Il “Lazarillo De Tormes”. E’ un thriller filologico.
Nel ‘500 fu il capostipite dei grandi romanzi picareschi spagnoli. Ora torna in una nuova traduzione italiana. Ma sul suo anonimo autore è ancora giallo.
Madrid. In un Siglo de Oro molto poco dorato e parecchio trash, le peripezie di un povero diavolo in mezzo a poveri diavoli, avidi vagabondi ciechi, preti spilorci, cavalieri decaduti,, frati maneggioni, onoratissime spose infedeli… Quella di Lazarillo sembrava una storia cucita su misura per il genio cinematografico di Mario Monicelli. Eppure, malgrado il cast monumentale (Gassman, Manfredi, Giannini…) ne venne fuori uno tra i suoi film più infelici: “I Picari”, anno 1987. Ora il capolavoro del Cinquecento spagnolo torna da Adelphi in un’edizione curata da Francisco Rico, accademico di Spagna, sommo esegeta di Cervantes, Petrarca e della letteratura picaresca. Ma anche luminare atipico. Perché da una vita il filologo Rico combatte contro quello che, a torto o a ragione, è ritenuto il tratto distintivo della sua disciplina: la pedanteria.
Battaglia contro i mulini a vento? Può darsi. Però, a 77 anni, don Francisco non si dà ancora per vinto. “In questa versione italiana del “Lazarillo de Tormes” il testo originale spagnolo è a seguire, non a fronte. Non volevo scocciare il lettore. Quanto alle note, sono poche e in coda. Che noia, le note. Vero? Il “Lazarillo” è un romanzo di vitalità torrenziale e leggerlo dovrebbe essere un’esperienza di felicità” dice in un ristorante madrileno, tra i vapori da sauna del cocido, il bollito come lo fanno qui. Piatto robustello, dal quale il professore attinge però con una certa parsimonia: “Alla mia età”, spiega, “cerco di evitarne le carni, mi limito al brodo”. Un insulto a Lazarillo, alla sua fame di picaro, gli faccio notare. Rico si stringe nelle spalle sogghignante.
Il “Lazarillo de Tormes”, che uscì a metà del ‘500 e del quale non ci è pervenuta la prima edizione, fu subito un bestseller. Anche se, naturalmente, entro i ristretti confini delle élite alfabetizzate. E’ un romanzo anonimo. O meglio apocrifo, puntualizza Rico: “Il vero autore lo attribuisce a un falso narratore, Làzaro de Tormes, in modo da rafforzare l’illusione di realtà del racconto. Con questo espediente, il libro sembra quasi anticipare il grande realismo alla Defoe”. La caccia al misterioso inventore di Lazarillo va avanti da secoli. A confronto, le speculazioni su chi sia davvero Elena Ferrante sono pinzillacchere.
Ma se le indagini sul fantomatico Senor X –chiamiamolo così- sono appassionanti è perché appassionante è il profilo di molti tra i sospetti autori. A cominciare dal monaco Juan de Ortega, nella cui cella fu ritrovata una bozza manoscritta del romanzo. Ma poteva essere un testo altrui ricopiato. Chierico dall’ingegno guizzante, Ortega venne notato da Carlo V che, al momento di ritirarsi nel monastero di Yuste, lo incaricò di organizzare il sontuoso trasloco. Credendo di fargli cosa gradita, l’imperatore nominò Ortega vescovo del Chiapas. Ma Juan, che fesso non era, rifiutò cortesemente la promozione. Concludere la carriera tra i deserti messicani era prospettiva che lasciava volentieri ad altri.
Il Lazarillo opera di un prelato “doppiogiochista”? Nel ‘600 circolava addirittura la storiella secondo cui il romanzo sarebbe stato divertissement collettivo d’un gruppo di vescovi spagnoli che lo avrebbero scritto per gioco e di getto in viaggio verso il Concilio di Trento. Quando gliela ricordo, Rico cestina questa ipotesi con la smorfia stremata di chi in vita sua ne ha sentite troppe. Ma precisando che l’anticlericalismo –piuttosto bonario- del libro non sarebbe incompatibile con l’idea che l’autore fosse un religioso. Dopotutto, anche nel turrito clero spagnolo si erano infiltrate le critiche della Riforma al malcostume della Chiesa.
E comunque, religiosi o non, molti tra i personaggi –ne ho contati una quindicina, ma continuano a spuntarne di nuovi- ai quali è stato attribuito il Lazarillo erano intellettuali di “pericolose” simpatie riformatrici o erasmiane. Alcuni (Sebastiàn de Horozco, Juan de Valdés, Juan Luis Vives), discendenti di ebrei convertiti. Nella tumultuosa temperie cinquecentesca, tipi sempre sul filo impalpabile dell’eresia. Marcati strettissimi dalla Santa Inquisizione, alle cui mordacchie il libro, ovviamente, non sfuggì.
Sulfurea anche la traiettoria di un altro indiziato eccellente, Diego Hurtado de Mendoza. Aristocratico, guerriero, ambasciatore in Italia, poligrafo di talento, nelle lettere si fabbricò una reputazione di enfant terrible. Gli vennero addossati numerosi testi impertinenti (satire, pamphlet) e lo stesso, mordace, Lazarillo finì giocoforza nell’orbita della sua leggenda. “Ma, appunto, di leggenda si tratta, nulla più”, commenta Rico.
Il giallo del Senor X alimenta da tempo il mito del romanzo ritenuto apripista della letteratura picaresca, però rischia di farcene perdere di vista la carica innovativa –ammonisce il filologo. “Mai prima d’allora si era prestata tanta attenzione ad un personaggio così umile come Lazaro”, un poveraccio che racconta i propri trascorsi di ragazzino vagabondo, ora che è riuscito a conquistarsi un tozzo di stabilità sociale, ma inghiottendo più di un amaro boccone. Chi associa sbrigativamente la Spagna a un cristianesimo tetro, punitivo, quaresimale, si rilegga il Lazarillo e sbatterà la testa contro una mirabile eccezione. Perché le traversie dello scugnizzo sono un exploit di carità sotto forma di humour. O di quello che Rico chiama “relativismo umanistico”. Un disincanto non cinico che accompagna il lettore verso una visione spietatamente indulgente del mondo. Visione che, forse, sta ancora al cuore dell’antica sapienza popolare spagnola. E’ uno sguardo preistorico, di fronte al quale, comunque si travesta, ovunque si nasconda, l’uomo è sempre nudo, costretto alla furbizia perché debole animale tra le ostili, feroci potenze naturali di cui la civiltà non è che il prolungamento.
Solo un intellettuale molto raffinato, ma avvezzo ai bassifondi della vita avrebbe potuto concepire un racconto così divertente e privo di sentimentalismi. Che sia stato erasmiano, cripro-luterano, vescovo, frate, spadaccino, diplomatico o vattelappesca.
Marco Cicala Francisco Rico
(Articolo di Marco Cicala nel “Venerdì di Repubblica” del 20 dicembre 2019, alle pp. 98-99).