Guida ai misteri e ai piaceri dell’archeologia
Perché ci affascinano le rovine e i resti dell’antichità? Che cosa accomunava Burckhardt e Freud? Quali interessi politici sono in gioco da Napoleone all’Isis? Le risposte nei saggi di Paolo Matthiae e Gaia Servadio.
Pubblico questo interessante articolo di Silvia Ronchey pubblicato nella “Repubblica” di venerdì 13 luglio 2018, alle pp. 32-33.
Secondo un ignoto scrittore della tarda antichità, celato sotto il nome di Filone di Bisanzio, la meraviglia delle piramidi stava nella loro “inconcepibilità”. La loro costruzione appariva impossibile, la loro descrizione incredibile. Secondo la sua testimonianza quelle “montagne sovrapposte a montagne” erano rivestite di pietre dure. Verdi e diafane come l’ematite, o di un viola vitreo, o di un rosso sanguigno simile al pigmento di porpora estratto dai molluschi, oppure perfettamente bianche, riflettevano la luce del deserto e facevano apparire le loro colossali geometrie “un’unica e nativa struttura” calata dall’alto, quasi da un altro mondo, come già le percepiva Diodoro Siculo.
Da secoli gli smaglianti rivestimenti ancora visibili al testimone bizantino sono perduti, eppure è rimasta altrettanto intensa l’emozione di qualunque viaggiatore abbia visitato i monumenti egizi, di cui l’arte greca, secondo Platone, non fu altro che millenaria imitazione; o gli altri siti archeologici d’oriente di cui parla con minuziosa cognizione e grande chiarezza il nuovo libro di Paolo Matthiae, “Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale” (Einaudi). Monumenti in rovina, frammentarie emergenze di civiltà perdute, punte d’iceberg di realtà sepolte, incomprensibili, inconcepibili. Che cos’è l’emozione che ci prende quando visitiamo un sito archeologico? Perché l’attrazione per le rovine, scheletri di pietra divorati dal tempo, cumuli di detriti informi, comunque incompleti, ha caratterizzato ogni umanesimo, a partire da quello che storicamente chiamiamo tale? Petrarca, Boccaccio, ma già prima di loro gli umanisti del millennio bizantino trassero dalle rovine un nutrimento etico, un incoraggiamento educativo, un invasamento estetico. Forse a innescarlo è proprio la loro incompletezza. Le rovine attirano la mente alla ricerca, materiale e immateriale, di un senso. Spingono la psiche, letteralmente e metaforicamente, in un andito profondo, da riportare alla luce. Come scrive Matthiae, il fascino di un sito “trova le sue ragioni di base, in primo luogo, nella pura fisicità delle scoperte archeologiche, nelle quali qualcosa di celato e di coperto, spesso inaspettatamente, torna alla luce”.
Abido, Thinis, Amarna, la Valle del Nilo costellata di meraviglie; Avaris, sul delta del Fiume Sacro, la capitale dei Re stranieri, con i suoi palazzi e i suoi fregi così simili a quelli di Cnosso; Ebla e i suoi Archivi Reali protosiriani; Qatna, con le Tombe Reali ricche di tesori; Hattusa, la capitale degli Ittiti, nell’Anatolia centrale, con le tavolette cuneiformi del “Canto della liberazione”, dalle sconcertanti assonanze con l’Iliade; il sito di Troia a Hissarlik, sui Dardanelli, campo di battaglia, dopo che degli eroi omerici, degli archeologi militanti, banco di prova di una verticalità stratigrafica, di cui oggi la lettura delle fonti archeologiche e testuali orientali permette forse di decifrare una volta per tutte la vicenda storica; Aleppo con la sua delicata plurimillenaria sedimentazione architettonica, oggi lacerata e forse definitivamente cancellata da un’ennesima, fatale guerra; Nimrud, la città assira presso Nivive, coi sontuosi sepolcri delle sue regine; Babilonia la grande, con la spettacolare fabbrica dell’Etemenanki, su cui il mondo antico ha proiettato e l’arte moderna declinato il mito ebraico della Torre di Babele; Sippar sull’Eufrate, con la sua immensa biblioteca di argilla che narra la sapienza astrale di Babilonia. Le scoperte di siti e monumenti enumerate e illustrate da Matthiae, leggendarie quanto recenti nei loro ultimi esiti, hanno cambiato per sempre la nostra percezione delle civiltà preclassiche dell’Asia occidentale portando l’archeologia a “emanciparsi dall’originaria ispirazione biblica e classica” (il corpus veterotestamentario e quello omerico) e determinando la consapevolezza “che la diversità delle culture del pianeta è la più significativa ricchezza dell’umanità” e che il compito di chi ne porta alla luce i reperti sepolti non è quello di spiegarli attraverso la propria identità culturale, peraltro sempre provvisoria, ma di valorizzarne l’estraneità, la forza di spaesamento, il mistero. Un mistero storico e collettivo, ma anche atemporale e individuale.
La metafora dell’archeologia come ricerca del rimosso e, simmetricamente, della psicologia come scavo stratigrafico, tesse tutta l’opera di Freud, archeologo dilettante, lettore di epigrafi, cultore di bassorilievi, collezionista di reperti, che fu colto da malore quando per la prima volta visitò l’Acropoli di Atene e che dell’esplorazione geologica di Troia fece l’immagine della sua immensa scoperta: l’inconscio. L’elaborazione della psicoanalisi va di pari passo con i grandi ritrovamenti che hanno segnato la storia dell’archeologia postnapoleonica fino all’epoca del Grande Gioco, tra la metà dell’Ottocento e un primo Novecento dominato dall’iniziativa delle diplomazie e dei servizi segreti delle grandi potenze: quella inglese anzitutto.
Nell’Egitto da poco uscito dalla campagna di Bonaparte, che aveva prodotto, con la scoperta della stele di Rosetta e l’alacrità di sapienti come Vivant Denon e Champollion, la nascita dell’egittologia, le opere d’arte scoperte nelle tombe disseppellite dalla sabbia interessavano le nazioni europee non solo perché attribuivano prestigio, ma perché il loro rapimento, o recupero, simboleggiava “l’iniziativa europea contro la stasi del Levante, una vecchia ossessione”, come scrive Gaia Servadio nell’appassionato, spensierato libro su Giovanni Battista Belzoni, “L’italiano più famoso del mondo” (Bompiani). Belzoni fu “il più grande e il più intellettuale di tutti gli esploratori-viaggiatori” ottocenteschi, come lo definì Johann Ludwig Burckhardt, per gli arabi Sheikh Ibrahim Ibn Abdallah, a sua volta scopritore di Petra nonché capofila, ancorché svizzero, dei servizi segreti britannici nel Medio Oriente, che lo reclutò personalmente e gli assegnò il compito che lo avrebbe fatto passare alla storia: trasportare lungo il Nilo, da Luxor, l’immenso busto del cosiddetto Giovane Memnone, secondo Diodoro Siculo “Osimandia, Re dei re”, ossia Ramsete II, per collocarlo al British Museum, dove si trova tuttora, colossale simbolo di quel soggiogamento culturale oltre che politico del Vicino Oriente sul quale le potenze egemoni dell’epoca –vediamo oggi con quali conseguenze- si sfidavano a vicenda.
Ma fu anche l’ingegnosità e la brillantezza dei componenti della rete spionistica internazionale ottocentesca a consentire l’elaborazione dei primi efficaci metodi di scavo. In un Egitto dove, senza bisogno del terrorismo, “si uccideva un europeo con la stessa indifferenza di chi uccide un insetto”, come annota nel suo diario Belzoni, dove le figlie adolescenti della diplomazia occidentale potevano venire abbattute con un colpo di pistola perché non portavano il velo, gli avventurosi ricercatori messi in campo dai servizi di spionaggio e controspionaggio proiettarono nel nulla abbacinante dei deserti un accanimento esistenziale acerrimo, “inconcepibile” quanto i misteriosi monumenti che via via scoprivano. Lungo la strada di Luxor, e poi durante gli altri suoi viaggi, Belzoni scavò Karnak, portò alla luce le più importanti tombe della Valle dei Re, spogliò dalla sabbia i templi di Abu Simbel, scoprì a Giza l’ingresso della piramide di Chefren, si spinse fino in Nubia. Se Freud era ossessionato dall’archeologia, è quasi esplicita l’ossessione psicologica degli esploratori ottocenteschi di antichità egiziane. Lungo le coste del Fiume Sacro le strutture fantasmagoriche della civiltà faraonica, pur incalzate dall’insabbiamento, “rimanevano visibili ai rari visitatori stranieri come presenze impressionanti di un mondo imperscrutabile”, scrive Matthiae. E’ un viaggio opposto a quello che Conrad descrive in “Cuore di tenebra”, un viaggio al cuore della luce, a condurre Belzoni in alto Egitto. Ma è anche, come quello conradiano, il racconto di una maledizione. La vendetta dell’Oriente violato, colonizzato, depredato delle sue statue si farà sentire nel Secolo Breve e ancora più nel nostro. Aveva già predetto Shelley nel sonetto “Ozymandias”: come l’impero di Ramsete è svanito nel nulla, così svanirà “il sogghigno di fredda autorità” dell’imperialismo britannico: “Guardate, potenti, e disperate. Niente rimane. Intorno a quel relitto colossale, sterminate e spoglie, si stendono piatte sabbie”. Un anticipo della Ginestra leopardiana.
E’ forse questo, sull’incessante ruota della storia, sulla transitorietà del ghigno dei poteri e degli imperi, il messaggio più vivo e definitivo che ci conquista all’osservazione di un sito archeologico e alla meditazione su di esso e su di noi.
Silvia Ronchey