Mille anni di cataclismi climatici
Nel Medioevo la Terra visse forti oscillazioni di temperatura, anche se non rapide come oggi. Nel V° secolo comincia una glaciazione e il caldo torna solo verso il Mille. Nel 1300 alluvioni e siccità flagellano Europa e Asia. Il XVI° secolo è un’epoca di inverni rigidi. Anche il meteo condiziona la storia.
Ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera dell’ 8 agosto 2021, lo storico Amedeo Feniello scrive un interessante articolo sui mutamenti del clima nei duemila anni che separano l’impero romano dai nostri giorni e dalle nostre preoccupazioni.
Il nostro Pianeta. Tutt’altro che regolare nelle sue oscillazioni climatiche. Una piattaforma instabile, pure nel breve periodo. Che cosa sono infatti per la storia della Terra un migliaio d’anni? Niente. Meno d’un soffio. Eppure, in questo lasso di tempo che appare lunghissimo per la vita di un uomo, ma meno che un sussulto per la vicenda del globo, può accadere davvero di tutto. Prendiamo ad esempio gli anni che intercorrono tra la fine dell’impero romano e l’inizio della rivoluzione industriale. Se si pensa al clima, sono secoli di continui cambiamenti. Con tante, mutevoli, variabili. Dove, però, a differenza di oggi, l’azione dell’uomo fu del tutto irrilevante.
Le cause, allora. La meccanica orbitale è una di esse: bastano piccole, lievi variazioni nell’inclinazione e nella rotazione della Terra attorno al suo asse per modificare la quantità e la distribuzione dell’energia che arriva dal Sole. Forzature orbitali, come vengono definite, che hanno creato interludi glaciali durati millenni. Il Sole stesso, poi, è molto meno costante di quanto si immagini. Ogni tanto si ammala -il ciclo delle macchie solari è solo uno dei suoi tanti capricci- e la sua azione può rallentare, con picchi minimi di irradiazione, o viceversa, aumentare gli effetti.
Ma anche il nostro pianeta agisce direttamente su se stesso: pensiamo ai giganteschi fenomeni di teleconnessione atmosferica in cui l’azione degli oceani si coniuga con quella dell’atmosfera, come el Nino e il suo corrispettivo femminile, la Nina. Oppure al jet stream, la corrente a getto di cui si sta parlando proprio in questi giorni, quella stretta fascia di venti che viaggia tra i 7 e i 10 km di altezza dal suolo che ha il ruolo di pilotare le perturbazioni e di generare campi di alta e bassa pressione che possono subire rapidi mutamenti rispetto al loro flusso costante. Poi c’è l’attività vulcanica, con fenomeni che possono impattare violentemente sul clima, innescando impreviste manifestazioni tanto di riscaldamento delle acque oceaniche quanto di rilascio negli strati più alti dell’atmosfera di una pellicola sottilissima di solfati di aerosol capace di schermare i raggi solari, impedendo loro di entrare nell’atmosfera.
Questi alcuni fattori. Che piano piano vengono decodificati dalla climatologia, una branca scientifica giovane e in continuo sviluppo, che tenta di districarsi in una matassa difficile da dipanare, considerate le mille implicazioni e le tante convergenze di elementi disparati. Scienza che sta consentendo però di scrivere la storia del clima del nostro pianeta: non uno scenario inerte, ma capace di condizionare la vita dell’umanità.
In questi duemila anni sono stati proprio gli antichi Romani ad essere i più fortunati da un punto di vista climatico. L’impero raggiunse infatti la sua massima espansione e prosperità nel periodo tardo-olocenico chiamato appunto Optimum climatico romano: un’epoca contraddistinta da una fase di clima caldo, umido e stabile. Situazione favorevole che si trasformò in una “silenziosa forza cooperativa”, come scrive lo storico americano Kyle Harper, che contribuì al rafforzamento agricolo e produttivo dell’impero. Dalla metà del II° secolo, però, le cose cominciano a cambiare, con una serie di shock ambientali. Tra il 150 e il 450 d.C. l’instabilità del clima mise alle strette le riserve energetiche dell’impero. Mentre, dalla fine del V° secolo, comincia la Piccola Glaciazione della Tarda Antichità, con un periodo di forte attività vulcanica che si esprime in tutta la sua virulenza negli anni Trenta e Quaranta del VI° secolo, che innesca il periodo più freddo di tutto il Tardo Olocene.
E’ l’epoca dei secoli bui, della regressione sociale e politica, almeno per la zona occidentale del pianeta (ma non per il mondo arabo, ndc), che si protrae più o meno fino al X° secolo, il momento di partenza della cosiddetta anomalia climatica medievale che dura fino alla fine del Duecento. Un’oscillazione di tre secoli, dovuta a due eventi di maggiore impatto: una diminuzione delle attività vulcaniche tra il 960 e il 1000 e un’azione più energica del Sole (great solar maximum), in grado di mettere in movimento le grandi pompe oceaniche regolatrici delle temperature dell’acqua e delle circolazioni atmosferiche. Con un riscaldamento globale di uno o due gradi in media, con punte, nel profondo Nord, di quattro gradi. Un periodo di inusuale clima relativamente caldo che coinvolse in modo particolare gran parte dell’emisfero settentrionale, dall’America del Nord alla Cina.
Il fenomeno ebbe effetti straordinari, sebbene eterogenei da una zona all’altra. Nell’estremo Nord i ghiacciai si sciolgono. Regioni fino ad allora impenetrabili come l’interno della Russia, l’Islanda, la Groenlandia, il nord del Canada diventano accessibili. In molte zone uomini e coltivazioni si spostano verso settentrione e verso l’alto. Nuovi tipi di grano si installano in Scandinavia e in particolare in Norvegia. L’uva cresce in Inghilterra diverse centinaia di km più a nord rispetto ai limiti attuali. Piante subtropicali, come il fico o l’olivo, trovano spazio in regioni come la Germania o l’Italia settentrionale. I ghiacciai arretrano. Dall’Oceano Indiano fino al mar della Cina il ciclo dei monsoni assume una maggiore regolarità dopo un lungo periodo di squilibri. Condizioni che influenzano l’ambiente, le colture, la vita quotidiana.
Beninteso, le cose non è che andarono sempre bene e dappertutto. Ma, in generale, il clima mantenne un suo assetto più o meno stabile, con effetti evidenti sul balzo demografico a livello planetario. Fino a una data-simbolo: il giorno di Santa Lucia, 13 dicembre, del 1287, quando una terribile inondazione si abbatté su un vasto litorale che andava dalle coste inglesi a quelle delle attuali Olanda e Germania. Le onde tumultuose del mare del Nord invasero terre, abbatterono dune, seppellirono villaggi, distrussero dighe. Si parlò di 30mila morti e, all’indomani della catastrofe, il profilo delle coste fu così stravolto da dare vita al gran golfo dello Zuiderzee nei Paesi Bassi. Una tempesta perfetta causata dall’incontro tra una massa di alta pressione che sorvolava la Scandinavia e due depressioni: la prima che risaliva verso il mare del Nord, la seconda verso la Scozia, con una forza del vento poderosa, immaginiamo di più di dieci nodi, e un crollo della pressione dell’aria di centinaia di millibar.
Comincia così una nuova fase depressiva, preludio della Piccola Era Glaciale. I vulcani tornano a ruggire, con un’eruzione tra le più violente, quella del 1257 del vulcano Samalas, nell’isola di Lombok in Indonesia. Ma altre ve ne furono nel 1269, nel 1276, nel 1286.
Il Sole, intanto, si ammala un po’. E’ il cosiddetto wolf solar minimum, cioè l’energia emessa dalla pila solare rallenta: uno dei tre minimi che marcano il periodo che va dal Trecento al Seicento. Le temperature globali precipitano. Gli squilibri aumentano a dismisura, con l’alternarsi di lunghi periodi violenti di pioggia a fasi di perdurante siccità. Con eventi estremi che feriscono per l’inaspettata violenza. Ad esempio, il primo novembre 1333 un vero diluvio colpisce Firenze, il Casentino, la piana di Arezzo, la parte superiore del Valdarno, la Romagna, il Lazio, l’Umbria. Un disastro che solo a Firenze uccide più di 300 persone. Nel biennio 1342-1343 la sequenza di sciagure che colpisce la fascia che va dalla Lombardia alla Svizzera alla Germania fu terribile, con lo straripamento di laghi e fiumi, tra cui il Danubio. Stessa storia in Inghilterra, dove il 15 gennaio 1362 tutta l’area sud-orientale viene colpita da una violenta tempesta, con danni enormi a Londra e nelle zone più popolate del Paese.
Non sono diverse le condizioni all’altro capo del mondo: le inondazioni che si alternano a siccità segnao il destino di Angkor Vat in Cambogia, del regno di Shrivijaya a Sumatra e delle capitali buddhiste dello Sri Lanka e Anuradhapura e Polonnaruva. In India si registrano tremende siccità, come quella lunghissima di Durga Devi, che colpì il Deccan e durò dal 1396 al 1408. In Cina il maltempo flagella in continuazione il Paese al punto che, tra il 1300 e il 1399, si contano sessanta tifoni, alcuni con onde alte più di 30 metri mentre, in un caso, l’acqua penetrò fino a 280 km dalla costa.
Nel Cinquecento si espande la Piccola Era Glaciale. A molti osservatori il Sole appare spesso pallido oppure più rosso del solito, come velato da una coltre di polvere, verosimilmente a causa dell’incremento delle eruzioni vulcaniche. Fatto sta che temperature precipitano e si attestano su una media di due gradi in meno rispetto ai livelli registrati nel XX° secolo.
La prima ondata di inverni glaciali, estati piovose o funestate da terribili grandinate avviene nella seconda metà del secolo. I danni all’agricoltura sono tali che i livelli di produttività del 1570 vengono recuperati quasi due secoli dopo, nel 1750, quando le curve delle temperature cominceranno a risalire. La natura cambia verso. Gli oceani si raffreddano. Ai rigori dell’inverno subentrano stagioni senza estate. L’Europa, come scrive il drammaturgo Christopher Marlowe nel “Tamerlano”, sembra diventare il luogo “dove il sole si nasconde / tra gelide meteore e freddi ghiacciai”. Ma è dappertutto così: le cronache di ogni parte del mondo rimandano a siccità, ad aberrazioni climatiche, a piovosità estreme, a gelate improvvise.
Si poteva attraversare a cavallo, sul ghiaccio, il Danubio a Vienna, il Meno a Francoforte, il Reno a Strasburgo. Tra il 1683 e il 1684 sul Tamigi si installano fiere e baracconi. Il Baltico gelò così tanto che, nel 1658, l’armata svedese, con la sua artiglieria, marciò sul ghiaccio per 20 miglia dallo Jutland per lanciare un attacco a sorpresa su Copenaghen. La laguna veneta ghiaccia. Il mare davanti a Istanbul pure. In Egitto nel 1670 nevica, mentre in Cina la furia delle piogge è tale che, nel 1640, il livello raggiunto fu di mezzo metro superiore a quello della disastrosa inondazione del 1588.
La Piccola Era Glaciale si chiude, secondo i climatologi, nel 1816, l’ultimo “anno senza estate”. A scatenarlo, l’esplosione del vulcano indonesiano Tambora, capace di proiettare in aria una montagna alta 1500 metri, con un’esplosione che fu sentita fino a Giava, a 1250 km di distanza, che generò uno tsunami tremendo con onde alte quattro metri che colpì gran parte dell’Indonesia. Nei mesi seguenti, milioni di metri cubi di cenere sospesi nell’atmosfera rifletterono la luce del Sole, provocando quella che Blom definisce “una sorta di inverno nucleare durato un anno intero”.
Con questo episodio terminano, ancora una volta simbolicamente, gli oltre mille anni di questa breve storia climatica, fatta di estrema variabilità, picchi, ascese, cadute, optima climatici, piccole ere glaciali. E inizia la nuova fase dell’Antropocene, con l’incombente, e per molti versi senza controllo, azione dell’uomo sull’ambiente. Con le conseguenze drammatiche che stiamo vivendo anche in questa pazza estate.
Amedeo Feniello