Homer Simpson: l’arte del ridicolo
Trent’anni fa la serie debuttò in tv. Ha sdoganato, con la caricatura dell’uomo comune, la risata scorretta. E marchiato per sempre la cultura pop.
L’”Espresso”, nel suo numero del 24 novembre 2019, alle pp. 74-78, ha pubblicato questo frizzante articolo di Andrea Muni. Siamo alla fine del 2019, nel febbraio 2020 esploderà in Italia e in Europa l’epidemia del Coronavirus. Riflettiamo su questo originalissimo particolare: nell’anno 1993, quarta stagione dei Simpson, episodio 21, un magazziniere orientale starnuta su un pacco diretto a Homer, di qui una serie di disastri, accompagnati da un’isteria mediatica entro la quale, in un fotogramma, è anticipato addirittura il nome di Coronavirus.
Gennaro Cucciniello
“Lisa, sei troppo intelligente per essere felice!…” Questa celebre frase che Homer Simpson lascia cadere sulla testa della povera figlia Lisa potrebbe risuonare oggi quasi come un autoironico testamento spirituale. Nonostante gli omini gialli più famosi d’America e il loro papà, Matt Groening, siano ancora vivi e vegeti, i Simpson sono ormai considerati un oggetto del passato. D’altronde è innegabile che blogger, vlogger, gamer e youtuber abbiano negli ultimi anni trasformato la fisionomia dell’intrattenimento giovanile, come le serie tv hanno completamente ricodificato quello adulto. I Simpson che diventano trentenni hanno l’agrodolce sapore di uno Spettro del Natale Passato, capace di scatenare in chi non ha mai smesso di amarli una splendida e pericolosa nostalgia. Quella per un’epoca in fondo appena trascorsa, in cui un’intera generazione al ritorno da scuola, prima dei compiti, guardava ancora i cartoni solo in tv e solo a una certa ora, un’epoca in cui non esistevano i canali tematici né Internet (almeno non come lo conosciamo oggi). La nostalgia per un tempo recente che ha cessato di essere il nostro, e di cui urge cominciare a fare la storia, per evitare che si tramuti di colpo in una terra di nessuno, in un punto cieco che ci impedisce di raccordare presente e memoria. Per chi è stato giovane a cavallo del millennio, i Simpson hanno rappresentato un anti-modello, uno spontaneo argomento di conversazione, una vera e propria koiné. Avremmo qualche difficoltà a trovare oggi un loro equivalente altrettanto popolare.
Certo non mancano programmi divertenti e di successo, ma forse gli odierni show mainstream, anche quando fanno effettivamente ridere, lo fanno in maniera diversa. Perché quello che ci fa ridere nei Simpson è proprio il fatto che tutti, a tratti, siamo la gioiosa sbadataggine e il fiero qualunquismo di Homer, lo sprezzante anarchismo di Bart, l’anima bella e incompresa di Lisa, la cupidigia di Burns, la magnanimità di Marge, la ebete solitudine del nonno. I personaggi dei Simpson sono una miriade di micro-modelli, di mini-stereotipi in cui ci riconosciamo e di cui siamo al contempo indotti a ridere. Come i personaggi della Commedia dell’Arte, anche quelli dei Simpson ci invitano a diffidare, tra le risate, di un’identificazione troppo rigida coi nostri modelli e con le nostre maschere. Ci chiamano a ridere di un riso che non è scherno né abisso, ma un soffio d’aria fresca tra ciò che ammiriamo e noi stessi, tra ciò che odiamo e l’istinto di distruggerlo.
Una risata emancipatoria, che perdona buoni e cattivi delle proprie rispettive infermità, in cui la storia della nostra cultura –dalla commedia greca a Shakespeare e fino a pensatori contemporanei del calibro di Nietzsche e Bataille- non ha mai smesso di riscoprire un profondo significato politico. Il diritto, il coraggio di ridere dei padroni, reali o interiori che siano. Come nella profetica puntata del Duemila, in cui la neo-Presidente Lisa, in un ipotetico 2020 eredita da Trump dei conti in rosso che non le permettono di attuare il suo illuminato programma di iper-scolarizzazione e ripopolamento degli oceani, trovandosi così amaramente costretta ad annaspare tra i pesanti flutti della Real Politik.
La “simpatia” degli autori dei Simpson per il tycoon al beta-carotene non si è mai esaurita: sembra infatti che ultimamente Groening&CO stiano facendo carte false per avere il vero Trump come doppiatore di se stesso in una puntata dello show. Devono aver capito, col solito acume, che non ci sarebbe niente di più comico e politicamente vincente che far recitare a The Donald, anche nel micro-mondo Simpson, la parte in cui (suo malgrado) è maestro: la parodia di se stesso.
Questo spiazzante gusto per il paradosso e la caricatura non è solo l’inesauribile forza della comicità dei Simpson: è anche qualcosa che stiamo pericolosamente perdendo. L’arte e la cultura “impegnate” di oggi sembrano a volte snobbare questa raffinata strategia, questa antica forma di seduzione, preferendole modalità di comunicazione decisamente più dirette: una canzone sul cambiamento climatico per dire che bisogna salvare il pianeta, un film sulle mostruose condizioni di vita dei migranti per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla loro tragica condizione. Non è in discussione la meritorietà di questo tipo di iniziative, quanto piuttosto il fatto che simili operazioni culturali –proprio perché così esplicite- raramente riescono ad accattivare l’interesse dei tanti che oggi la pensano diversamente. Proprio per questa ragione strategica è oggi più che mai urgente riscoprire una qualche lateralità, una sensibilità diversa e persino un nuovo spirito nazional-popolare capace di fare breccia nelle vite e nelle emozioni dei tanti che negli ultimi anni si sono lasciati sedurre dalla retorica populista. Un modo di far ridere e pensare in grado di essere inclusivo, che sappia persino, in maniera intelligente e tutt’altro che rinunciataria, tendere una mano (una trappola?) al proprio altro. Un’arte del ridicolo che sappia reinventare dei punti di contatto, un nuovo linguaggio comune tra noi e i tanti che oggi non si riconoscono nei nostri stessi valori. Dei bei tentativi in questa direzione sono stati fatti recentemente in Italia da giovani comici che non fanno mistero di essere cresciuti a pane e Simpson, come i The Pills o Maccio Capatonda, mentre a livello internazionale ha fatto scuola la mini-saga animata ispirata agli altri omini gialli più famosi del pianeta, Lego Movie.
I Simpson sono stati il primo cartone animato a sdoganare la risata politicamente scorretta a fin di bene, il capostipite di questa sottile forma di comicità. Sono stati loro i primi a far sbellicare milioni di ragazzi con l’insensata cattiveria gratuita del bullo Nelson, mentre segretamente li educavano a comprendere le ragioni per cui un ragazzo con problemi familiari e bisognoso di attenzioni può tramutarsi in un violento. Con la loro irriverente comicità sono riusciti a far sentire liberi milioni di ragazzi, oggi pluritrentenni, di ridere grassamente dei più beceri stereotipi etnico-religiosi (Apu che vende cibo avariato e lascia in India la sua promessa sposa-bambina, il mafioso italiano Toni Ciccione che scioglie la gente nell’acido, lo scaltro e bilioso clown di origini ebraiche Krusty), mentre surrettiziamente gli insegnavano che dietro a ogni stereotipo si nasconde una persona in carne e ossa, con i propri affetti, la propria storia e il suo peculiare destino.
Forse non è un caso che Groening abbia elaborato questo sottile doppio gioco, questa ambigua anti-pedagogia proprio in un periodo storico in cui l’opinione pubblica americana era totalmente infatuata del repubblicano Ronald Reagan e del suo successore George Bush Sr. Deve essere stato in quegli anni di grande sconforto politico che Groening ha concepito il personaggio di Homer: la profetica caricatura dell’uomo qualunque del terzo millennio, uno dei tanti sonnambuli che quotidianamente, nel bene e (spesso) nel male, fanno la storia a propria insaputa. La caricatura benevola di un uomo senza importanza, in cui si sovrappongono le due facce della stupidità: quella malvagia e pericolosa, che abbiamo imparato fin troppo bene a riconoscere e a stigmatizzare, ma anche quella buona e gioconda, di cui abbiamo forse colpevolmente perso le tracce. La buona stupidità che ci spinge a ridere della nostra impotenza, mostrandoci la strada di un’insospettabile complicità nel fallimento. La stessa sana stupidità che ci consente, quando siamo forti e in salute, di indebolire con una risata il peso dei sensi di colpa e quello dei torti subiti.
Ecco che quella sciocca frase che Homer indirizza alla povera Lisa (“Sei troppo intelligente per essere felice”) si colora di una profondità inaspettata. Una profondità, sospesa tra affetto e scherno, che sembra quasi fare eco al gioco di parole con cuo lo psicoanalista francese Jacques Lacan, nei paraggi del Sessantotto, amava ricordare ai propri allievi più politicamente impegnati che “i non-stupidi sbagliano”.Una sibillina provocazione che ci spinge a diffidare della fin troppo intelligente convinzione che per far cambiare idea a qualcuno sia sufficiente dirgli la verità. Una saggia stupida battuta che ci invita piuttosto a rovistare con pazienza nella sconfinata discarica del nostro passato recente, alla ricerca di piccoli gesti e strategie che abbiamo cestinato con troppa leggerezza e di cui, forse, non avevamo ancora compreso il profondo valore strategico.
Tra questi reperti, quasi senza bisogno di scavare, troveremmo in ottimo stato proprio i Simpson e la loro antipedagogia, a ricordarci che il miglior risultato politico delle nostre satire, delle nostre critiche, è proprio quello di riuscire a far ridere bonariamente di sé chi ne è il bersaglio. Questa è la saggia, stupida risposta dei Simpson alla fondamentale domanda politica che non possiamo smettere di porci –“Come faccio a far cambiare idea a chi non la pensa come me?”. Perché ogni voilta che riusciamo a far ridere qualcuno delle proprie brutture e delle proprie paure otteniamo un risultato politico infinitamente migliore (a livello strettamente pratico) di quello che otterremmo facendolo semplicemente vergognare. La vergogna infatti è un sentimento sano solo se si accompagna al perdono del riso, mentre senza di esso non fa che acuire l’odio per noi stessi e nei confronti di chi ci ha smascherati.
Il nostro speciale regalo di compleanno per la famiglia Simpson potrebbe essere allora proprio quello di immaginare per un attimo le nostre vite quotidiane catapultate nel loro micromondo. Immaginarci costretti a inventare un modo sempre nuovo di far sorridere bonariamente i nostri genitori della loro ipocondria che sta virando in razzismo, il nostro fidanzato plurilaureato del suo congenito maschilismo, il nostro collega ambizioso e spione della sua esasperata competitività, o nostra figlia preadolescente della sua smania di diventare una celebre gamer. Potremmo davvero provare a dedicare un po’ del nostro tempo a far sorridere teneramente di se stesse e dei propri automatismi le persone a cui vogliamo bene. E se non ci riusciamo, se il nostro doppio gioco fallisce, niente paura: possiamo sempre accontentarci di farli ridere affettuosamente di noi, del nostro maldestro tentativo di raggirarli e persino di questo desiderio, appena un po’ superbo, di fare con loro quello che spesso non riusciamo a fare con noi stessi.
Andrea Muni