Gli eroi traditi di El Alamein
Ottant’anni fa la sconfitta con onore dei paracadutisti della Folgore mandati al massacro dal regime fascista di Mussolini
Nella “Repubblica” di venerdì 21 ottobre 2022, a pag. 37, è pubblicato questo articolo di Corrado Augias.
El Alamein, 23 ottobre 1942. Alle 20,45, scesa già la notte, 880 cannoni britannici aprono il fuoco contro le postazioni italo-tedesche sorprendendo i militari dell’Asse che cercano un po’ di sonno rannicchiati nelle buche scavate nella sabbia. La tremenda tempesta di fuoco illumina a giorno la linea dell’orizzonte verso oriente accompagnata da un terrificante fragore.
Quella notte vennero sparati circa 130mila colpi accompagnati da 125 tonnellate di bombe sganciate dagli aerei della Raf. Poteva essere la fine, invece non lo fu. All’alba ci si rese conto che i 12mila uomini della divisione Trento e della 164° divisione tedesca avevano bloccato l’attacco di fanteria e carri seguito al bombardamento. Rievocare quella battaglia a 80 anni da quei giorni è un gesto doveroso verso chi la combatté, mandato in guerra –in particolare gli italiani- con equipaggiamento, armi, logistica, molto inferiori non solo a quella del nemico ma dello stesso alleato germanico.
Quella battaglia prende nome da un’insignificante località a poca distanza dalla costa. In arabo Al ‘Alamayn significa: due bandiere. Fino a non molti anni fa (forse ancora oggi) si poteva vedere lungo la strada una pietra miliare con il simbolo del 7° bersaglieri recante la scritta “Mancò la fortuna non il valore”. Più sotto: “Alessandria 111 km”. Il cippo segnala il punto estremo cui era arrivata, in luglio, l’avanzata italo-germanica diretta a Suez. Raggiungere il delta del Nilo significava interrompere il traffico nel canale di Suez, favorire il ricongiungimento tra le colonne che procedevano lungo la costa e le truppe germaniche che scendevano dal Caucaso. Se la tenaglia si fosse chiusa, l’intera situazione nel Mediterraneo sarebbe profondamente cambiata. Esattamente per questo l’alto comando britannico aveva deciso che l’avanzata andava fermata ad ogni costo schierando tutte le forze necessarie per ottenere il risultato. Devo una parte di queste informazioni a Giovanni Verusio che sulla battaglia di El Alamein, e sullo stato dei luoghi da lui visitati tempo fa, ha scritto pagine molto belle nel saggio “Sui campi di battaglia” (Passigli).
Quel tratto di deserto sembrava prestarsi in modo particolare all’obiettivo britannico. La conformazione del terreno forma in quel punto una strettoia di poche decine di km tra il mare a nord e la depressione di Al Qattara a sud. Un avvallamento che scende per più di cento metri sotto il livello del mare, con pareti scoscese di rocce friabili, impraticabili per qualunque tipo di veicolo su ruote o su cingoli. Se si pensa che Erwin Rommel (comandante dell’Afrika Korps) era famoso proprio per la sua abilità nella manovra dei carri armati, si capisce quanto fosse appropriata la scelta di bloccare lì l’avanzata. Tanto più, bisogna aggiungere, che le truppe del cosiddetto Asse, tedeschi e soprattutto italiani, erano drammaticamente a corto di carburante. Due o tre navi cisterna che avrebbero dovuto rifornirli erano state affondate dalla marina nemica mentre rimaneva enorme la differenza di mezzi. Di fronte a 700 carri delle truppe del Commonwealth, i soldati dell’Asse disponevano di forze corazzate pari a un decimo, con esigua disponibilità di manovra data la scarsità di carburante. Sul fronte opposto il maresciallo Bernard Law Montgomery poteva contare su una superiorità di 2 a 1 in uomini e di 5 a 1 in artiglierie, carri e aerei. Combatté la sua guerra, commise errori anche grossolani, alla fine però vinse anche perché lo favorì la supremazia della sua armata.
Due anni dopo Rommel finirà suicida per ordine di Hitler che lo sospettava complice di una congiura militare. Aveva una bassissima considerazione delle truppe italiane. Più volte aveva espresso giudizi sprezzanti: “Gli italiani dovrebbero essere frustati. Sei carri armati inglesi hanno fatto prigioniero un intero battaglione della divisione Trento. Questo popolo di merda (alla lettera: Scheissvolk) merita di essere fucilato in blocco”.
Il generale tedesco ad un certo punto dovette abbandonare il campo di battaglia. Dopo mesi nel caldo torrido di quella fine estate, gravato da enormi responsabilità, aveva cominciato a soffrire di seri disturbi gastro-intestinali. Quando, tornato in patria, fece rapporto a Hitler, giustificò la critica situazione in Nord-Africa affermando tra l’altro che i carri italiani erano troppo deboli, insufficiente la gittata della loro artiglieria. Durante la ritirata i soldati tedeschi rifiutarono più volte di ospitare sui loro camion gli italiani che coprivano a piedi, nel caldo asfissiante, lo stesso percorso. Gli italiani comunque resistettero a lungo prima di cedere. Solo tra il 2 e il 3 novembre, ricevuto l’ordine di ritirata, i paracadutisti della Folgore abbandonarono le loro posizioni marciando senza cibo, trascinando nella sabbia le poche mitragliatrici. Quando i reparti motorizzati inglesi li accerchiarono intimando la resa, risposero con il grido Folgore e il fuoco delle loro povere armi riuscendo a mettere temporaneamente in fuga il nemico. Era solo questione di tempo ovviamente, alla fine la superiorità di uomini e mezzi prevalse su truppe che, nel deserto infuocato, non avevano nemmeno più acqua da bere.
Il 6 novembre, senza essersi mai arresi, 32 ufficiali e 272 parà “sfilarono in formazione davanti ai reparti inglesi con l’onore delle armi”. Il 22 novembre, in un discorso alla Camera dei Comuni, Churchill disse: “Dobbiamo inchinarci dinanzi ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore”.
Questi i fatti. L’errore della Sinistra nel dopoguerra è stato di lasciarne la memoria alla retorica neofascista,
C’è voluta l’azione decisa del presidente Azeglio Ciampi perché ai parà di El Alamein, ai granatieri di Cefalonia, agli incursori che arrivarono a minare il naviglio inglese nel porto di Alessandria, fosse restituito ciò che meritavano. Sul regime, personalmente su Mussolini, resta il crimine di averli mandati a combattere in quelle condizioni.
Corrado Augias