Il Libano diviso e il suo Profeta Gibran
Culla dei Fenici, luogo di incroci di religioni e culture ma anche di guerre civili. Destino già scritto.
Tiro, la città più potente, sorgeva su un isolotto, scelto in funzione di una fonte d’acqua dolce che scaturiva dal mare. Aveva un porto a nord, verso le città alleate, un altro a sud, da dove salpavano le navi per l’Egitto, e per il resto la vita ruotava tutta intorno alla porpora. Il nome Fenici, popolo rosso, veniva da lì, dal colore estratto dai murici. Bisognava pescarne migliaia ogni giorno, poi occorreva frantumare le conchiglie, estrarre il mollusco, farlo macerare e quindi diluire il pigmento con l’acqua marina. Assieme ai tintori, erano vetrai, orefici e armaioli a produrre beni da esportare. Mentre a quelli da importare, partendo dai viveri, pensavano i marinai. Come a Sidone, Biblo, Acco e Berito (Beirut).
“La Fenicia è una ghirlanda di piccoli porti addossati alla motagna, situati su penisole e piccole isole, come se volessero mantenersi estranei a un continente troppo spesso ostile”, scrive Braudel ne “Il Mediterraneo”. Gente “condannata a utilizzare il mare a qualsiasi costo”, aggiunge più avanti, “perché minacciata alle spalle da giganteschi imperi”. E che proprio per questo, senza mai coltivare delle vere ambizioni statuali, fecero dell’esplorazione e del commercio verso Occidente la propria ragione di vita. Fondò scali marittimi e colonie in Nordafrica, Sicilia, Sardegna e Spagna. Prima di Greci e Romani. Quindi, non paga, oltrepassò le Colonne d’Ercole.
Di questa vocazione fenicia per l’Occidente restano tracce nel mito greco-romano, come quello di Europa rapita da Zeus sulla spiaggia di Tiro per essere condotta al di là del mare. E bisogna iniziare proprio da qui se si vuole capire chi sono i libanesi e imparare a prenderli per il verso giusto: loro si sentono fenici, nel senso che non amano venir confusi con gli arabi. E come i fenici diffidano dei popoli vicini, ritenuti incolti e ingombranti, che poi è uno dei motivi per cui dall’antichità continuano a migrare verso l’Europa e l’America, a sentirsi cittadini del mondo.
Anche Kahlil Gibran, poeta (1883-1931), era un libanese cittadino del mondo, nonostante fosse nato in un villaggio sperduto dell’impero ottomano. Emigrò dodicenne in America, dove rimase praticamente tutta la vita; anche se i libri che scrisse ci parlano tutti in qualche modo delle cime innevate del Libano (laban in ebraico significa bianco), ai cui piedi volle infatti tornare da morto. “Il Profeta” uscì a New York nel 1923, il Libano allora era sotto mandato francese. Una raccolta di sermoni in prosa poetica, per uomini liberi e giusti. Dove in filigrana, tra i precetti di Gesù, Maometto e Mosè, s’intravede il destino del nuovo paese che già profuma di indipendenza.
Il protagonista è Almustafa, l’eletto, il quale prima di imbarcarsi sulla nave che lo riporterà in patria, parla di vita, morte, fede e passione alla folla riunita sul molo per l’ultimo saluto… Usa un linguaggio nuovo, a metà strada tra Zarathustra e Siddharta e assi avanti rispetto ai tempi. Che durante la controcultura degli anni Sessanta avrebbe garantito ad Almustafa una popolarità pari a quella del suo Libano ormai plurimo e indipendente, il quale grazie a un sorprendente sviluppo economico si era guadagnato nel frattempo il titolo di Svizzera mediorientale.
L’illusione finì nel 1975, con il bagno di sangue della guerra civile. Dopo di che, divenne chiaro a tutti che quello staterello immaginato da un manipolo di orientalisti alla Sykes e Picot non era fatto per reggere l’urto del tribalismo religioso che il venir meno del contenitore ottomano aveva inevitabilmente resuscitato.
Eppure Il Profeta aveva previsto ogni cosa. Non per nulla si era scagliato contro tutte le religioni organizzate e tutte le nazioni settarie e intolleranti. “Sventura al popolo che brandisce mille e una credenza ma non ha alcuna fede” tuona Gibran. “Sventura alla nazione divisa in cui ciascuna parcella rivendica il nome dell’intera nazione” insiste. Il che, a ben vedere, annuncia non solo le identità assassine, maronite, ortodosse, druse, sciite e sunnite, corresponsabili della discesa agli inferi libanese; ma anche quelle dell’intero Oriente mediterraneo, dove una dopo l’altra, nel giro di alcuni decenni, città orgogliosamente levantine come Salonicco, Smirne, Cairo e Alessandria, sarebbero state costrette a rinnegare se stesse dai nazionalismi greco, arabo e turco.
L’ideale levantino si basava sull’illusione che si potessero bloccare i demoni tribali alle porte delle città. Si era diffuso a Beirut dopo la rivoluzione industriale, grazie ai battelli a vapore e al commercio della seta. E i suoi adepti, che secondo T. E. Lawrence somigliavano agli enciclopedisti che avevano preparato la rivoluzione francese, lavoravano come Gibran per amalgamare le antiche culture orientali con le giovani culture occidentali. Ma l’esperimento fallì, come racconta Amin Maalouf nei suoi magnifici libri. Ed è per questo che oggi, dopo un lento ma inesorabile declino, Beirut si ritrova persa dentro una notte di cui non si riesce a intravedere la fine, dove non brillano né luna né stelle.
I governanti libanesi, da buoni fenici, continuano a dare la colpa ai vicini, che secondo loro starebbero strangolando il Paese. Per carità, è innegabile che gli sceicchi del Golfo abbiano chiuso il rubinetto dei soldi, per via che al Gran Serraglio si preferisce flirtare con gli Hezbollah filo-iraniani. Come è innegabile l’impatto del conflitto siriano e della moltitudine di rifugiati che da quel paese si sono riversati su quelli vicini. Ciononostante, è impossibile non vedere le colpe di una classe politica divisa e litigiosa, che non è in grado di prendere decisioni, paralizzata da ricatti e veti incrociati come se la guerra civile non avesse insegnato nulla.
Insomma dalle parti di Beirut dominano tribalismo, fanatismo, ignoranza… E oltre al caos politico e finanziario, cresce anche quello sanitario ed ecologico, con la città ridotta a un ammasso di bitume e immondizia. Mancano lavoro, elettricità, vaccini… E la gente non sa ancora se il governo riuscirà a organizzare elezioni in primavera o a scongiurare in extremis la bancarotta tramite il Fondo monetario. I libanesi per bene sono rassegnati, umiliati. Molti, sperando in un visto, fanno la fila davanti ai consolati stranieri, tenendo per mano i propri bambini. Verrebbe da dir loro che il tempo dei Fenici è finito per sempre, che fare rotta verso Occidente non ha più nulla di glorioso.
Ma poi in uno di quei bambini rivedi il piccolo Gibran dodicenne, e allora ti rendi conto che la storia, in Libano, ha appena ricominciato il suo giro.
Fernando Gentilini
L’articolo è stato pubblicato ne “La Repubblica” di venerdì 31 dicembre 2021, alla pag. 42-43