L’invenzione dei “link” è avvenuta nel XVI secolo.
L’impresa di Giulio Camillo: l’arte di smontare i classici e creare nuove relazioni.
Letterato, filosofo, erudito, visionario, mago. Un genio per alcuni, per altri un ciarlatano, un cialtrone, un fissato. Giulio Camillo trova posto, nell’ultimo canto dell’”Orlando furioso” di Ludovico Ariosto, tra la schiera di lettori ideali che attende la nave su cui naviga il poeta. Non c’è Machiavelli, che pure aveva ammirato il poema, ma c’è il Camillo, segnalato come guida capace di indicare la via più breve al comporre versi. Fa bene Lina Bolzoni, cui si deve la cura (introduzione e commento), per Adelphi, de “L’idea del theatro”, a sottolineare quello che a noi, oggi, appare come un paradosso.
Friulano, forse nasce a Portogruaro –nel Veneziano- attorno al 1480, o forse nel castello di Zoppola; forse la famiglia proviene dalla Dalmazia e forse per questo si fa chiamare Delminio. Studia tra Venezia e Padova, è poeta, oratore, maestro di grammatica e di retorica, commentatore di poeti e di autori classici, frequenta i circoli di Tiziano, di Pietro Aretino, dell’architetto Serlio e di Lorenzo Lotto; è vicino all’ambiente del Bembo che auspica nuovi modelli linguistici improntati al volgare. E’ sodale e poi avversario polemico di Erasmo. Lo troviamo anche a Roma, a Genova, a Bologna, a Milano, dove morirà nel 1544 forse in seguito a stravizi erotici. Una vita sempre in bilico tra estasi mistica e sensualità praticata sul campo, Camillo è in continua ricerca di sponsor che gli permettano di realizzare il suo sogno di gloria, un progetto di teatro universale della memoria (o della sapienza). A partire dal 1530 il suo protettore è Francesco I, re di Francia; nel 1543, un anno prima di morire, trova ascolto (e finanziamenti) dal governatore spagnolo di Milano Alfonso d’Avalos che stravede per lui.
L’aneddotica è piena di episodi che ne raccontano tutto il bene e tutto il male. Che fosse un po’ (tanto) megalomane, non c’è dubbio, almeno a leggere, tra l’altro, il passo in cui racconta che un giorno si trovava in visita in un serraglio di Parigi quando fuggì un leone: ebbene, mentre tutti scappavano, lui restò immobile di fronte alla belva che si “humiliava”, “quasi in atto di domandare mercede” al cospetto della sua “virtù solare”.
E in effetti ci vuole quel tanto di mania di grandezza per concepire un’opera come la sua, che risulta al lettore talmente insolita da sfuggire a una presa definitoria. Che cos’è? Bolzoni la va delineando per approssimazione. Intanto è un’opera che non c’è. Nel senso che ciò che, di scritto, ne rimane (e che è contenuto, con inediti, nella nuova e impeccabile edizione adelphiana) rinvia ad altro, a qualcosa di non meglio definito: un macro-catalogo o biblioteca, una maquette di legno, un modello, un palazzo, un laboratorio ad anfiteatro pieno di libri e di opere d’arte, una fabbrica universale o un luogo mentale? Qualcosa di borgesiano ante litteram in cui fossero classificati pensieri, idee, parole, figure, allegorie, con un gioco di specchi labirintico e auto-riproduttivo quasi all’infinito. Enciclopedia retorica, galassia di testi o meglio scacchiera a scopo mnemotecnica articolata in una precisa struttura (49 luoghi, contrassegnati da una o più immagini e generati dall’incrocio tra un ordine verticale di sette piani e uno orizzontale di sette gradi). Una macchina artificiale capace di generare, nelle sue varie combinazioni e corrispondenze cabalistiche, nuovi significati fino a scavare sempre più in profondità nello spirito umano, come fosse una sorta di mente divina continuamente ricreativa e pericolosamente sospesa tra metafisica e mito alchemico.
L’edificio della memoria, che rinnova radicalmente una lunga e aurea tradizione medievale (dove vigeva l’immagine della torre), diventa dunque Teatro a cui il Regista-Demiurgo-Sole Giulio Camillo chiama (animandoli e illuminandoli della sua luce) poeti e filosofi classici (da Omero a Virgilio a Petrarca, da Platone ad Aristotele a Sant’Agostino), con l’evocazione di immagini che sono andate perdute e che nel volume vengono puntualmente ricostruite anche per i casi più impervi. Lina Bolzoni si sofferma, nella sua introduzione (un libro nel libro), sul rapporto tra memoria, imitazione letteraria e invenzione, e sul proposito camilliano di utilizzare i tesori nascosti nei classici per ridare loro vita, “renderli operativi”, quasi fossero automi che si muovono secondo lo schema dei “luoghi topici”. Ciò richiede una scomposizione logica dei testi –il cui autore è una sorta di maestro proto-strutturalista- e una loro ricomposizione in soluzione alchemica. L’esercizio spirituale proposto dal Camillo è un continuo aprire link da cui si dipartono altri link, in un processo proteiforme, caleidoscopico, metamorfico, che passa dalla letteratura alle arti figurative, all’architettura, in una fitta rete di rimandi e di associazioni. Un progetto sperimentale che abbraccia l’intera cultura cinquecentesca prefigurando ideali manieristici e barocchi.
L’”idea del theatro”, che viene accompagnata da testi affini quali “L’idea dell’eloquenza” e il “De transmutatione”, uscì postuma nel 1550 con un immediato successo persino fanatico prima di essere abbandonata nell’oblio della sensibilità illuminista. Ora trova, quasi ex novo, una sua pur eccentrica collocazione nella letteratura italiana grazie allo straordinario lavoro di Lina Bolzoni, filologo-detective che, scovando manoscritti inediti, ha ricostruito le vicissitudini “indiavolate” di plagi, camuffamenti e riscritture ispirate da un’opera dalla natura incerta, la cui tradizione testuale non poteva che presentarsi altrettanto metamorfica e misteriosa. Ed è magnifico che questo volume si affianchi, nella stessa collana dei Classici Adelphi, all’edizione critica di un’altra opera misteriosa e labirintica della letteratura italiana come l’”Hypnerotomachia Poliphili”.
Paolo Di Stefano
Pubblicato nel “Corriere della sera” il 12 giugno 2014