“L’abbibbia romanesca”: Il peccato originale
Le poesie di Belli sono quadretti di genere, bozzetti naturalistici, un’infilata di macchiette popolane o sono costruite su una matrice molto più complessa e profonda? In un sonetto il suo popolano è stato definito “un dottoretto plebeo”: attraverso l’inusuale interprete il poeta rilegge anche le Sacre Scritture, unificando comico e tragico. L’illustrazione colorita e ingenua della Genesi biblica ha tutte le tonalità del comico ma nasce da un sentimento tragico della vita: la comparsa dell’uomo sulla terra sembra un fatto del tutto fortuito e da subito si accompagna a severe proibizioni la cui violazione suona sinistramente fatale. Il realismo è demitizzante e perfino blasfemo. Quella Bibbia tanto raccomandata e idoleggiata dai romantici è letta dal Belli con la spregiudicatezza di Voltaire. Anche se rilegge la Bibbia, il nostro poeta è tutto al di qua, nel mondo dei vivi e del grande apparato ecclesiastico, la monarchia assoluta e per diritto divino con cui ai romani (e oggi agli italiani) tocca convivere, ne scopre anzitutto le umane debolezze, mimetizzate appena dal rosso cardinalizio. Tanti sonetti, che insistono sull’effetto comico del linguaggio plebeo e sull’ingenuità oggettiva del popolano che parla, dissimulano sempre un’ironia di tipo illuministico e approdano ovviamente a risultati sconsacratori.
Momenti ed episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento sono presi come spunto per un gruppo di sonetti nei quali il poeta rappresenta l’interpretazione, da parte dei popolani romani di ciò che si sentiva in chiesa nelle prediche e nelle letture e di quello che ci si raccontava nelle osterie e nelle case: se ne ricava una geniale mescolanza di “alto” e di “basso”, di verità rivelata, di prosopopea pedagogica clericale e d’immediatezza d’immagine del parlare quotidiano.
“C’è un dato stilistico ma anche ideologico: il poeta Belli, il letterato, nel momento in cui descrive la realtà popolare della sua Roma scompare, cede completamente la parola al personaggio che racconta, che descrive, che impreca, dice arguzie o protesta. Non solo i testi sono scritti nella lingua di questi personaggi ma ne riportano in maniera diretta le idee e i sentimenti. Ma rimane un dubbio. In quale misura il poeta mescola la sua voce a quella del personaggio? La rappresentazione è strumento di denuncia d’una realtà degradata o si ferma alle soglie della descrizione realistica di un mondo da cui il poeta si sente comunque estraneo? La risposta a queste domande impegna ancora la critica”.
La tensione verso la rappresentazione realistica spiega anche la sua puntigliosità filologica; l’adesione completa tra poesia e oggetto descritto si concretizza proprio nella lingua che assume caratteri assai vicini a quelli del parlato. “D’altra parte proprio la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che il poeta rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative ma nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona. E la parola esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con cui il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
Ch’edèra ? 25 dicembre 1835
Quanno Adamo azzardò quella maggnata,
non usava salame né ppreciutto,
e manco se conniva co lo strutto
in gnisuna viggija comannata. 4
Dunque è una cosa vera e concertata
che quer c’ar monno ha ruvinato tutto
nun ha ppotuto èsse antro c’un frutto.
Ma quale poi? Qui sta la buggiarata. 8
Chi ve dice una mela, chi una pera,
chi una nespola: e intanto de sti matti
gnisuno è bono a indovinà ch’edèra. 11
Io giurerìa pe me che da la moje
lui pijassi una fica, perché infatti
se coprì quel’affare co le foje. 14
Che era?
Quando Adamo si cimentò con quella famosa mangiata non si usava salame né prosciutto, e neanche si condiva con lo strutto in nessuna vigilia delle feste comandate (nello Stato pontificio era stato emesso un editto che all’inizio della Quaresima fissava ogni anno le norme per l’osservanza delle abitudini alimentari: “a ppranzo se connisce co lo strutto,/ ma la sera però ssempre coll’ojo”). Dunque è una cosa vera e accertata che quello che al mondo ha rovinato tutto (il peccato originale) non ha potuto essere altro che un frutto. Ma quale poi? Qui sta la difficoltà. Chi vi dice una mela, chi una pera, chi una nespola: e intanto di tutti questi matti nessuno è buono a indovinare che era. Per me io giurerei che dalla moglie Eva Adamo pigliasse “una fica”, perché infatti, dopo, si coprì il pene con le sue foglie.
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).
Quando Feuerbach scrive che “Dio è l’ottativo del cuore umano” (l’ottativo è una forma verbale che esprime i desideri umani) dice una verità che non è contestabile, già nota nell’Eden, quando il serpente, per emancipare l’uomo da Dio, invitò Eva a mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, a cui Dio aveva proibito di accostarsi. “Se mangerete questo frutto diventerete come Dio” furono le parole provocatorie e profetiche del serpente. Adamo ed Eva mangiarono il frutto e furono cacciati dal Paradiso terrestre con due maledizioni: per Eva “partorirai nel dolore”, per Adamo “ti procurerai il cibo con la fatica del lavoro”. Nel testo sacro è scritto: “Or il serpente era il più astuto di tutti gli animali dei campi che l’Eterno Iddio aveva fatti; ed esso disse alla donna: “Come! Iddio v’ha detto: non mangiate del frutto di tutti gli alberi del giardino?” E la donna rispose al serpente: “Del frutto degli alberi del giardino ne possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero ch’è in mezzo al giardino Iddio ha detto: non ne mangiate e non lo toccate, che non abbiate a morire”. E il serpente disse alla donna: “No, non morrete affatto; ma Iddio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri s’apriranno, e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male”. E la donna vide che il frutto dell’albero era buono a mangiarsi, ch’era bello a vedere, e che l’albero era desiderabile per diventare intelligente; prese del frutto, ne mangiò, e ne dette anche al suo marito ch’era con lei, ed egli ne mangiò. Allora si apersero gli occhi ad ambedue, e s’accorsero ch’erano ignudi; e cucirono delle foglie di fico, e se ne fecero delle cinture. E udirono la voce dell’Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l’uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell’Eterno Iddio, fra gli alberi del giardino” (Genesi, 3, 1-8). Adamo ed Eva sono diventati davvero umani soltanto contestando l’Eden. Nel paradiso terrestre vivevano felici (senza saperlo) ma non esistevano. Vivevano in accordo con Dio e non ne dubitavano, neanche immaginavano di poterne dubitare. Mangiando la mela hanno intrapreso il cammino della coscienza, si sono visti nudi, hanno avuto accesso alla storia e sono diventati soggetti.
Belli immagina in questo sonetto che a parlare sia un popolano che si dà arie da “dottoretto”: immerso fino al collo nelle usanze e nei riti –anche mangerecci- della vita quotidiana romana ma anche presuntuoso al punto da voler ammannire ai suoi ascoltatori in piazzetta la spiegazione di un grande mistero. Ci si avvicina con cautela al grumo della questione: mangiare quel frutto non era stato poi così semplice; il poeta annota che Adamo azzardò (v. 1), che la sua fu una maggnata (ibidem) e tira in ballo salame e ppreciutto, in rima con lo strutto (prima quartina). Poi fa giravolta sul frutto, piccola cosa ma che “ar monno ha ruvinato tutto” (v. 6); segue la litania della mela, della pera, magari della nespola, con la battuta fulminante, al vetriolo, su teologi e studiosi, “de sti matti / gnisuno è bono a indovinà ch’edèra” (vv. 10-11). La nota finale, peracottara potremmo dire, va sul pesante e sul gioviale: vuole scatenare la risata liberatoria ma restando fedele alla fonte biblica.
Sono passati i secoli e, con la nascita della scienza moderna, Francesco Bacone ha potuto affermare: “Con la scienza e la tecnica noi ripareremo le pene conseguenti il peccato originale, riducendo la fatica del lavoro e il dolore”. Le metafore religiose hanno sempre prefigurato il sogno dell’uomo di diventare come Dio, di acquisire le sue prerogative, la sua potenza, la sua unicità. In fondo da quando l’uomo è sulla terra egli vuole diventare altro da ciò che è. Quando il serpente dice ad Adamo e ad Eva: se mangerete il frutto della conoscenza diventerete come Dio, è chiara la premessa di voler diventare altro da ciò che essi sono. L’estremizzazione di voler diventare altro da ciò che si è, definisce in modo chiaro la novità filosofica nata in Grecia intorno al VI e V secolo avanti Cristo.
Quasi un anno prima Belli aveva scritto un altro sonetto sul questo tema presentandoci però non un Dio proibitore e censore ma un Eterno desideroso di donare a piene mani misericordia verso una creatura che –dopo il peccato originale- era diventato un ricettacolo di vizi, una vera carogna.
Lo sbajo massiccio 16 gennaio 1835
Quanno zomporno a Dio li schiribizzi
de mette er monno ar monno e creà l’omo,
diede a questo la lègge e l’antri indizzi
pe venì bon cristiano e galantomo. 4
Ma ssuccesso lo scannolo der pomo,
prima causa der còfino a ttre ppizzi,
d’allor impoi chiunque nasce è un tomo
pien de magaggne e carico de vizzi. 8
Pija la secolare e l’eccresiastica,
in oggn’arte ce cova un buggerìo
de malizzie e ppeccati; e Iddio la mastica. 11
E ttante rare sò l’azzione belle,
che, a lo scoprinne quarchiduna, Iddio
va in estis e nun cape in ne la pelle.
Il grande sbaglio
Quando a Dio saltarono i ghiribizzi (gli venne il capriccio) di creare il mondo e poi l’uomo diede a costui norme di legge per diventare un buon cristiano e un galantuomo. Ma una volta accaduto lo scandalo della mela (il peccato originale), causa prima del cappello a tre pizzi del prete, dell’esistenza del clero (Belli fa derivare il sacerdozio dal male e non sbaglia teologicamente perché senza il peccato non ci sarebbe stato bisogno di sacerdozio), da allora in poi qualunque nato è un furbone, pieno di magagne e carico di vizi. Piglia l’arte laica e quella ecclesiastica, in ogni arte ci cova un fermento di malizie e di peccati; e Dio la mastica e ci rimane male. E tanto rare sono le azioni belle che, a scoprirne qualcuna, Dio va in estasi e non sta in sé per la gioia.
E’ bello questo Dio tutto gioioso, che va in estasi e nun cape in ne la pelle.
Gennaro Cucciniello