Identikit di Socrate il ribelle
Socrate non seguì le orme del padre scultore, preferì la musica e il sapere. Ma chi era davvero? Professore di greco a Oxford, Armand D’Angour prova a ricomporre l’enigma di un fondatore della filosofia.
Nel “Venerdì di Repubblica” del 20 marzo 2020 è pubblicato, alle pp. 96-99, un interessante articolo di Barbara Castiglioni che commenta l’uscita in Italia di un saggio di un grecista francese sulla personalità di Socrate. Io aggiungo soltanto alcune brevi considerazioni che dovrebbero aiutare a contestualizzare l’articolo e a far meglio comprendere alcuni sviluppi biografici.
Socrate nacque ad Atene nel 470 a.C. Nella prima parte della sua vita (fino circa all’inizio della guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta) frequentò la cerchia di scienziati e filosofi vicina alle posizioni politiche di Pericle. Fu sempre in rapporti di amicizia con la famiglia di Platone, nella quale vi erano elementi filopericlei e antipericlei (Crizia). A seguito della disfatta ateniese nella guerra, nel 404 nella città prese il potere, appoggiato da Sparta, il governo dei Trenta Tiranni, espressione di un violento estremismo antidemocratico e capeggiato da Crizia; Socrate si tenne in disparte dalla guerra civile che ne seguì e che dopo meno di un anno portò all’abbattimento del regime dei Trenta. Nel 399 Socrate fu accusato da un esponente del partito democratico, Anito, di ateismo e corruzione dei giovani; il processo fu affrontato da Socrate con un atteggiamento che rendeva difficile una soluzione di compromesso e si concluse con la sua condanna a morte. In realtà l’accusa latente che Anito e i suoi gli rivolgevano era quella di essere stato maestro di Alcibiade e soprattutto di Crizia e di esprimere una critica di fondo al potere dell’assemblea democratica, ritenuta demagogica.
Gennaro Cucciniello
“Sì, se la vita e la morte di Socrate sono quelle di un saggio, la vita e la morte di Gesù sono quelle di un Dio”. Queste parole che Rousseau dedicava a Socrate nella sua celebre “Professione di fede del vicario savoiardo” riassumono, anche se solo in parte, molti secoli di interpretazione di quello che può essere considerato, a tutti i diritti, il fondatore della filosofia occidentale. Ma chi era, davvero, quest’uomo che non lasciò nulla di scritto, questa personalità che non si sa dove collocare, questo personaggio che dobbiamo ricavare solo dai racconti e dalle testimonianze e che rimane, ancora oggi, uno dei più grandi enigmi della storia?
A tutte queste domande prova ora a rispondere il nuovo libro di Armand D’Angour, grecista a Oxford, “Socrate innamorato. La giovinezza perduta del padre della filosofia occidentale” (Utet). Che, come suggerisce il titolo accattivante, si sofferma, anche se non solo, su aspetti spesso trascurati di Socrate: figlio scapestrato di una levatrice e di uno scultore, restio a proseguire l’arte paterna, che preferì abbandonare per seguire la sua passione per la musica e il sapere, ma anche ottimo soldato, che portò in salvo l’amico-amato Alcibiade, l’irresistibile politico e generale imparentato a Pericle.
In Alcibiade, che amava scandalizzare gli Ateniesi entrando nell’aula del Consiglio con alcune quaglie o sfilando per la città in compagnia di un mastino a coda lunga dopo avergli mozzato la coda, il malizioso Socrate doveva vedere un alter ego, anche se i loro destini saranno, alla fine, molto diversi.
D’Angour racconta quindi la sua versione di Socrate, ricavata dai racconti dei due più celebri autori del personaggio: Aristofane, che ne fece l’incarnazione del relativismo etico dei sofisti dell’Atene del quinto secolo a.C., e Platone, la cui filosofia può considerarsi la vera interpretazione di Socrate. L’autore francese parte dalle “Nuvole” di Aristofane, in cui Socrate appare sospeso per aria in una cesta, chiamata pomposamente pensatoio, dove svolge farneticanti indagini sull’origine dell’universo, misura la lunghezza del salto delle pulci, si interroga sull’origine del ronzio delle zanzare e medita ogni sorta di stramberia per traviare –ovviamente a pagamento- i suoi concittadini e illuderli di poter diventare, tutti, intellettuali: “Perché mi chiami, creatura effimera” chiede Socrate a Strepsiade che, perseguitato dai creditori, si presenta al suo cospetto per mandare il figlio Fidippide alla sua scuola, in modo da fargli imparare come aggrapparsi a ogni fraudolento sofisma con cui poter prevalere negli scontri dialettici, anche e soprattutto in posizione di evidente torto, come comproveranno il favoloso agone tra Discorso Migliore e Discorso Peggiore e il trionfo di quest’ultimo.
Eliano, filosofo romano del II secolo d.C., racconta che lo stesso Socrate, presente tra il pubblico del teatro quando, nel 423 a.C., Le Nuvole vennero messe in scena, si alzò in piedi per mostrare agli spettatori chi fosse il vero bersaglio dell’opera di Aristofane. Un segno di disprezzo per la commedia e per gli Ateniesi? O forse, al contrario, un segno di partecipazione allo scherzo, una prova di quell’implacabile ironia, quella forza del ragionamento che provoca e sgonfia le parole piene del loro vuoto, che avvilisce e confonde ogni certezza, che tenta di uccidere l’ignoranza rendendola manifesta, che era, più di ogni altra cosa, caratteristica del procedere socratico?
L’ironia, il modo di interrogare di Socrate, che secondo la Pizia era il più sapiente degli uomini, come racconta Platone nell’Apologia, perché sapeva di non sapere, sconcertava gli Ateniesi: “Sono più sapiente di questa persona: forse nessuno dei due sa nulla di buono, ma lui pensa di sapere qualcosa senza sapere nulla, mentre io non credo di sapere anche se non so”. La sua maieutica, letteralmente “arte dell’ostetrica”, quella personalissima arte dialettica che lui, non a caso figlio di una levatrice, impiegava per aiutare gli altri a ritrovare la verità in se stessi e a tirarla fuori dalla propria anima, li lasciava senza parole. “Che lo ascolti una donna, o un uomo, o un ragazzo, ne restiamo sbigottiti e come posseduti” racconta Platone nel Simposio, mentre Menone, nell’omonimo dialogo, gli diceva “mi affascini, mi streghi, mi incanti”, e paragonava il suo effetto a quello di una torpedine marina, che fa intorpidire chi le si accosta e la tocca. Simile, nell’aspetto, ad un satiro, ad un sileno, con il naso camuso e gli occhi sporgenti, ma “molto più meraviglioso di Marsia” –il mitico flautista che osò sfidare Apollo- perché otteneva gli stessi risultati senza strumenti “ma solo con la nuda parola”, dice Alcibiade nello straordinario elogio del Simposio, Socrate affascinava, seduceva, incantava, ma, come sempre accade a chi affascina, seduce e incanta, spaventava: “Quando lo ascolto, il cuore mi balza in petto e per le sue parole mi colano le lacrime… perciò mi costringo a turarmi le orecchie e fuggo via come dalle Sirene… e non di rado sarei contento di vederlo sparire dalla terra: ma se questo accadesse, so che ne soffrirei molto di più. Così, non so proprio che fare di quest’uomo”. Come Alcibiade, neppure gli Ateniesi sapevano più cosa fare con Socrate e, temendo che continuasse a mordere i cuori e le anime “con i discorsi di filosofia, che si attaccano più fieramente di una vipera quando afferrano un’anima giovane”, lo condannarono a morte, accusandolo di non credere agli dèi tradizionali, di aver introdotto nuovi dèi, e di corrompere i giovani.
L’uomo che aveva condotto un’intera città a partecipare “della follia, del delirio bacchico della filosofia” avrebbe potuto fuggire via dalla sua Atene per evitare il processo, o pagare una pena pecuniaria –che avrebbero saldato gli amici, dato che lui era poverissimo e aveva proposto, ironicamente, di pagare ai giudici quel che poteva, cioè un’irrisoria mina d’argento –o sarebbe potuto almeno, come gli suggerivano tutti, scappare dal carcere: un altro, ma non Socrate, per cui non bisognava rispondere ad un’ingiustizia con un’altra ingiustizia.
Come poteva un uomo in cui la legalità giuridica era un aspetto della legalità morale non presentarsi a un processo al quale lo chiamava la legittima autorità? Decise quindi di affrontarlo e difendersi da solo, rifiutando di ricorrere a quei mezzi e a quei trucchi con cui sarebbe senza dubbio riuscito, se solo l’avesse voluto, a commuovere o a incantare i giudici: ma non lo fece, perché non sarebbe stato coerente con una vita improntata al senso della giustizia e alla ricerca della verità. Non conta, insomma, vivere, ma vivere bene, perché è “meglio la morte, che consentire ad un male che non si sa di essere tale”. Socrate non poteva tradire questo principio, che aveva tante volte ripetuto agli Ateniesi, non poteva abiurare alle sue idee o comportarsi in maniera diversa, “neppure se dovessi morire più volte”.
Quasi duemila anni dopo, Giordano Bruno, un’altra vittima sacrificale della propria coerenza filosofica, risponderà ai giudici che gli chiederanno di abiurare le sue idee: “Non devo né voglio pentirmi, non so di che cosa io mi debba pentire”; e a quegli stessi giudici che gli leggeranno la sentenza, con la quale veniva abbandonato al suo destino –la morte sul rogo- obietterà ironicamente: “Avete più paura voi a emettere questa sentenza che io ad ascoltarla”.
Anche Socrate, con la sua ironia, riuscì a prendersi gioco della sua stessa condanna a morte: prima, rifiutando di posticiparla, come gli chiedevano i suoi compagni, perché ritardando la sua esecuzione non avrebbe potuto guadagnarci nulla, se non il ridicolo, come racconta Platone nel Fedone; dopo, chiedendo al boia di fare una libagione –che nella religione greca era un gesto cultuale importante, celebrato in occasione di preghiere, sacrifici, trattati di pace, armistizi e simili, in cui si versavano vino, miele, l’acqua o altri liquidi, ma certamente non un veleno- con la cicuta; infine, urlando, prima di morire, quelle misteriose, celebri parole mai davvero comprese: “Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo e non ve ne dimenticate”.
Un ringraziamento al dio della medicina, l’Esculapio romano, per avergli reso indolore la morte? Un segno di gratitudine per essere stato liberato, anche se con la condanna, dai suoi persecutori? O forse, come pensava Nietzsche, un ringraziamento al dio della medicina per averlo guarito, grazie alla morte imminente, dalla malattia della vita?
Barbara Castiglioni