellato con estrema crudeltà. Lo stesso Apollo, con la corona di alloro sul capo, ginocchioni a sinistra con in pugno un coltello-bisturi, partecipa alla scuoiatura; sopra di lui, in piedi, lo aiuta un inserviente con in testa un berretto frigio; all’estrema sinistra un altro aiutante, cui il dio ha temporaneamente ceduto la sua viola, suona lo strumento con volto ispirato (questo personaggio, come il bimbo col cane all’estrema destra, è forse un inserto posteriore alla morte di Tiziano). A destra di Marsia, appeso all’albero, un satiro –con la bocca semiaperta- reca un secchio colmo d’acqua, non si sa se per ripulire il sangue o per facilitare il lavoro del dio ammorbidendo la pelle del suppliziato o per alleviare la sofferenza del compagno. Ancora a destra c’è il re Mida, il giudice della gara, che siede assorto –con la corona d’oro sulla testa e con la mano sulla bocca- e medita in atteggiamento malinconico e pensoso, col volto disfatto, gli occhi gonfi. (Di solito questo personaggio era caratterizzato da due lunghe orecchie asinine: qui esse sono state eliminate perché la figura è un autoritratto di Tiziano –come si deduce dal confronto con l’Autoritratto del Prado- che ha voluto inserirsi nella composizione per mettere in evidenza il proprio giudizio dubbioso, se non la propria contrarietà, di fronte alla ferocia del supplizio).
Il volto di Marsia non esprime dolore (tanto è vero che egli non urla, contrariamente a quello che scrive Ovidio, “clamabat”): piuttosto c’è un misto di spavento, incredulità, rassegnazione. E’ appeso con le zampe caprine incrociate e ciò nasconde i suoi attributi sessuali, in grande evidenza invece nel disegno di Giulio Romano. Il suo corpo appare sottoposto a una lieve torsione, in quanto Apollo sembra spingerlo verso l’esterno e lo Scita lo tira invece verso l’interno. Apollo, coronato e seminudo, con volto soddisfatto e attento tira via una striscia di pelle che il suo coltello ha appena staccato dal fianco del Satiro, e di lì il sangue cola fino a terra. L’inserviente Scita è un vero professionista: impassibile, silenzioso, tutto preso dal suo lavoro: ha staccato dalla zampa di Marsia una striscia di pelliccia, superficiale, dato che la ferita non sanguina. Nello sfondo scorre un fiume, il bosco è bruno, il cielo grigio macchiato di rosso: ancora un’atmosfera di tempesta e di tramonto. La mano sinistra del Satiro col secchio d’acqua conduce a un brandello di pelliccia grigia e bruna appeso ad un ramo: è un’indicazione tipicamente tizianesca –marginale ed allusiva- del finale del mito, quando la pelle di Marsia sarà appunto appesa ad un albero a gonfiarsi nel vento, lugubre trofeo di Apollo vincitore
Rispetto all’iconografia di Giulio Romano Tiziano ha volutamente celato gli attributi sessuali dei due Satiri, ha rappresentato Apollo senza faretra e con la corona d’alloro, gli ha messo un coltello in mano e ha fatto grondar sangue dalla ferita da lui aperta. Lo strumento di Marsia, inconsuetamente, è la zampogna a sette canne (che di solito è attributo di Pan), emblema dell’armonia naturale. Marsia non mostra in evidenza attributi di lussuria e di ebbrezza, non urla. Insomma la sua figura acquista, rispetto al prototipo di Giulio, una dignità. Lo Scita non ha più l’aspetto sadico e crudele (come nel disegno di Romano): è solo un esecutore preciso, rude, senza particolari scrupoli e colpe. Dalla ferita che egli ha aperto non esce sangue. Apollo, coltello in mano, scuoia con soddisfazione e dalla ferita che egli ha aperto sgorga sangue in abbondanza. Il sangue è leccato dal cagnolino che scodinzola felice in primissimo piano e che sembra leccare golosamente il filo cruento che sgorga dal corpo scorticato: un dettaglio naturalista coerente con questa tela impastata di luce e di sangue.
C’è un particolare significato culturale? Il dipinto è una spia del profondo mutamento della cultura umanistico-rinascimentale in Italia dopo la metà del ‘500. Scrive un critico che le ottimistiche arcadie giorgionesche della giovinezza di Tiziano, i sogni neo-platonici di un accordo armonioso tra l’umano e il divino –coltivati soprattutto nel primo ventennio del ‘500- si erano per sempre dissolti. La storia impietosa dell’Italia e dell’Europa aveva spazzato via quelle illusioni. L’artista aveva progressivamente scoperto che la vita è dramma, anzi tragedia, e a questa scoperta aveva adeguato la sua pittura.
Torniamo a un’analisi dettagliata del quadro. Vediamo bene la composizione. Alla sinistra del corpo appiccato e torturato di Marsia vediamo la crudeltà sanguinaria e arrogante di Apollo e quella fredda e professionale dello Scita che lo aiuta; alla destra la commiserazione profonda di Mida-Tiziano e quella più immediata e istintiva del Satiro. A sinistra, dunque, chi è dalla parte di Apollo; a destra chi è dalla parte di Marsia. A livello compositivo e anche ideologico. Un dettaglio straordinario conferma questa netta opposizione, destra-sinistra: il fiume –originato secondo alcune fonti dal sangue di Marsia, secondo altre dal suo pianto unito a quello di satiri fauni ninfe e pastori- è limpido a destra mentre a sinistra si colora di sangue. E’ la denuncia dell’arbitrio e della violenza. La musica divina trionfa: ma, nel silenzio del dio carnefice, sul silenzio del satiro torturato e giustiziato. Appeso a testa in giù e fatto a pezzi, Marsia indica il capovolgimento del ciclo temporale, la fine del primitivismo naturale di Saturno e Dioniso, l’inizio della civiltà storica di Giove e Apollo. Mida, seguace di Dioniso e della dimensione naturale, è sinonimo di un giudizio umano che mette in dubbio la pretesa superiorità dell’armonia divina e chiede ragione del delitto dei potenti. Egli è metafora dell’artista: la sua malinconia saturnina –malinconia d’una creazione d’arte imperfetta- proviene da un’illusione: la lunga illusione della corona d’oro del grande pittore, l’illusione di trasmutare la materia in immagine preziosa, spenta dalla coscienza finale dell’assoluta irrilevanza dell’operazione artistica di fronte alla disgrazia della storia. La storia distrugge per sempre l’età d’oro primitiva dei satiri e dei fauni, delle ninfe e dei pastori, portando nel mondo l’oppressione degli dei e di quello che questi rappresentano.
Tiziano quando si riferisce ai quadri mitologici dipinti nei suoi anni giovanili e della prima maturità usa consapevolmente il termine “poesie”: egli vuole rivendicare alle sue favole dipinte gli stessi valori e le stesse ragioni riconosciute nell’età umanistica alle favole scritte. Nell’opera d’arte c’è la presenza simultanea di due livelli, l’uno che vuole dilettare le menti basse con soggetti attraenti e forme affascinanti, l’altro che vuole fornire alle menti più elevate la gioia di scoprire i significati allegorici, in linea con la tradizione filosofico-letteraria che va dalle “Genealogie degli dei” di Boccaccio ai “Dialoghi d’amore” di Leone Ebreo. E’ necessario perciò affrontare il problema degli strumenti culturali del nostro pittore, della sua formazione intellettuale, delle sue fonti, delle sue relazioni per capire la qualità di questa evoluzione.
Può esserci utile il riferimento a un quadro di Tintoretto, “Apollo e Marsia”, del 1545, ora al Museo di Hartford negli USA, opera minore ma interessantissima come termine di confronto per comprendere appieno la svolta radicale che sarà operata da Tiziano solo venticinque anni dopo. Il giovane Tintoretto riprende la fonte di Diodoro Siculo secondo cui la contesa tra il dio e il satiro si era svolta a Nisa e aveva avuto appunto per giudici i nisei: i tre personaggi maschili sulla destra appaiono infatti impegnati in discussione, osservati con qualche apprensione –dato che in un primo momento avevano giudicato Marsia vincitore- dalla dea Atena, che ha nella sinistra l’asta e ha deposto ai suoi piedi lo scudo con la testa di Medusa. Marsia, rappresentato come villano, scalzo e vestito di un rozzo camiciotto, ha nelle mani un “aulos” di ingombranti dimensioni. Apollo, nobilmente abbigliato, appoggiato ad un albero d’alloro e coronato delle sue fronde, ha la lira da braccio disposta per l’esecuzione, mentre l’archetto è ancora lontano: è forse il momento in cui s’appresta ad entrare in gara, dato che Marsia sembra aver appena smesso di soffiare nel suo strumento. Ricordiamo che il perduto pendant di questo dipinto doveva narrare di Mercurio che addormenta con la musica Argo dai cento occhi, per sottrarre alla sua custodia, evidentemente attentissima, la ninfa Io amata da Giove. I due dipinti esaltavano dunque, concordemente, secondo la consueta ideologia umanistica, il potere dell’armonia divina a confronto con la dissonanza della musica rustica e con l’inadeguatezza del giudizio umano. Questo era, ancora nella Venezia di metà ‘500, il repertorio consueto del mito al quale attingevano gli intellettuali e gli intenditori. Ora siamo invece negli anni Sessanta del Cinquecento: la storia tragica dell’Italia sta devastando le menti e i cuori degli intellettuali, la penisola è stata invasa e saccheggiata da truppe straniere, la divisione della cristianità e la persecuzione del dissenso sta tormentando le coscienze, s’è aperto un baratro della storia. Questa è la fotografia pittorica della crisi di una classe dominante e dell’imperturbabilità della sua cultura.
E’ in questo contesto che Tiziano sviluppa in totale autonomia e isolamento la ripresa dei miti ma secondo un’interpretazione del tutto antitetica a quella tradizionale e che era stata sua quaranta-cinquanta anni prima: non più un divertente repertorio di favole scacciapensieri ma dimensione tragica della soggezione-sottomissione degli uomini agli dei, grande metafora del rapporto tra il subalterno sempre sconfitto e il potente arrogante vincitore. Gli elementi fondamentali del suo platonismo giovanile –amore celeste e musica divina- sono ora completamente ribaltati e dimostrano che idillio e armonia sono mistificazioni d’una cultura mistificatrice.
Il linguaggio pittorico. Nei suoi tardi anni l’opera del nostro autore, lontana ormai dalla concezione armoniosamente naturalistica delle mitologie degli anni ’30, giunge a un progressivo disfacimento della materia pittorica. Le sue figure, ambientate su uno sfondo di paesaggio privo di profondità prospettica, si frantumano nella luce, in una varietà di impasti. E’ il colore che esprime le sue riflessioni esistenziali, la sua solitaria meditazione sul senso tragico della vita umana. La stesura cromatica è spezzata in scaglie luminose. La critica parla di “sbavature baluginanti di tinte impressionistiche, una pittura che fa deflagrare il colore e arroventa le forme, esponendole a strali di luce che le estraggono da nebbie caliginose e ombre dense come la pece”. I protagonisti sono fisicamente smembrati: e allora si smembra anche il tessuto pittorico, si dissolve la forma umanisticamente definita in frammenti sconvolti di materia colorata. La forma si sgrana come per attestare che la realtà non è più comprensibile e accettabile, il colore si fa più cupo tendendo a una monocromia bruno-rossastra, c’è un accentuarsi della notte che ingoia luce e corpi. Non è una pura e semplice soluzione tecnica ma una metafora lucidissima che completa e sottolinea il significato profondo del quadro come se Tiziano volesse dirci che la sua esperienza artistica è destinata all’esaurimento e all’inattualità. Non c’è alternativa al disagio di vivere nella storia. Sostiene Gentili che Tiziano non crede che la sua opera possa incidere in qualche forma sulla storia ma è cosciente del fatto, questo sì, che la storia sta voltando una pagina decisiva –quella che pone fine alle illusioni umanistiche e rinascimentali- e lo dice con voce chiara, polemica, e lo ripete in altre opere contemporanee. Una di queste sarà “La morte di Atteone”, del 1576, ora alla National Gallery di Londra.
La morte di Atteone.
La fonte ovidiana. Il giovane cacciatore, figlio di Aristeo e di Autònoe, figlia di Cadmo, vede Diana nuda al bagno e, mutato in cervo, è sbranato dai propri cani. “In fondo alla valle, nel più folto del bosco, c’era una grotta, perfetta, ma non per arte umana; la natura, col suo estro, aveva fatto un lavoro che pareva artificiale: con pomice viva e tufo leggero aveva costruito spontaneamente un arco. A destra fruscia e luccica una fonte dall’acqua trasparente, con la larga sorgente incorniciata da un bordo erboso. Qui Diana, la dea delle selve, quando era stanca di cacciare, era solita spandere puri fiotti sulle sue membra di vergine (…)
Mentre Diana si bagnava lì alla sua solita fonte, ecco che il nipote di Cadmo, prima di riprendere la caccia, vagando più o meno a caso per il bosco che non conosceva, arrivò in quel sacro recesso: ce lo portò il destino. Appena entrò nella grotta stillante della sorgente, le ninfe, nude com’erano, alla vista del maschio si batterono il petto e riempirono tutto il bosco di urla improvvise, e corsero a disporsi intorno a Diana e la coprirono con i propri corpi. La dea però, più alta di loro, le sovrastava tutte dal collo in su. Quel colore purpureo che prendono le nuvole contro cui si rifrange il sole, o che ha l’aurora, quel colore apparve sul volto di Diana sorpresa senza veste. Benché premuta da ogni parte dalla folla delle compagne, pure torse il busto di fianco e girò indietro il viso. Non aveva a portata di mano le frecce, come avrebbe voluto; prese l’acqua, che aveva lì, ne inondò la faccia dell’uomo, e inzuppandogli i capelli col fiotto vendicatore disse queste parole, presagio d’imminente sventura: “E ora racconta di avermi visto senza veli, se ci riesci!” Non profferì altre minacce. Dette al capo spruzzato corna di cervo longevo, allungò il collo, appuntì in cima le orecchie, cambiò le mani in piedi, le braccia in lunghe zampe, e ammantò il corpo di un pelame chiazzato. E aggiunse la timidezza.
Fuggì via l’eroe figlio di Autònoe, e mentre fuggiva si stupì di essere così veloce. Quando poi si vide nell’acqua quel muso e le corna, “Povero me!” voleva dire: non uscì nessuna voce. Emise un gemito: quella fu la voce, e le lacrime scorsero giù per un volto che non era più il suo. Gli restava soltanto la mente d’un tempo. Che fare? Tornare a casa, alla reggia, o nascondersi nei boschi? Quello glielo impediva la vergogna, questo la paura. Mentre stava lì incerto, lo avvistarono i cani (…)
Tutta questa muta lo insegue, affamata di preda, per rupi e dirupi e rocce inaccessibili, per dove la via è difficile, per dove una via non c’è. Lui fugge, per quei posti per i quali spesso li aveva seguiti, ahimé fugge quelli che erano suoi servitori. Vorrebbe gridare: “Sono Atteone! Non mi riconoscete? Sono il vostro padrone!” Vorrebbe, ma gli manca la parola. E il cielo rintrona di latrati. Le prime ferite gliele infligge sul dorso Melanchète, poi Terodamante; Oresìtrofo gli si attacca a una spalla (…) Mentre essi trattengono il padrone, il resto della muta si raduna e gli conficca a gara i denti nelle carni. Ormai non c’è più spazio per le ferite. Lui geme, e lo fa con dei suoni che, anche se non sono umani, pure un cervo non li emetterebbe. E riempie le note balze di tristi lamenti, e ginocchioni volge attorno sguardi smarriti e imploranti, come se tendesse le braccia per supplicare. Invece i suoi compagni aizzano la torma impetuosa con le consuete grida d’incitamento, ignari, e cercano con gli occhi Atteone, e come se fosse lontano fanno a gara a chiamare Atteone (lui gira il capo sentendo il suo nome) e si lamentano che non ci sia e che per pigrizia si perda lo spettacolo della fine della preda. Lui vorrebbe certo non esserci, ma c’è; e vorrebbe assistere, non anche sentire la ferocia dei suoi cani” (Ovidio, Metamorfosi, libro terzo, vv. 157-248).
Descrizione del quadro. A destra è figurato Atteone, con la testa di cervo e il corpo ancora umano, che sta per cadere assalito dai suoi animali, e a sinistra -in primissimo piano e con un inserto non fondato sul testo ovidiano ma voluto da Tiziano per motivi espressivi ed ideologici- c’è la stessa dea Diana che si vendica dell’affronto subito sfrecciando l’uomo-cervo. Il corpo di Atteone è colto nell’atto stesso del mutamento. Nonostante appaia ancora per la maggior parte umano, non riesce più a fare movimenti umani, non si tiene più su due gambe e va barcollando in cerca dell’equilibrio, reso precario anche dall’assalto dei cani. A destra, ancora in primo piano, scintilla un corso d’acqua, più chiaramente visibile a sinistra nel piano intermedio. Atteone viene a trovarsi così su un ponte naturale, che assume anche valore simbolico di ponte tra due esistenze, due condizioni, due nature. Il regresso dalla condizione umana a quella ferina. Questo regresso è sottolineato nella fonte letteraria dalla separazione tra coscienza e parola, qui –nel dipinto- dalla doppia natura del protagonista. La presenza della dea, gigantesca nelle proporzioni, dinamica nello slancio deciso del corpo, è lasciata nella piena evidenza del gesto omicida.
Il significato. La critica concordemente sottolinea che in queste ultime sue opere Tiziano fornisce la chiave ultima di interpretazione della sua lunga ricerca sul rapporto tra gli uomini e gli dei. Nella teoria platonica e nella cultura umanistica condivisa nella sua gioventù, nel primo ventennio del Cinquecento, la rivisitazione del mito conduceva gli uomini al raffinamento, alla catarsi, alla sublimazione; ora invece un giudizio del tutto consapevole e senza equivoci ci svela che questo rapporto conduce all’imbestiamento, alla distruzione, alla morte. I miti antichi, che in gioventù aveva letto e interpretato come lezioni di virtù, ora gli sembrano solo vuote menzogne: Apollo è un crudele scorticatore, Diana una vendicatrice sanguinaria. Qui non v’è più la caccia, come nel “Supplizio di Marsia” non c’era più la musica, ma la scontro brutale tra dominanti e dominati: uomini senza fortuna, dei senza pietà e giustizia. L’idillica età dell’oro cede il posto a un tragico principio d’autorità. La forma si sgrana come per attestare che la realtà non appare più comprensibile. Lo smembramento del tessuto pittorico, la stesura incandescente e disfatta, ci svela l’idea del pittore che anche l’opera d’arte è destinata all’inattualità e alla morte. Scrive Bertelli: “Tiziano esprime così in una sorta di ferocia espressiva la fine di una civiltà, interpretando a suo modo la crisi storica che altri artisti italiani avevano diversamente segnalato, ora rifugiandosi nel formalismo manieristico di Pontormo e Rosso fiorentino, ora avvertendo –come Michelangelo- il peso della schiavitù terrena e un fortissimo desiderio di sublimazione nella trascendenza”.
Gennaro Cucciniello