Carbone, una storia in nero
Ingiustizie, progresso, rivoluzioni, danni ambientali: un libro, “Coal”, Carbone, di Barbara Freese, ripercorre l’impatto sull’umanità del combustibile tuttora più usato. Ma ormai al tramonto.
Questo articolo di Giuliano Aluffi è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” il 6 gennaio 2017, alle pagine 58-61.
“Il carbone in questo paese durerà ancora un millennio” diceva Donald Trump poco prima della sua elezione. Tra gli esperti però è opinione diffusa che la fine dell’era del carbone sia prossima, con buona pace del presidente Usa e pure della Befana che, secondo tradizione, la notte scorsa, come ogni 6 gennaio, l’ha messo nella calza dei bambini cattivi. E’ vero infatti che si tratta del combustibile fossile più abbondante in natura ed è vero pure che l’elettricità generata bruciando questo residuo del Paleozoico continua ad alimentare i nostri gadget ultramoderni e le auto elettriche. Ma il suo impatto ambientale appare sempre più insostenibile: un report Ecofys-Wwf di pochi mesi fa mostra come anche le centrali a “carbone pulito”, quelle che ricatturano la CO2 che emettono, non siano compatibili con l’obiettivo di contenere sotto i 2 gradi l’aumento della temperatura mondiale entro il 2050. Nel frattempo le energie rinnovabili diventano sempre più convenienti: dal 2013 il loro contributo energetico supera quello delle fonti fossili e nel 2016 il loro costo è calato di un terzo. Entro il 2030, per gli analisti di Bloomberg, le nuove installazioni di energia pulita supereranno di quattro volte quelle di centrali a carbone, petrolio e gas. Insomma, il carbone sta per scomparire perché non fornisce più alcun vantaggio, neppure economico.
L’uscita di scena procede però a velocità diseguali: gli Usa tra 2014 e 2015 hanno ridotto del 29% l’uso di carbone, la Cina –maggior produttore e consumatore mondiale- solo del 3 (ma è noto che ci sta lavorando). “L’unanimità globale anticarbone è recente. Finora l’umanità si divideva tra chi lo considerava insostituibile fonte di progresso e chi lo identificava come minaccia per la salute e simbolo di sfruttamento. Questa natura duplice fu colta già dal grande saggista francese Alexis de Tocqueville, che descrisse così la Manchester del 1835: “Da questa fogna putrida esce oro puro. Qui la civiltà compie i suoi miracoli e l’uomo civilizzato regredisce a selvaggio”. A parlare è Barbara Freese, americana, analista di politiche energetiche e autrice del bestseller “Coal. A Human History” (“Carbone. Un storia umana”, Basic Books), ripubblicato quest’anno in ediziuone aggiornata. “Quando lo bruciamo, il carbone ci restituisce quell’energia solare catturata, attraverso la fotosintesi, dagli alberi del periodo del Carbonifero e conservata per oltre trecento milioni di anni”, dice. “Erano alberi colossali come il lepidodendron, 50 metri di altezza per due di diametro del tronco. Con una corteccia così simile alle scaglie dei rettili che nel 1851, in Galles, un tronco fossile fu esibito come prova dell’esistenza dei draghi”.
Drago finto, il carbone ha fatto però vittime vere: “Un report recente prodotto da Health and Environment Alliance stima in 23mila all’anno i morti in Europa a causa del particolato fine emesso dalle 280 centrali termoelettriche a carbone che forniscono circa il 25% dell’energia del continente” spiega Freese. “In una classifica dell’Oms sulla mortalità attribuibile alle fonti di energia, il carbone è in testa: 100mila morti per mille miliardi di kilowatt/ora come media globale. Con una distribuzione che riflette sia l’intensità d’uso che i regolamenti ambientali: ben 170mila in Cina contro 10mila negli Usa. La seconda fonte energetica più letale è il petrolio, con una media mondiale di 36mila morti. Solare, eolico e idrogeno insieme non superano quota duemila”.
Già nel Medioevo quella sostanza nera che si estraeva dal suolo di Newcastle –sempre più necessaria per riscaldare visto che il boom della popolazione aveva portato a disboscamenti folli- destava preoccupazione. “Nel 1257 la regina Eleonora visitò Nottingham e il forte odore del carbone bruciato la costrinse a fuggire dalla città”, dice Freese. Gli inglesi erano in anticipo sui tempi: in quei decenni altri europei non sapevano neppure che cosa fosse, il carbone, e se ne meravigliavano: “Nella provincia del Catai pietre nere che si cavano dalle montagne ardono come la brace, e tengono più lo fuoco che fanno le legna, e mettendole la sera nel fuoco, tutta la notte mantengono lo fuoco” raccontava Marco Polo nel Milione. I cinesi erano stati i primi a fare un uso di massa del carbone. Ma curiosamente il primo era stato estetico e non pratico: 6000 anni fa scolpivano gioielli in giaietto (minerale composto al 70% da carbone).
Poi un evento eccezionale cambiò le cose, almeno per un po’: “La peste del 1348-49 decimò la popolazione. In Inghilterra si liberò molta terra per i sopravvissuti, che così poterono ripiantare gli alberi e utilizzare di nuovo il legno come combustibile primario”, spiega Freese. “Dopo quella grande epidemia, i bubboni neri –ossia i linfonodi rigonfi e dolorosi della malattia- rimasero associati nell’immaginario ai carboni ardenti. Le miniere mietevano vite con gas, esplosioni e crolli. E odoravano di zolfo: il carbone, per la sua natura sotterranea, iniziò a essere associato con il diavolo e l’inferno”. Un paradosso, considerando che al tempo i più ricchi giacimenti di carbone inglesi erano posseduti dalla Chiesa. Ma il ritorno alla legna durò poco: col boom demografico del 1500, e i disboscamenti correlati, gli inglesi riscoprirono il carbone. Con pesanti strascichi: “Il primo report ambientalista di sempre viene pubblicato nel 1660 da John Evelyn e ha un titolo suggestivo: “Fumifugium, o gli inconvenienti dell’aria e del fumo di Londra, con alcuni rimedi umilmente proposti a Sua Maestà” dice Freese. “Non sorprende che nel 1700 il colore uniforme degli ombrelli inglesi fosse il nero: solo il nero celava bene le macchie del particolato di carbone che la pioggia trascinava giù sporcando tutto ciò che incontrava”.
L’estrazione di carbone, allora, procedeva frenetica, ma ostacolata dai frequenti allagamenti delle miniere. “E chi trovò la soluzione a questo problema, senza saperlo, cambiò il mondo. Un fabbro geniale, Thomas Newcomen, nel 1712 inventò una macchina a vapore, mezzo secolo prima di James Watt, per azionare una pompa idrica e asciugare le miniere: il primo modello usato a questo scopo nel Warwickshire rimpiazzò 500 cavalli”.
Il carbone, quindi, non solo alimentò la rivoluzione industriale, ma la ispirò. E con il progresso, portò un nuovo tipo di diseguaglianza. Già dal 1600 intorno a Newcastle le miniere erano sempre di più e le fattorie sempre di meno. Chi aveva perso il lavoro nelle campagne andava a lavorare in miniera, vivendo in sistemazioni di fortuna. “All’improvviso nasce una nuova classe di lavoratori che producono risorse non usate dalla comunità locale ma da chi vive in città”, dice Freese. “E si crea una netta separazione tra abitanti delle città e “uomini del sottosuolo”. Tra questi molti erano minori: si districavano meglio nei cunicoli delle miniere, ma privati del sole e della vitamina D indispensabile alle ossa, avevano un’aspettativa di vita media di 17 anni. Contro i 38 di chi viveva in città e i 52 degli agricoltori”.
Il carbone è stato però anche la molla della rivoluzione industriale e, indirettamente, delle grandi rivoluzioni del Novecento: “Nel 1845 Friedrich Engels pubblicò “La condizione della classe operaia in Inghilterra”, che ebbe una forte influenza su Karl Marx”, ricorda Freese. E del resto la conversione dal carbone al petrolio che l’America chiese all’Europa dopo la Seconda guerra mondiale, come condizione per dare gli aiuti del piano Marshall, non aveva motivazioni ambientali, ma geopolitiche: indebolendo i potenti sindacati dei minatori, gli americani intendevano prevenire l’ascesa al potere dei partiti filorussi. Infine, tirando le somme, “il carbone fu motore di diseguaglianza, ma non è detto che senza di esso il mondo sarebbe stato più democratico: se invece dell’energia immagazzinata nel sottosuolo avessimo dovuto contare solo su quella dei muscoli, lo schiavismo sarebbe stato molto più diffuso e duraturo. La rivoluzione industriale sarebbe partita da nazioni ricche di legno come la Svezia e avremmo forse disboscato in modo irreparabile la Terra”.
Giuliano Aluffi