Il nostro rapporto con il linguaggio
Un nuovo tabù invade il nostro tempo: è il tabù della lettura. Il lamento è unanime: non si legge più, non si acquistano più libri né giornali, non si dedica più tempo alla pratica della lettura. Meglio l’accesso immediato alle immagini, meglio il loro consumo rapido. Sappiamo bene che la lettura non è un esercizio facile; implica pensiero, applicazione, concentrazione, solitudine. Un libro non è un programma televisivo; leggere implica la pazienza del tempo, non risponde al consumo senza filtri dell’immagine.
Ma cosa accade quando leggiamo? Prendiamo le cose alla loro origine. Per leggere bisogna ovviamente conoscere la lingua nella quale il libro è scritto. Ma qual è stata la nostra prima lingua? La prima lingua non è stata quella di cui si nutre a prima vista la lettura. La prima lingua non è la lingua nazionale, quella stabilita dal codice del linguaggio, ma una lingua che ha preceduto tutte le lingue e che viene prima di ogni possibile sua storia collettiva. Questa prima lingua precede l’ordine simbolico, condiviso universalmente, del linguaggio. E’ fatta di suoni confusi, di affetti, di stati emotivi, di lettere disgiunte, di impasti di fonemi e spasmi del corpo. E’ una lingua dove il significante non veicola il significato, ma è tutt’uno col corpo di chi parla. Questa lingua prima non conosce ancora le scansioni articolate del linguaggio; si presenta come un magma, una materia indifferenziata e caotica. Questa strana lingua non esce dal corpo come un suo fluido, ma è fatta di corpo; è una lingua che ha un corpo.
Ne abbiamo un esempio evidente nella lallazione del bambino o nei segni pre-verbali che caratterizzano i suoi primi scambi affettivi con il suo Altro. Si tratta di una lingua inarticolata, priva di alfabeto, o –meglio- con un alfabeto assolutamente singolare, privatissimo e incondivisibile. Ciascuno ha la propria perché questa lingua non consente dialogo, comunicazione, trasmissione, in quanto è il risultato della sedimentazione delle tracce mnestiche che hanno costituito il nostro passato più remoto. Lacan la battezza col termine “lalangue” (lalingua), lalingua tutto attaccato proprio per indicare quell’assenza di spaziatura simbolica –di articolazione- che la contrassegna. Ma cosa c’entra lalingua con la pratica della lettura? I libri non sono scritti ne lalingua che è una lingua neologistica, fatta della singolarità delle tracce inconsce delle nostre prime esperienze affettive. I libri sono scritti nel linguaggio stabilito dal codice della lingua nazionale. Eppure lalingua resta la sua brace silente. Perché preferisco leggere Kafka piuttosto di Manzoni? Sanguineti invece di Pasolini? Perché mi interesso delle lingue antiche, del latino o del greco, invece di quelle straniere? Perché, insomma, certe letture mi catturano e altre no? Siamo noi a cercare i libri da leggere o sono i libri che ci trovano?
Il nostro rapporto con il linguaggio è filtrato dal mistero de lalingua. Quando sono davvero impegnato nella lettura non mi limito ad assorbire dei contenuti, delle conoscenze, delle storie. L’incontro con un libro è davvero un incontro solo quando nella lettura non sono tanto io che leggo il libro ma è il libro che mi legge. Ecco una chiave che evidenzia la straordinaria importanza della lettura. Leggere contiene sempre la possibilità misteriosa di sentirsi letti. Ma cosa significa? Accade nella fruizione di ogni opera d’arte; nell’ascolto della musica, nella contemplazione di un quadro o di una fotografia. Sono davvero io che ascolto la musica, che guardo il quadro o la fotografia? Oppure è la musica che mi ascolta, il quadro e la fotografia che mi guardano? Il mistero si infittisce; ma un vero incontro non è sempre qualcosa che ci tocca, che ci prende, che ci afferra? Nella lettura non accade lo stesso? Perché quel libro mi scuote se non perché in esso trovo le risposte o le domande che attraversano la mia vita?
Quando leggo sono innanzitutto letto. La lettura è esporsi ad un’esperienza che può diventare un incontro. Non accade certo quando abbandoniamo la lettura di un libro che troviamo noioso o la terminiamo a fatica. Ma può accadere sempre ogni volta che tra le mani prendiamo un libro.
Cosa ha a che fare tutto questo con lalingua? Lo scrittore degno di questo nome attinge incessantemente al deposito stratificato della sua lalingua; “sintesi passive” direbbe Husserl; storie, profumi, percezioni, parole, canzoni, sapori, memorie remote, immagini, come teorizzava Freud, “indistruttibili”. L’inconscio de lalingua le custodisce come uno sciame di elementi sparsi, frammentati, disordinati, anarchici che riemergono ogni qualvolta lo scrittore si impegna nella sua attività. Ma anche il lettore –se il libro non è solo un sapere che devo acquisire, ma qualcosa che innanzitutto mi legge- si trova, attraverso il libro, confrontato alla propria lalingua. Leggere non è solo conoscere altri mondi, altre lingue al di là della nostra, altre vite, ma è anche incontrare inaspettatamente pezzi staccati della nostra lalingua. Un libro mi legge quando mi risponde, mi chiama, mostra i miei fantasmi, affonda –per qualche ragione obliqua- nella mia lalingua sorprendendomi e rivelandomi quello che inconsciamente sapevo già ma non avevo ancora le parole per dirlo. Per questa ragione una psicoanalista poteva recentemente dichiarare di essersi innamorata del suo uomo guardando la sua biblioteca.
Massimo Recalcati
Articolo pubblicato in “Repubblica”, domenica 2 ottobre 2016, p. 54