Il caso Alasia. La mamma del brigatista.

Il caso Alasia. La mamma del brigatista.

Lo scrittore Giuseppe Culicchia aveva già raccontato la storia del cugino Walter Alasia, brigatista ucciso nel 1976: ora dedica alla zia un memoir che contribuisce ad elaborare la storia d’Italia.

 

L’articolo di Cristina Taglietti è pubblicato ne “La Lettura” del 5 febbraio 2023, supplemento culturale del Corriere della Sera, a pag. 12.

 

Sono entrato nelle Brigate Rosse, mamma”, dice il ragazzo che voleva fare la rivoluzione e che soltanto qualche anno prima era un bambino paffuto capace di divertire tutti con i suoi scherzi e i suoi travestimenti. Questa non è la storia del brigatista Walter Alasia, morto a vent’anni nel 1976 in uno scontro a fuoco con la polizia nel cortile della casa dei genitori al numero 161 di via Giacomo Leopardi a Sesto San Giovanni, dopo avere ferito a morte il vicequestore Vittorio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega. Quella, Giuseppe Culicchia l’ha già raccontata nel 2021, con il libro precedente, “Il tempo di vivere con te”. Walter Alasia era suo cugino, amato come un fratello maggiore, ammirato come un eroe scanzonato. Questa, “La bambina che non doveva piangere”, è invece la storia di sua zia, Ada Tibaldi, la madre di Walter, che morirà a 52 anni, otto anni dopo il figlio, in quella stessa casa, seduta in poltrona davanti alla tv. Infarto dicono i medici, crepacuore pensa Culicchia. Che scrive: “E’ una storia con la s minuscola, di quelle che vengono schiacciate dalla Storia con la S maiuscola”.

Per molti anni Culicchia ha custodito quella tragedia familiare e collettiva che incrocia gli anni di piombo, la strategia della tensione, i misteri d’Italia, parlando d’altro nei suoi libri e ora la ricostruisce partendo dall’inizio, dalla nascita di Ada, il 16 giugno 1933 –l’anno in cui Hitler diventa cancelliere del Reich- a Nole Canavese, un piccolo centro agricolo a una ventina di km da Torino. Ripercorrendo le vicende della sua famiglia lo scrittore si cala nella storia d’Italia costruendo una linea del tempo dove i grandi eventi che sconvolgono il Novecento non sono pura cornice ma il terreno in cui attecchiscono gli ideali repubblicani, le illusioni di cambiare il mondo e poi gli attentati, gli omicidi, i rapimenti. La ferita degli anni di piombo, che molti autori hanno messo al centro di romanzi e film, qui prende la forma di un asciutto memoir in prima persona. Culicchia va a caccia delle parole, delle atmosfere, dei luoghi e innesta i suoi ricordi, il resoconto dei fatti, le notizie e i commenti dell’epoca, le molte fotografie scattate da Guido Alasia, il marito di Ada, su un impianto narrativo che ricostruisce, immaginandoli, dialoghi e incontri.

Figlia di un operaio tessile che ha fatto la Marcia su Roma e di una donna semplice che ha messo al mondo altri 5 figli (tra cui Elisabetta, la timida, mite madre dello scrittore), Ada nasce con il labbro leporino: “Vostra figlia non deve piangere”, dice ai genitori il medico che la opera, perché, se lo fa, la cicatrice sul labbro superiore potrebbe riaprirsi. Ma non ci sono solo lacrime in questo racconto. Basta l’immagine della copertina –Ada giovane e bella, seduta sull’erba, sorridente in calzoncini e canottiera gialla- per capire che prima delle lacrime ci sono sì le difficoltà quotidiane della guerra, della paura, della fame, ma anche piccole gioie, sorrisi, divertimenti. Da ragazza Ada è la più vitale delle sorelle e delle amiche, ruba loro i vestiti più eleganti, si mette il rossetto e le trascina dovunque ci sia una festa: “Sono, questi, gli anni più belli della sua vita. Del fatto che l’Italia corra nuovamente il rischio di trovarsi in una guerra civile all’indomani dell’attentato a Togliatti, che ha luogo il 14 luglio 1948, Ada e la sua compagnia danzante quasi non se ne accorgono”.

Il matrimonio con Guido Alasia, “nel giugno del 1953 quando a Londra Elisabetta II viene incoronata regina di Gran Bretagna”, disperde la spensieratezza di Ada, ma non la sua vitalità. Nelle riunioni di famiglia è sempre lei che anima gli incontri, scherza con il cognato siciliano (Culicchia padre), si confida con la sorella, gioca con i nipoti, ma il bisogno di essere protagonista del proprio destino, la consapevolezza di ciò che succede intorno, la sensazione che le speranze accese nel Dopoguerra vengano di giorno in giorno tradite, la spingono sempre di più verso l’impegno politico e sociale. Operaia in una fabbrica di Sesto San Giovanni, partecipa a scioperi e picchetti: davanti alla fabbrica sono sempre le donne a scandire gli slogan e a cantare più forte degli uomini, e Ada è tra quelle che gridano tanto da tornare poi a casa senza voce”. Walter le somiglia, con lei condivide la passione politica che lo spinge ad avvicinarsi prima a Lotta Continua e poi, dopo un incontro con Renato Curcio, alla lotta armata.

Culicchia non sorvola su nulla, mette tutto sul tavolo, le ragioni e i torti, gli errori e le colpe. Racconta di quando Ada, convinta dal figlio, fa da palo a Curcio che deve entrare in un ufficio a recuperare dei documenti, di quando Walter le comunica la scelta della lotta armata: “Walter, che vuol dire che sei entrato nelle Brigate Rosse?”. E di quell’ultima sera nella casa di Sesto San Giovanni, dove il figlio decide di tornare per salutarla, prima di entrare in clandestinità e la storia va a prenderselo, il mattino dopo. “Ci sono la Marcia su Roma e piazza Fontana su quel pianerottolo, assieme ai poliziotti. Carlo Marx e Leopoldo Pirelli. Ernesto Che Guevara e Fiorenzo Bava Beccaris. Karl Wolff e la Comune di Parigi”, scrive Culicchia che in ogni pagina ha tessuto i fili di quell’epoca feroce, la scia di morti che da una decina d’anni sta insanguinando l’Italia, l’eredità avvelenata della Seconda guerra mondiale.

Si legge il libro con un misto di rabbia, angoscia, dolore per le vittime di quel terrorista ventenne, il vicequestore Vittorio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega, che i colleghi chiamano il comunista per le sue idee, per i loro figli rimasti orfani, per la disperazione di una madre che si chiede perché non è stata capace di dissuadere il figlio, perché si è lasciata convincere che quella fosse la sola strada per cambiare le cose. Perché non lo ha denunciato prima che il suo cammino prendesse quel vicolo cieco.

Questo libro non è la chiusura di un cerchio. Culicchia lo aveva già chiuso dopo la pubblicazione di “Il tempo di vivere con te”, quando aveva incontrato Giorgio, il figlio del maresciallo Bazzega ucciso da suo cugino, con il quale ha costruito un dialogo che ha permesso a entrambi di dare un senso al passato. Memoria è la parola chiave: “Ho scritto queste pagine per evitare che le vostre voci, i vostri occhi, i momenti che abbiamo vissuto assieme vadano perduti nel tempo”.

 

         Cristina Taglietti                               Giuseppe Culicchia