Il linguaggio di Mussolini. Credere, Obbedire, Comunicare
Mussolini fu sempre molto attento al potere della parola. Oggi che il linguaggio politico è tornato ad essere muscolare, lo storico David Bidussa analizza i discorsi del Duce in un libro.
Nel “ Venerdì” di Repubblica del 10 maggio 2019 Marco Bracconi intervista, alle pp. 104-107, lo storico David Bidussa, autore del saggio “Me ne frego”, Chiarelettere, pp. 144, € 12.
Milano. C’è un posto in città dove la Storia si legge su tutti i muri. “Era tutto qui: la redazione dell’”Avanti”, diretto da Benito Mussolini, il palazzo dove il futuro duce guiderà “Il Popolo d’Italia”, la prima sede dell’Umanitaria, la Camera del Lavoro, la trattoria di via Cerva 23 dove si riunivano i futuristi e gli arditi. In questo chilometro quadrato ci sono gli spiriti e gli spettri di quello che diventerà di lì a poco il nostro Ventennio”. David Bidussa ci ha dato appuntamento davanti alla biblioteca Sormani, a due passi dal Duomo, perché in questo fazzoletto di strade, un secolo fa, nulla è stato per caso. Anzi. “Ho deciso di curare un’antologia di scritti mussoliniani perché non usciremo dall’equivoco del “fascismo buono” se non ci rimettiamo davanti a quei discorsi e a quegli articoli. Bisogna indagarne i meccanismi, scoprirne la struttura. Insomma, a partire da quel linguaggio”.
L’Antologia in uscita per Chiarelettere si chiama “Me ne frego”, e Bidussa la definisce in modo chiaro fin dalle prime pagine: il suo commento di storico è ridotto all’osso, parlano soprattutto i testi. E non dicono poco. Rivelano intanto un Mussolini drammaticamente moderno, di fatto il primo a capire che la politica di massa e dei suffragi universali sta cambiando tutto. “Non gli serve un’ideologia di supporto per produrre un linguaggio. Capisce che può fare anche il contrario. Cambiare il vocabolario politico, su questo vocabolario appoggiare un nuovo sistema e infine costruirci sopra un’ideologia. E non esita a farlo”.
Bidussa, che una decina di anni fa aveva fatto analoga operazione con gli scritti di Antonio Gramsci, è convinto che il rapporto diretto con i testi aiuti a scrostare il senso comune accumulatosi nel tempo attraverso la lente sempre deformante delle ideologie. “Uno di questi luoghi comuni è l’idea di un Mussolini abile trascinatore di folle ma scarsino sul piano dell’elaborazione culturale. Invece non bisogna farsi fuorviare dall’immagine del duce mietitore a torso nudo o di certe pose militaresche. Quella è la facciata di un regime ormai in atto. Il capo del fascismo è un giornalista che conosce molto bene il potere della parola e lo sa usare altrettanto bene. Non solo. E’ un uomo che ha letto per bene i libri che servono alla politica, dai testi degli utopisti a Carlo Marx. Li manipola ai suoi fini, certo. Ma li conosce assai bene, come dimostra il discorso sul Valore storico del Socialismo, che ho inserito nell’antologia”.
Dello stesso anno, il fatidico 1914, sono i due articoli sulla guerra e la neutralità che segnano la svolta. Il primo, Mussolini lo scriverà in ottobre dalla scrivania di direttore dell’Avanti, proprio nella strada dove ci troviamo adesso, in quella che una volta si chiamava via Damiani, davanti alla lapide che ricorda la devastazione della sede dell’Avanti; il secondo lo vergherà il mese dopo dall’ufficio del Popolo d’Italia, il giornale da lui fondato dopo la rottura con il partito socialista. “Qui la retorica mussoliniana è già posta nei suoi fondamenti. Tutti. E siamo solo nel 1914”.
La domanda che Mussolini si pone in quel momento decisivo è semplice: se abbatto l’intero sistema precedente, su quali basi poggio il mio discorso politico? La risposta del futuro capo del fascismo è altrettanto, apparentemente, semplice. Si chiama azione. “L’agire in quanto tale è la risposta alla crisi dei grandi partiti, percepiti dal popolo italiano come statici e incapaci di decidere alcunché”. Il fatto conta più del libro, dunque. Lo scrive lui stesso, sapendo però che ciò ancora non basta a rovesciare il tavolo dei liberali e dei suoi ex compagni socialisti, quelli che nel famoso “discorso del bivacco” del 1922 chiamerà Signori al posto di Colleghi o Deputati. Sette anni prima, quando strappa verso l’interventismo, sa bene che alla torsione dall’Internazionale alla Nazione va aggiunta una declinazione tutta nuova del nazionalismo. “Non lo inventa certo lui, il nazionalismo europeo. Però è lui a strutturarlo come risposta a una minaccia esterna, che appunto giustifica l’azione. Nazione-minaccia-azione, così il cerchio si chiude”.
E la violenza? Nella selezione di testi di Bidussa l’exemplum perfetto è il discorso parlamentare che segue il delitto Matteotti. Siamo nel gennaio del 1925 e lo storico lo spiega così: “L’assunzione provocatoria della responsabilità politica delle violenze fasciste arriva dopo aver già rivendicato il diritto della politica a restringere, se necessario, la libertà. Lo schema retorico è ormai fissato. Mussolini pone il suo discorso pubblico oltre il vecchio codice, che nel frattempo ha delegittimato. Adesso, fuori da quel perimetro, mentre costruisce il suo discorso, può dire quel che vuole. Anche minacciare di trasformare l’aula in un bivacco di manipoli”.
Fischiano le orecchie al presente? Un po’ sì, e non a caso in una Milano svuotata dai ponti ci dirigiamo verso piazza Duomo, dove in 70mila hanno appena festeggiato il 25 aprile. Però Bidussa non condivide l’ansia per un nuovo fascismo. Si sbaglia la mira, dice. “Il paragone con l’inizio del secolo regge solo se mettiamo a confronto gli schemi della crisi. Da quel punto di vista siamo di fronte a forti analogie, l’agonia della rappresentanza innanzitutto. Ma bisogna fare attenzione. Lo stesso modello di crisi non vuol dire che gli esiti si ripropongano uguali a se stessi. Pensate a Lenin e a Mussolini. Così diversi, eppure entrambi figli di quegli anni”.
Che questa Storia abbia i suoi ricorsi è però un dato di fatto. Come inquietano –e molto- le parole sulla massa che Bidussa ha voluto inserire nell’antologia: “Per Mussolini la massa è materia inerte, sottoposta all’azione delle minoranze agoniste e audaci, i veri arbitri della Storia. Sono dunque le ali estreme che vanno mobilitate, consapevoli che il resto del corpaccione sociale verrà da sé”. E’ un modello che somiglia in modo impressionante al gioco della politica in Rete, dove non si gioca al centro ma si eccitano le minoranze. Un altro cerchio che si chiude, perché se è il vocabolo azione a definire il campo della nuova politica, la parola violenza diventa –come libertà– strumento malleabile in mano al potere.
Il linguaggio stesso, svicolato dal politicamente corretto delle grandi tradizioni politiche, si fa maneggiare senza vincoli: “E’ così che Mussolini riesce a creare una narrazione nella quale può risultare credibile essere insieme élite e popolo, rivoluzionari ma anche conservatori, laddove conservatori vuol dire preservare lo spirito della razza italiana davanti alla “molliccia futilità della vita moderna”. Ciò che prima non poteva convivere, dunque, ora può. Grazie appunto al linguaggio che ha fatto “tabula rasa” delle categorie precedenti. Così un sistema politico fondato su azione, volontà e audacia può tranquillamente applicarsi, come dirà ancora nel ’23, ad un’Italia che si vuole “calma e laboriosa”.
Da qui alla fondazione ex novo del mito fascista il passo è breve. Nel discorso di Pesaro, che Bidussa recupera dal Popolo d’Italia del 19 agosto 1926, Mussolini lo presenta con uno dei suoi più efficaci esercizi retorici: “Il Fascismo non è soltanto un partito, è un regime, non è soltanto un regime, ma una fede, non è soltanto una fede ma una religione che sta conquistando le masse lavoratrici”. Per giustificare questa Chiesa e la sua presa d’acciaio sul potere (e sulla libertà del popolo), può venire utile anche forzare la mano al Machiavelli, come ha già fatto scrivendo nel 1924, dalle pagine di “Gerarchia”, scrivendo il suo Vademecum per l’uomo di governo. “Il discorso mussoliniano non segue una deriva nel tempo, è già completamente formato prima del ’29. Ed è solo rileggendo i testi nudi e crudi che lo si comprende fino in fondo”. Quei testi che ci dicono quanto fosse chiaro, nella mente del futuro duce, il nucleo linguistico da cui nascerà la dittatura e da cui scaturisce, in fondo, ogni totalitarismo. Costruire la categoria di anti italiano e assimilarla a quella di antifascista. Il resto, la massa amorfa, non potrà che seguire.
Marco Bracconi