“Guernica”. Anatomia di un capolavoro.
Una strage di civili. Picasso impegnato in un mese di folle lavoro. Le polemiche, la guerra, la “fuga” negli Usa, il ritorno in Europa.
Il giornalista Marco Cicala ha scritto, nel “Venerdì di Repubblica” del 31 marzo 2017, alle pp. 14-22, un lungo articolo sulle peripezie di un dipinto che ottanta anni fa cambiava la storia dell’arte. Uno dei pittori italiani del gruppo di “Corrente”, Ennio Morlotti, così annotava: “Con “Guernica” abbiamo cominciato a voler vivere, a uscir di prigione, a credere nella pittura, a non sentirci soli, aridi, inutili, rifiutati; a capire che anche noi pittori esistevamo in questo mondo da rifare, eravamo uomini in mezzo agli uomini, dovevamo ricevere e dare”. Ed Herbert Read scrisse: “E’ un monumento alla distruzione, alla disperazione, alla disillusione”.
Gennaro Cucciniello
Per leggere la tela. Simboli, enigmi: un’opera in otto mosse.
Il cavallo, al centro: è la figura più celebre del dipinto, presente sin dal primo abbozzo picassiano. Se ne sono date interpretazioni opposte. Picasso disse: “Il cavallo rappresenta il popolo spagnolo”. In uno schizzo, dalla pancia dell’animale usciva un Pegaso alato.
Il toro, a sinistra in alto: molto presente nell’arte di Picasso come creatura mitologica (minotauro) o protagonista della Corrida. Per alcuni questo sarebbe una specie di autoritratto dell’artista, ma Picasso disse: “E’ il simbolo della brutalità”.
L’uccello, tra il toro e il cavallo: nella versione finale è quasi invisibile. Chi ci vede una colomba la interpreta come simbolo della pace spezzata.
Donna con le braccia al cielo, all’estrema destra: il gesto della figura dentro la casa in fiamme (in cui alcuni analisti vedono un uomo) ricorda quello del Fucilato di Goya nel dipinto “3 maggio 1808”. Un’altra fonte di ispirazione potrebbero essere stati gli antichi crocefissi.
La lampadina, al centro in alto: in una mandorla di luce, emette raggi solari. Può ricordare l’occhio onniveggente degli affreschi primitivi. E’ stata interpretata come un simbolo ambiguo del progresso tecnico.
Il combattente, in basso sul centro-sinistra: nelle versioni scartate stringe una manciata di grano oppure alza il pugno della resistenza e porta un elmetto dalla forma antica. Nel dipinto finale è smembrato e stringe una spada. Qualcuno ci vede una statua in pezzi.
La donna con il bimbo morto, a sinistra: una rilettura del motivo classico della Pietà. Secondo le interpretazioni più ideologiche rappresentava Madrid o la Repubblica spagnola attaccata dai fascisti. Come la figura che alza le braccia, ha occhi a forma di lacrima.
La donna con il lume, a destra del cavallo: la lampada è stata vista come simbolo di speranza. Il volto sarebbe quello di Marie-Therèse Walter. Mentre Dora Maar sarebbe stata raffigurata nella donna sotto di lei o, secondo altri, in quella piangente con il bimbo morto.
Madrid. Coppie, scolaresche, gruppi vacanza, pensionati o gli ormai ineludibili hipster con barbetta e occhiali spessi: al Museo Reina Sofia c’è sempre un mucchio di gente più o meno venerante accampata davanti a Guernica. Ma viene da chiedersi se oggi, in tempi di massacri banalizzati, la strage che ispirò quel dipinto in ogni senso enorme avrebbe lo stesso impatto emotivo di allora, cioè ottant’anni fa.
Nel pomeriggio del 26 aprile 1937, col grazioso contributo dell’aviazione mussoliniana, gli Heinkel e gli Junkers di Hitler sganciarono sull’antica capitale basca di Guernica fra trenta e quaranta tonnellate di bombe, incendiarie o a scheggia. Era un lunedì, giorno di mercato. Gli abitanti stavano riemergendo dalla siesta, quando insieme agli animali –asini, maiali, galline- si ritrovarono ingoiati da un tornado di fuoco. Dopo tre ore di martellamento dal cielo, della città non rimaneva che la carcassa. I morti furono 1654, i feriti quasi 900. Benché ospitasse qualche impianto per la fabbricazione di armamenti, Guernica non rappresentava uno snodo strategico. Arrostendo i civili, l’incursione non aveva altro obiettivo che quello terroristico di stroncare il morale tra le forze repubblicane. Per quanto le grandi potenze avessero già testato certi metodi nelle terre coloniali, si trattava del primo bombardamento a tappeto sul suolo europeo. Più tardi, sconfessando le fanfaluche franchiste che addossavano l’ecatombe ai “rossi”, Hermann Goring avrebbe definito Guernica un “laboratorio”. Era la prova su strada dei nubifragi di bombe che si sarebbero abbattuti su Varsavia, Rotterdam, Coventry, ma anche sulle città tedesche, fino al gran finale di Hiroshima.
Pablo Picasso, che all’epoca aveva 55 anni e risiedeva a Parigi da una trentina, apprese dell’inferno di Guernica mentre sedeva ai tavolini del Café Flore. Leggendone i dettagliati resoconti sulla stampa, ma soprattutto vedendone le foto, la carneficina si incise in lui come un trauma. Per uno di quei paradossi di cui la storia dell’arte straripa, la voragine di umanità e di vita che la ferocia nazifascista aveva scavato nel cuore dei Paesi Baschi colmò improvvisamente il vuoto creativo nel quale Picasso si dibatteva da mesi. Le autorità repubblicane gli avevano commissionato un grande murale da esporre nel padiglione spagnolo dell’Expo parigina che si sarebbe inaugurata alla fine di giugno. Ma la data di consegna si avvicinava e l’ispirazione dell’artista –chiamamola così- era in panne. Oltre che sul suo conclamato genio, gli antifranchisti puntavano sul suo prestigio. Anche se a partire dal secondo Dopoguerra, il malagueno era già un artista leggendario. Peccato che non avesse mai accettato di lavorare su ordinazione e che fino a quel momento le sue posizioni politiche non si fossero mai arrischiate oltre un generico anarchismo bohémien. In linea con l’altero disimpegno del verbo modernista, il Picasso del cubismo proclamava che il fine dell’arte non è “né il bene né il male, né l’utile né l’inutile” e che la pittura “è dipingere e nient’altro”. Ma dall’epoca di quelle sentenze la temperie culturale europea era molto cambiata. E allo scoppio della guerra civile l’atteggiamento di Picasso muta: lo sdegno verso il golpe fascista si fonde con la nostalgia della Spagna che è affiorata in lui negli ultimi anni parigini. D’impulso, con le bombe che a Madrid minacciano ormai anche il museo, Picasso acconsente a venire nominato direttore del Prado. Un incarico che ricoprirà in forma virtuale, senza mai muoversi dalla Francia. E tuttavia non siamo ancora a un pieno engagement. Sebbene abbia deciso da che parte schierarsi, PP continua ad avvitarsi in tortuose ruminazioni, evita di esporsi politicamente, al punto che la propaganda nemica mette in giro la voce che simpatizzi segretamente per i nazionalisti.
E’ questo l’uomo sotto pressione che tra indugi e riluttanze finisce per accettare –anche allettato dalla gratificazione economica, circa 200mila franchi- la commessa governativa per l’Esposizione Internazionale. Picasso accetta, però per mesi cincischia, esita, non sa da che parte cominciare. Nel gennaio del ’37 realizza una serie di acqueforti intitolate Sogno e menzogna di Franco (ma il gioco di parole si coglie solo in francese: Songe et mensonge de Franco). A metà tra le strisce dei moderni comics e le aleluyas, le incisioni popolari della tradizione religiosa barocca, sono immagini grottesche che sbeffeggiano la figura e l’antropologia guerriera del futuro Caudillo. Le accompagna un testo, rabbioso ma bruttarello, dello stesso Picasso: “Fandango di civette salamoia di spade di polpi di malaugurio strofinaccio di peli di tonsure ritto nel centro di un tegame a coglioni nudi…”. Per aggredire il Generalissimo si può fare di più. Sicuramente di meglio. A sbloccare il genio sarà lo shock di Guernica.
In uno stato che tutti i testimoni concordano nel definire di esaltazione furente, PP butta giù il primo schizzo il 1° maggio. Su un foglietto traccia velocemente a matita le figure di un toro, di un uccellino, di un cavallo a terra, di una donna che si sporge da una finestra con un lume. Ritroveremo tutti questi personaggi nella versione finale, ma profondamente modificati. Guernica è in assoluto l’opera d’arte che meglio possiamo seguire nel suo farsi. Grazie alle decine di abbozzi preparatori che ci sono rimasti, ma anche in virtù delle fotografie che per un mese e mezzo –tanto durò l’impresa- ne documentarono la vertiginosa gestazione. Picasso non aveva mai permesso che lo fotografassero al lavoro, e forse la sua fu anche una strategia di “marketing”; astuta, ma nondimeno a posteriori preziosissima. A scattare era Dora Maar, fiamma di Pablo all’epoca, sebbene in rissosa coabitazione con Marie-Thérèse Walter. Incrociandosi nell’atelier, le due vengono alle mani. Lo studio è quello di Rue des Grands-Augustins n. 7 dove Picasso si è da poco trasferito in affitto. Gliel’ha trovato Dora. Gli spazi occupano gli ultimi due piani di un palazzo seicentesco carico di passato. Prima della rivoluzione hanno soggiornato nell’edificio i duichi di Savoia, e nei dintorni Balzac ha ambientato il racconto “Il capolavoro sconosciuto”, storia di un artista che muore pazzo, a caccia di assoluto. Non solo: in quelle stanze lo scrittore George Bataille organizzava le sue riunioni para-surrealiste. Da uomo ruvido fino alla brutalità, ma molto concreto, è immaginabile che Picasso se ne strafottesse di quelle antiche suggestioni. Pensava piuttosto a come incastrare nel solaio la grande tela, oltre 7 metri di lunghezza per 3 e mezzo di altezza, che s’era fatto portare a casa per dipingerci sopra. Siccome il tetto è spiovente, è costretto a reclinarla un po’ all’indietro. Per arrivare in alto utilizza una scaletta e pennelli fissati a un bastone. Come tavolozze usa vecchi giornali. Fuma di brutto. Non dipinge, lotta.
Ma, raccontato così, l’exploit di Guernica rischia di sembrare il frutto di una folgorazione piovuta giù da chissà quale sfera iperurania. In realtà –senza sminuire la quota di mistero che appartiene a ogni capolavoro- fu l’esito felice di uno svuotamento. Con il consueto acume, l’amica Gertrude Stein aveva detto di lui: “Picasso è un uomo che ha sempre avuto il bisogno di vuotarsi, vuotarsi completamente, Picasso ha bisogno di un forte stimolo per attivarsi al punto di vuotarsi completamente. In questo modo ha sempre vissuto la sua vita”. Nella primavera del ’37 quel forte stimolo fu il massacro di Guernica. In genere un moto d’orrore squinterna la tenuta psicologica di un uomo. In Picasso operò esattamente al contrario: gli consentì di mobilitare, radunandole e canalizzandole, le disparate forze che da tempo si agitavano in lui. Se, come hanno scritto, Guernica è “una specie di epitome” di quanto Picasso aveva sperimentato e scoperto lungo decenni di ricerca pittorica, è perché vi si trovano concentrate la sua sicurezza tecnica, la sua straordinaria abilità manuale e l’eccezionale memoria visiva che faceva della sua mente una sorta di “database” della storia dell’arte dai primordi fino al Moderno. Perciò chi se ne intende ti spiega come tra le fonti di Guernica ci siano le pitture rupestri delle grotte di Altamira e la scultura funeraria romana; Grunewald e Guido Reni; Rubens, Géricault, Delacroix; e naturalmente il Goya sgomento del Tres de mayo 1808 e dei Desastres de la guerra. Barbarie eterna e nuove atrocità, tragedie collettive e conflitti privati… tutto si impasta nello svuotamento.
Ottant’anni dopo, anche se Guernica è diventato un quadro riprodotto, citato, chiacchierato fino alla saturazione, è ancora avvincente seguirne il work in progress. “Un dipinto è la somma delle sue distruzioni”, diceva Picasso. La frase risulta meno ermetica se riletta alla luce degli innumerevoli pentimenti, metamorfosi, correzioni e soprattutto sottrazioni che scandiscono l’evoluzione della tela. Dal lavoro sulle figure all’uso dei simboli, a quello del colore. Nero, bianco, grigio: Guernica è un quasi monocromo, ma fino all’ultimo l’autore si chiese se non fosse il caso di interromperne la plumbea uniformità con la tecnica del papier collé: foglietti di carta o ritagli variopinti di tappezzeria appiccicati qua e là. Pensò anche di aggiungere una lacrima rossa, una sola, ma la spostava di continuo dai volti degli uomini ai musi degli animali. Alla fine la piazzò sull’occhio del toro. Poi la tolse anche da lì: “La metteremo in una scatola e almeno ogni venerdì torneremo a incollarla sul toro” scherzava con l’amico poeta José Bergamìn. Sebbene la lampadina elettrica nella parte superiore del quadro non lasci dubbi circa il secolo nel quale ci troviamo, Picasso avverte via via l’esigenza di prosciugare il dipinto di riferimenti storici che ne limitino la collocazione temporale: perciò spariscono il pugno chiuso e l’elmetto del combattente sdraiato. Picasso vuole insomma allestire una scena primordiale e insieme assolutamente moderna. Quando a giugno si concluse il lavoro sulla tela, iniziato l’11 maggio, le figure rimaste erano nove: quattro donne (ma per qualcuno quella con le braccia al cielo sarebbe un uomo), un bebè, un guerriero, un uccello, un cavallo, un toro. L’avventura pubblica di Guernica stava per cominciare.
All’Expo parigina il quadro spiazzò un po’ tutti. A cominciare dai committenti. Oggi Guernica è per noi l’emblema dell’arte engagé, ma le scelte antiretoriche di Picasso (nella tela non c’è traccia del nemico fascista, del Male) sconvolgevano il gusto militante dell’epoca: un dipinto “antisociale, ridicolo e del tutto estraneo alla sana mentalità del proletariato” fu la bocciatura. In seguito, un dirigente comunista avrebbe confessato: “Ci aspettavamo una chiamata alle armi e ci ritrovammo davanti un biglietto di condoglianze”. Gli stessi baschi se ne ebbero a male: “Sette metri per tre di pornografia che gettano merda su Gernika, sulla Patria basca, su tutto”. Tra quanti lo apprezzarono, uno dei commenti più lucidi fu quello dell’etnologo e scrittore Michel Leiris, che nel quadro percepì una cupa premonizione: “In un rettangolo bianco e nero, come quello in cui si presentava la tragedia antica, Picasso ci invia l’annuncio del nostro lutto: tutto ciò che amiamo sta per morire”.
A riflesso della libertà perseguitata, Guernica divenne subito un quadro nomade. Da Parigi partì in tournée per la Scandinavia, poi per l’Inghilterra, quindi riuscì a salpare per gli Usa trovando asilo al Moma di New York. Lì trascorse tutti gli anni della guerra prima di riprendere a girovagare per le varie retrospettive picassiane che si organizzavano nel mondo, dall’Europa al Sudamerica. Nel 1981 lasciò definitivamente New York per rientrare in Spagna, che nel frattempo era tornata alla democrazia. Dal 1992 è esposto al Reina Sofia.
Si continua a discutere se Guernica sia o meno il magnum opus di Picasso. E se al coraggio politico dell’artista abbia corrisposto quello dell’uomo. Pur avendo dichiarato: “Nella tela che chiamerò “Guernica” esprimo chiaramente il mio odio per la casta militare che ha sprofondato la Spagna in un oceano di dolore e di morte”, PP non mise mai piede nel Paese stravolto dalla Guerra civile. Durante gli anni dell’occupazione nazista, visse a Parigi ritirato, ma fondamentalmente indisturbato. Dopo lo sbarco alleato in Normandia, con un opportunismo che mai gli aveva fatto difetto, aderì al Partito Comunista, slittando progressivamente verso posizioni filosovietiche perfino imbarazzanti.
Guardando una riproduzione di Guernica, un ufficiale tedesco avrebbe chiesto a Picasso: “Questo l’ha fatto lei?”. E Pablo: “No, l’avete fatto voi”. L’aneddoto è arcinoto ma apocrifo. Appartiene al mito di Guernica. Ai suoi misteri. Come quello della lacrima rossa nella scatoletta. Chissà dove sarà finita.
Marco Cicala