Il mistero Velàsquez
In un saggio Tomaso Montanari ripercorre l’opera del geniale pittore spagnolo che portò a livelli sublimi l’arte del ritratto. Pittore del re dal 1623, dipinge i regnanti in serie che sembrano nature morte. Ma dell’uomo si sa ancora pochissimo. Un enigma.
Pare che la casa sivigliana nella quale si ritiene sia nato Diego Velàsquez sarà presto trasformata in museo. E’ un modesto edificio di due piani color senape con sopra una minuscola targa che più laconica si muore: “Velàsquez Casa Natal”. Stop. Anni fa mi ero soffermato a scrutarne la facciata quando notai una vecchia che in piedi accanto alla porta mi fissava fumando. Le sorrisi: “Una casa così piccola per un artista così grande, eh?”. “Già” disse lei. “Una targa così piccola per un artista tan grande” rilanciai. “Già” disse la vecchia.
Poi scagliò a terra il mozzicone e sparì senza una parola, trascinandosi dietro il suo mastodontico fatalismo andaluso. Di quella rassegnazione così antica, e per molti versi così saggia, è perlomeno difficile trovare riflesso nella traiettoria del siviglianissimo, ma ambizioso Velàsquez. Certo, qualche biografo gli ha attribuito un temperamento malinconico ai limiti dell’indolenza, ed è anche sulla base di quel presunto tratto caratteriale che fiorì fino a lussureggiare la leggenda del genio triste, recluso in una corte decadente e bigotta, paurosamente asfittica rispetto alla sua grandezza d’artista. Ma, per quanto suggestiva e dura a tirare le cuoia, si tratta pur sempre di un’immaginetta romantica del tutto campata in aria. Se non altro perché, a oltre tre secoli e mezzo dalla morte, 6 agosto 1660, sulla psicologia, sulla personalità privata di Diego Velàsquez continuiamo a non sapere praticamente nulla. Buio fitto. Nei primi anni ’60 l’insigne specialista spagnolo José Camòn Aznar annotava con accenti di sconforto: “Questa esistenza riservata e distante non può essere oggetto di biografia. Non vi succede niente”. Un paio di decadi più tardi, l’altrettanto autorevole studioso statunitense Jonathan Brown, che pure si era avventurato a ricostruirla nel saggio “Velàsquez: pittore e cortigiano”, ammoniva: “Una biografia di Velàsquez è estremamente difficile da scrivere, mancano i documenti che permetterebbero di esaminare la sua vita intima. In assenza di tracce sui suoi sentimenti, riflessioni, reazioni, è arduo capire che tipo d’uomo fu l’artista”. L’opera non aiuta: enigmatici quant’altri mai, è come se i suoi dipinti stendessero sul mistero una seconda, se possibile più densa, mano di mistero.
“Amazingly mysterious painter”, pittore incredibilmente misterioso, così Velàsquez veniva definito da Francis Bacon, che nel Novecento lo venerò fino all’ossessione. Lo ricorda Tomaso Montanari in apertura del suo “Velàsquez e il ritratto barocco”, in uscita da Einaudi. Non è una biografia, ma un viaggio non meno periglioso e avvincente in quella matassa di sperimentazioni, influssi, segreti, emozioni ed eversioni che è l’arte di DV –specie nella ritrattistica. Che, secondo Montanari, in Velàsquez è genere sui generis, perché finisce con l’inglobare tutti gli altri: i soggetti storici, mitologici o religiosi, i paesaggi come i bodegònes, cioè le nature morte alla spagnola. Tutto si ritrattizza. Agli inizi dello stesso secolo il Chisciotte non aveva fatto forse qualcosa di analogo in letteratura, con la forma-romanzo che, al suo esordio, cannibalizza quelle tradizionali (poesia, teatro, cronaca, trattato…) inghiottendole nel proprio corpaccione?
Sin dal primo capolavoro, L’acquaiolo di Siviglia (1621), Velàsquez raggiunge quella che sarà la cifra dei grandi ritratti a venire: da un lato, con un uso scultoreo della luce, parifica ponendoli su un unico piano egualitario uomini, oggetti, animali, abiti… Dall’altro li “individualizza”, li scorpora da qualsiasi idealizzazione per restituirne l’unicità. Nelle sue tele non siamo mai in presenza di un re, un uovo fritto, un Papa, un nano, un ministro, un cane… Ma sempre di quell’uomo, di quell’uovo fritto, di quel cane ecc. “Se Velàsquez si fosse occupato di filosofia”, rifletteva lo storico Carl Justi, “avrebbe certo presa decisa posizione a favore del nominalismo. Egli era insensibile al generale e non avvertì la minima necessità di dargli forma. Gli uomini, oggetto supremo dell’arte plastica, gli apparivano come individui: per Velàsquez l’”individuum” era la sostanza prima”.
In questa sua “tremenda capacità di reificare”, vale a dire di calcificare gli uomini come fossero cose, ma esaltandone la singolarità, Velàsquez dà prova, dice Montanari, di aver assimilato il “nocciolo duro della rivoluzione caravaggesca”, “l’eversivo abbattimento della gerarchia contenutistica dei generi”, la definitiva emancipazione dai canoni della verosimiglianza, della mimesi: la pittura ormai non rifà simile, fa vero. Quando non addirittura Troppo vero! Come si narra che ebbe ad esclamare papa Innocenzo X davanti al celeberrimo, diabolico ritratto che Diego gli fece nel 1650, durante il secondo dei soggiorni in Italia.
Caravaggio, Tiziano (e la sua “sovrumana capacità di conciliare in un ritratto l’estrema sensualità dei valori visivi e un’acutezza introspettiva che rasenta la crudeltà”), più Bernini: è questa la trinità dei numi italiani di Velàsquez (che invece detesta il perfettismo di Raffaello). Diego finirà per surclassarli tutti, immettendo nelle tele il mistero di un’anima, abbinando “una grande introspezione psicologica a una strepitosa capacità di catturare la vitalità”. “Mucha alma en carne viva”, commentò un contemporaneo del pittore, Tanta anima in corpi vivi: “in queste quattro parole è contenuto interamente il miracolo della ritrattistica di Velàsquez”, scrive Montanari. Nelle sue pitture “si avverte sempre il passaggio dell’ombra della vita” notava Bacon.
Al di là delle periodizzazioni stilistiche, c’è una sola vera data decisiva nella vita di Diego Velàsquez: è il 6 ottobre 1623, quando a 24 anni viene nominato “pittore del re”. Da quel momento, il suo compito principale, per non dire pressoché esclusivo, fu quello di ritrarre il sovrano e alcuni membri della corte. Filippo IV, consorti, figli e famigli diverranno un po’ come le bottiglie e i barattoli di Morandi: oggetti di nature morte, ancorché vivissime, ripetute quasi come multipli. Visti in sequenza, tipo qualche anno fa in una mostra al Prado, quei dipinti producono una sorta di effetto allucinatorio: insieme ai ritratti di nani e buffoni, sono il momento più alto ed enigmatico della sua arte. Murati nel loro ruolo come in un destino di cemento, i regnanti diventano figure struggenti. Quel loro spleen non è una proiezione del pittore o di noi moderni. A proposito delle estenuanti sedute di posa cui lo costringeva il pittore, il re scriveva alla sua confidente spirituale Luisa Magdalena de Jesùs: “Non ho voglia di sottopormi alla flemma di Velàsquez, non solo perché la sua lentezza mi sfinisce, ma anche perché non voglio vedermi invecchiare”. E’ nei dipinti di Diego e non guardandosi allo specchio che el Rey Planeta, padrone di mezzo mondo conosciuto, si scopre declinante, caduco, dunque umano. Anche se ne restano non più di una dozzina, i ritratti che Velàsquez fece del monarca furono circa sessanta. Obbligato alla ripetizione, Diego vive a corte come in una gabbia dorata, dice Montanari. Dorata, d’accordo, ma fino a che punto gabbia? Forse è arrivato il momento di sfatare il mito del genio in cattività. Sbarcato nella reggia madrilena da una provincia per niente provinciale –Siviglia è all’epoca la più popolosa e ricca città di Spagna- Diego, sponsorizzato inizialmente dal potente “Primo ministro” suo conterraneo De Olivares, scalerà le più alte posizioni funzionari ali fino a ottenere la nobiltà della Croce di Santiago, quella a forma di pugnale che ostenta in Las Meninas. Insomma una vita di agi, successi, tutt’altro che malinconica e sedentaria, vedi i due lunghi viaggi in Italia, nonché i frequenti spostamenti in patria per il disbrigo delle regie faccende. Compresa l’organizzazione nei Paesi baschi dell’incontro nuziale tra l’infanta Maria Teresa e il futuro Re Sole Luigi XIV, una faticaccia che gli avrebbe procurato l’infarto fatale, a 61 anni.
Quegli incarichi danneggiarono la ricerca di Velàsquez? Di sicuro lo assorbirono parecchio. Ma non è detto che l’arrembante Diego se ne lamentasse più di tanto. E’ immaginabile che soffrisse del fatto che, a differenza dell’Italia, la pittura non avesse ancora conquistato in Spagna la dignità di arte liberale. Però le lunghe sessioni di posa dimostrano come il tempo non gli mancasse. E se molti dipinti sembrano incompiuti, rimasti allo stato di bozzettoni non è per la fretta di passare ad altre occupazioni, quanto per deliberata audacia stilistica. Con voluta economia di mezzi –esigua varietà di tinte, poche pennellate, scarsa massa di colore- Velàsquez opera nel suo studio dentro l’Alcàzar madrileno con il massimo di libertà –condizionata- alla quale un artista del suo tempo possa aspirare. Scialbo, mezzo baciapile e mezzo debosciato: del suo dominus Filippo IV si è detto tutto il male possibile, ma anche quella leggenda nera, o grigia, andrebbe ridimensionata. L’ultimo degli Asburgo di Spagna non sarà stato un campione di carisma, però permise a Velàsquez di diventare Velàsquez, lasciando libero corso alla sua pittura anti-aulica, psicologica, non anti-religiosa, sarebbe stato troppo, ma più filosofica che teologica o men che meno mistica. Quasi scientifica. Dopotutto l’epoca è quella dell’avvento delle scienze moderne e il suo atélier ha qualcosa del laboratorio sperimentale.
Per indovinare la personalità di Diego, tipo schivo, i documenti più utili sono alla fine gli inventari di quanto aveva in casa. Appesi ai muri c’erano un nudo di donna –magari simile alla sua scandalosa Venere che fino a Goya sarebbe rimasta l’unica fanciulla svestita nella pittura spagnola- ma anche immagini religiose, forse a uso della devota moglie Juana. La religione è invece sostanzialmente assente tra i 56 libri ritrovati nella biblioteca. Nella lista dei volumi, una quarantina in italiano, dominano i testi di medicina, anatomia, architettura, matematica e naturalmente arte. Quella che dopo di lui non sarebbe stata più la stessa. Come, tra gli altri, avvertì E. Manet, il quale lo avrebbe definito “pittore dei pittori”. Mica esagerava.
Marco Cicala
L’articolo è apparso nel “Venerdì di Repubblica” del 9 novembre 2018.