“Il lampo” di Giovanni Pascoli. Un’analisi.

Giovanni Pascoli, “Il lampo”. Da “Myricae”. Un’interpretazione.

 

Questo è un lavoro scritto in classe nell’aprile del 1990 da un mio studente del secondo anno del Liceo Scientifico Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che un ragazzo di sedici anni può essere capace di un’analisi accurata, ricca di acute osservazioni e strutturata su solide basi metodologiche, pur con delle inevitabili ingenuità. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, pur intelligenti, sull’autore (biografia, ideologia, poetica) e sulla raccolta delle “Myricae” che lo studente ha ricavato dai manuali. Mi ha interessato, invece, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture. A sedici anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero. Nel Museo Torlonia, a Roma, si può vedere un “Rilievo votivo con nave e simboli” –datato 190 d. C.-: al centro della scultura –senza alcuna connessione formale col resto della figurazione- spicca un grande occhio apotropaico. Stilisticamente il rilievo appartiene alla corrente “plebea” dell’arte romana, con noncuranza per le proporzioni e le figurazioni naturalistiche, ma è anche in armonia con le tendenze magico-religiose del tempo che accentuano il ricorso al simbolo. Cosa vuol significare il grande occhio? Nel riquadro si vedono il faro di Ostia e una nave –con le vele istoriate- e figure di marinai che lavorano. E l’occhio?                                                                           

prof.  Gennaro Cucciniello

 

 

E cielo e terra si mostrò qual era:

 

la terra ansante, livida, in sussulto;

il cielo ingombro, tragico, disfatto:

bianca bianca nel tacito tumulto

una casa apparì sparì d’un tratto;

come un occhio, che, largo, esterrefatto,

s’aprì si chiuse nella notte nera.

 

Analisi metrico-strutturale. E’ una composizione singolare. E’ una ballata: è detta piccola perché la sua ripresa è costituita da un solo verso. Lo schema delle rime è quello tipico di queste composizioni, cioè A-bcbccA, con la stanza di sei versi. Tutti i sette versi sono endecasillabi. Le rime sono: era-nera (1° e 7° vv), sussulto-tumulto (2° e 4° vv), disfatto-tratto-esterrefatto (3°, 5° e 6° vv). Si inizia con un polisindeto (e cielo e terra, l’universo), seguito da verbi al passato e al singolare: il mostrò (passato remoto) interpreta il lampo come un fenomeno rivelatore e fulmineo, tanto che nell’attimo in cui arriva è già passato; l’era spiega che terra e cielo si sono rivelate interamente e costituiscono assieme la natura. La musicalità è accentuata dalle numerosissime assonanze: già nel primo verso con terra-nera e, in inversione, qual (e); poi anche con terra del secondo e nera dell’ultimo verso. Inoltre anche ansante rientra in questo vasto legame: assona, infatti, con qual (e) e si lega a tutte le altre con l’inversione. Altra iterazione, cielo e cielo, e assonanza tra ingombro e mostrò (ambedue tra il terzo e il primo verso). Iterazione nel quarto verso, bianca bianca; tacito e tragico, un’altra assonanza e una insistita allitterazione in t e in a. Assonanza fra bianca bianca e casa; rima interna, apparì-sparì, ed ancora un’allitterazione. Nel sesto verso, come assona con notte, e anche con cielo, in inversione; largo, inoltre, assona con tutte le rime c. Oltre che un’allitterazione, si può registrare un vero e proprio anagramma tra sparì del quinto verso e s’aprì del settimo. Ultima allitterazione che riscontro è fra nella e notte, e fra nella e nera, con assonanza.

Analisi linguistico-concettuale. La scena si svolge quasi al rallentatore. O meglio, si ripete quasi più volte, nella memoria dell’autore e nella sua descrizione. Quello che la rievoca è quella similitudine finale dell’occhio che si apre e si chiude, è quella casa che viene notata nel tacito tumulto, quel suo esistere in virtù della potenza del cielo unita a quella della terra e quel suo sparire quando il ricordo fuggevole di quel violento bacio luminoso è già ombra.

Le immagini, l’uso del colore e del movimento (in questo caso alto-basso), il suono sono costruiti in bella ed efficace sinestesia. La terra è livida, color del piombo. Ma essa è vista anche come la madre della vita: è da essa infatti che la vita si genera. Le locuzioni, ansante, livida, in sussulto, costituiscono un climax ascendente con lo sdrucciolo in posizione centrale (e questo si ripete nei due versi seguenti): la terra sta respirando affannosamente; è scura, di color plumbeo; è agitata, scossa, quasi in preda ad un’agitazione dolorosa. Il deposito della vita è stato colpito, la vita dell’uomo sarà caratterizzata perennemente da una perpetua angoscia. Il cielo è ingombro di nubi scure, grigie, di pioggia; il cielo che è sempre stato qualcosa di magico, di ordinato, di fascinoso, ora è disordinato, ogni cosa ha perso la sua funzione. E la notte è nera, nera notte. La casa poi è bianca bianca, introdotta in modo significativo dall’unico enjambement della poesia. Questa ripetizione mi fa pensare a un confronto tra il suo solito bianco e un più di bianco che ora acquista. La memoria e il pensiero rimano contro la realtà della natura. Riassumendo: plumbeo, grigio scuro, nero, bianco bianco. C’è un altro confronto: non solo fra il bianco mentale e quello reale, ma tra il biancore dell’edificio, costruito dall’uomo, e i colori scuri della natura “arrabbiata” (non si dimentichi che il poeta ha sempre attribuito alla casa-nido un ruolo di protezione e di affetto). Il bianco creato da mano umana esiste solo in virtù del lampo, e il luccicare del fulmine è mille volte più accecante (qui la memoria è realtà, più vicina alla natura). Tra le anafore-iterazioni c’è anche, più importante, un movimento alto-basso: cielo-terra, terra, cielo, casa bianca, notte nera. Questa è la direzione dell’energia: dal cielo alla terra, dalla terra al cielo, l’immagine bianca bianca, il buio totale. Senza mai nominarlo, il poeta lo mostra con questo sistema. Il lampo che scocca e fluisce. Con le anafore si ottengono colori e immagini. Così si ricava il soggetto della poesia. L’azione si svolge nel primo verso, si prolunga fino al terzo; poi c’è l’associazione con fenomeni conosciuti (la casa costruita dall’uomo) e misteriosi (l’occhio è del poeta, di un osservatore, di un’entità misteriosa?).

Analisi fonica. La rima in A (era-nera). Unendo in un’unica frase tutte le parole che rimano o assonano con questa rima, ci si diverte ad ottenere un verso dal sapore vagamente carducciano: “era nella terra nera”. La vera analisi, invece, è già stata fatta.

La rima in B (sussulto-tumulto). Entrambi i sostantivi si riferiscono ad un movimento; spesso si ritrovano in relazione all’uomo, a volte in relazione a fenomeni sismici, relativi quindi alla terra. L’uno è un movimento brusco, l’altro rumoroso. La terra è vista come la madre della vita: è da essa infatti che la vita si genera. In questa notazione, inserisco anche tacito: è un aggettivo, ed infatti si lega a tumulto. Ecco l’evidente contrasto ossimorico: il tumulto indica un moto rumoroso, chiassoso; tacito richiama il silenzio. Un silenzio carico di significato anche naturale: il tuono non è ancora scoppiato. Mi richiamano alla memoria “il bubbolio lontano, a monte” della poesia “Temporale” e il fragore della poesia “Il tuono”; nell’intervallo c’è proprio il Lampo, silenzioso.

La rima in C (disfatto-d’un tratto-esterrefatto). Disfatto ed esterrefatto sono due condizioni, sia fisiche che mentali. Disfatto è sconvolto, ferito, sconfitto, non più integro. Il cielo è sconvolto, coperto dalle nubi minacciose. Ma il cielo è anche il velo di nubi minacciose. Esterrefatto è l’occhio, impaurito, reso immobile dal terrore o dalla meraviglia. E’ immobile ed attonito (torniamo al tacito di prima). I due participi passati sono molto vicini sia nella forma che nel significato. Rimane “d’un tratto”. L’unione con gli altri due termini è a proposito dell’immediatezza che tutti e tre trasmettono. Inoltre, tutti e tre si possono riferire sia all’occhio che al cielo.

Da tutto questo nasce la domanda di fondo: ma cosa è l’occhio? Secondo me può essere interpretato in quattro modi diversi: a) il poeta può forse avere visto, passando in calesse o in treno, questa scena campestre ed esserne stato colpito. Sul vetro del finestrino c’era il suo occhio stanco, che si chiuse lasciando tutto nella notte nera (se io chiudo gli occhi, il mondo scompare). b) Seguendo la similitudine, l’occhio è quella casa, e quindi ridiventa l’uomo che si scontra con la natura rimanendone attonito e spaventato. Diventa così anche, in “Temporale”, quell’ala di gabbiano che, lontano, cerca di scappare. c) Quell’occhio è il cielo stesso, spaventato dalla propria potenza, o forse abbagliato e meravigliato. d) Quell’occhio è il lampo. La casa bianca bianca è il lampo che appare e scompare subitaneamente, illuminando per un attimo e lasciando poi tutto il mondo nel buio della notte. E’ un quadro di terrore, paura, angoscia, senza rimedio.

Coi suoi muti flash che si ripetono, con la sua silenziosa durata, con la sua tacita attesa questa poesia apre la via al “Tuono” che con la sua forza tutto farà tremare (“…col fragor d’arduo dirupo / che frana…”, “rimbombò di schianto”, “e poi rimareggiò rinfranto”. “Soave allora un canto”, “il moto di una culla”). Tremano la terra, l’aria, il cielo, le nubi, il mare: è quasi un sentore di morte. Ma c’è la ninna nanna soave della madre che culla il suo bambino: per molti esseri là fuori è la morte, per loro due il temporale è amore e vita, energia e calore. Dalla morte nascono la vita e l’amore. Così i fenomeni naturali rivelano in un istante il vero modo d’essere delle cose. Scriveva un poeta giapponese del XVII secolo: “ammirevole è chi / non deduce dal lampo / la vanità delle cose”, e poi annotava: “L’esistenza è rugiada,/ lo so, solo rugiada./ Eppure, eppure…”.

Stefano  P.

22 aprile 1990