Il PD sarà un partito riformista? Il PD sarà un partito? O solo un conglomerato di fazioni e sottopotere?
Introduzione. Nell’ottobre 2007 si svolsero in tutta Italia assemblee in preparazione delle elezioni per le primarie del Partito Democratico. Io partecipai a quella di Bagnoli Irpino (Avellino): discreta affluenza, oratori di qualità, dibattito esiguo. Ascoltai con interesse le diverse posizioni che si esprimevano; quando fu il mio turno per intervenire, al di là di osservazioni per molti scontate, ricordo ancora oggi –a distanza di quasi tre anni- che chiusi la mia dichiarazione di adesione al nuovo partito, atteso da me da molti anni, con una frase apodittica: “Voglio il Pd per utopia e disperazione”. Aveva un senso quella frase? Perché non pensai al pragmatismo indispensabile ad ogni riformismo serio, perché non citai la concretezza di una operazione necessaria dopo il disastro conclamato della pratica di governo dell’Unione? Perché, in definitiva, mi appellavo ancora ad un sogno necessitato? Proverò a rispondere con qualche argomentazione, ricordandomi di un pensiero di Leopardi: “si perviene a una parvenza di verità solo sviluppando, indagando, svelando, considerando, notando le menome cose, e risolvendo le stesse cose grandi nelle loro menome parti” (P. Citati, “Leopardi”, Mondadori, p. 52). E sempre convinto che la politica deve servire a realizzare grandi utopie.
Il moderatismo italiano. E’ quasi un luogo comune riprendere un concetto varie volte ripetuto da molti: “Bisogna rassegnarsi; i risultati raggiunti nel 1996 e nel 2006 (le due vittorie elettorali di Prodi) sono da ritenersi miracolosi perché la società italiana è sempre stata strutturalmente moderata”; e si è attualizzato spesso questo riferimento storico per dare spessore ad una visione disincantata e iperpoliticista della dialettica parlamentare. In effetti è vero. Dopo la sconfitta storica del 1948 la sinistra classica aveva lentamente risalito la china negli anni ’50 ma si era divisa e il PSI aveva accettato la collaborazione di centro-sinistra con la DC e i partiti laici; ancora nel maggio 1968 il PCI aveva preso solo il 25% dei voti. Nel 1976 si era elevato al 34,5% ma era ancora e solo poco più di 1/3 dell’elettorato: non si tentò, allora, di costruire un’alleanza organica col Psi. E questo errore fu pagato duramente in seguito. Moro e Berlinguer avevano provato, invece, a ipotizzare -nonostante l’ostacolo gigantesco della “guerra fredda”- un primo modello di alternanza al governo dei due grandi partiti antagonisti: sarebbe stata la fase che avrebbe fatto seguito, con riforme istituzionali, al periodo del “compromesso storico”. Erano stati però solo movimenti embrionali, brutalmente affossati dai terroristi rossi e dai loro manovratori.
Berlinguer in realtà aveva tentato di più. Sembra non solo a me che egli avesse visto in anticipo il grande riassetto sociale che si profilava all’orizzonte (e che si sta attuando in questo primo decennio del XXI secolo con la cosiddetta “globalizzazione”), ne aveva intuito le conseguenze sulla società italiana, ne aveva colto le decisive implicazioni politiche e istituzionali e aveva deciso che il Partito Comunista doveva porsi alla guida di quel riassetto per garantire che non fossero solo i ceti più deboli a pagarne il costo. La proposta del “compromesso storico”, accompagnata dall’ideologia dell’austerità, rispondeva proprio a questa duplice esigenza: governare insieme al partito cattolico la transizione verso un modello di alternanza politica e introdurre nella cultura e nei comportamenti quotidiani della società italiana i valori di un nuovo modello di sviluppo, centrato sul rifiuto del consumismo eccessivo (l’economia del “compra-godi e butta via”, l’etica della perpetua insoddisfazione), del saccheggio del pianeta Terra con la distruzione progressiva delle risorse naturali, dell’idea stessa di una produzione illimitata di cose. Era un pensiero sviluppista di nuovo modello, imprenditoriale e insieme solidaristico, con una direzione di marcia fondata sui giovani, sulla conoscenza, sulle tecnologie, sulla produzione e redistribuzione equa della ricchezza. Questa proposta fu bollata con giudizi durissimi e stroncature sprezzanti, si parlò di “monachesimo oscurantista”, di cammino all’indietro, di socialismo pre-scientifico e si aprì la strada alla “Milano da bere” di craxiana memoria (proprio il Craxi che aveva rivalutato Proudhon e che stava aprendo un’autostrada ai modelli culturali berlusconiani con le sue televisioni commerciali).
I tormenti del secondo governo Prodi (2006-2008). Alle elezioni del 2006 si era arrivati con un logoramento crescente dell’esperienza berlusconiana di governo, iniziata nel 2001. I risultati delle Regionali del 2005 avevano segnato un netto successo del centro-sinistra ma in campagna elettorale Berlusconi si era battuto come un leone ed era riuscito, alla fine, a recuperare. L’Unione aveva vinto di un soffio e gli equilibri parlamentari erano incerti e traballanti al Senato.
Il perimetro così vasto di una coalizione di centro-sinistra molto eterogenea era certamente stato dettato dalle coordinate di un sistema bipolare fallimentare: era apparso a tutti l’unico strumento praticabile e politicamente competitivo (per vincere, si rivelerà poi, ma non per governare) con l’altrettanto variegata Destra che s’era riunita intorno al predellino del Cavaliere. Per di più era il Porcellum calderoliano, la famigerata legge elettorale, a rendere essenziali e a tenere insieme i massimalisti di estrema sinistra e i malpancisti clientelari e trasformisti di Dini e Mastella, soggetti politici distantissimi per cultura, identità, tradizione, interessi da salvaguardare. Abbiamo visto tutti la sfilata sul palco dei tanti leaderini dell’Unione e lo sbandieramento del programmone faraonico e velleitario di quasi trecento pagine. La folla sotto il palco gridava: “Unità, Serietà, Onestà”, memore del suicidio del 1998. Tutti avvertivano il pericolo e pensavano alla distanza siderale che separava i centristi alla Mastella-Dini dai partiti neo-comunisti; solo la tenacia senza pari, e ai limiti dell’assurdo, di Prodi prometteva di riuscire a tenere in mare la nave dei folli che lo circondavano. Eppure, pur di sconfiggere Berlusconi, ci si illudeva…
Si può fare un bilancio equilibrato dei diciotto mesi del secondo governo Prodi? La valutazione è necessariamente contraddittoria. Da un lato ci sono i dati economici e finanziari. Prodi nel 1998 aveva lasciato l’avanzo primario (il saldo annuale tra entrate e uscite del bilancio dello Stato al netto degli interessi sul debito) al 5,5%; Berlusconi, che nel 2001 aveva aperto la sua seconda esperienza di governo con promesse mirabolanti, l’aveva chiusa nel 2006 con la scomparsa di questo avanzo e l’incoraggiamento all’evasione fiscale grazie ai ripetuti e scandalosi condoni. Nel maggio 2006 il deficit era al 4,3% del PIL (Prodotto Interno Lordo), a fine 2007 eravamo scesi al 2%, la spesa corrente era rallentata, si era ricostituito un 2,5% di avanzo primario, la lotta all’evasione fiscale di Visco aveva fruttato fino a 20 miliardi di € di nuove entrate. Malgrado i numeri barcollanti del Senato, Prodi aveva governato: aveva varato due importanti Finanziarie, recuperato un accettabile risanamento dei conti pubblici, iniziato una politica redistributiva non trascurabile, svolto un ruolo importante in politica estera. Eppure questi risultati non si erano tradotti in un ritorno di fiducia, tutto era stato reso invisibile dalla rissa continua. E’ problema di un certo interesse chiedersi la ragione per cui una serie di risultati sostanzialmente positivi abbiano mutato segno e si siano consolidati nella percezione di un disastro. Sembrava che fossero nati due paesi incompatibili: l’Italia della razionalità economica di Prodi e di Padoa Schioppa e quella angosciata dalle proprie paure, dall’incertezza, dalla sfiducia, mitridatizzata e suggestionata dalla narrazione e dalla propaganda dei media berlusconiani. Dall’altro però il governo Prodi ha avuto la capacità grandissima, in due anni, di scontentare tutti. Colpa delle cose iniziate e lasciate a metà, o addirittura nemmeno intraprese. Vedi la legge sul conflitto di interessi: Berlusca e i suoi se ne dispiacciono e, alla fine, la legge non viene fatta, ripetendo l’errore terribile del 1997; ma anche gli altri italiani che la volevano se ne dispiacciono e ancora oggi piangono per quella trascuratezza. Poi tocca ai Dico: il Vaticano e mezza Italia se ne dispiacciono; alla fine, dei Dico non si parla più, e anche l’altra mezza Italia, che i Dico li voleva, se ne dispiace. Un capolavoro di strategia politica. Eppure il nostro è l’unico paese d’Europa nel quale tre milioni di elettori, iscritti o non, possono scegliere il leader di un grande partito; ed è l’unico del mondo dove cinque milioni di lavoratori, iscritti e non ai sindacati, sono chiamati a votare un accordo col governo (è avvenuto all’inizio del 2007). Non bisogna parlar male dell’Italia.
L’epoca delle passioni tristi. L’Unione si è fondata anche, e soprattutto, sulla scommessa di una coesistenza politica positiva delle due Sinistre, quella antagonista e quella riformista. Hanno fatto parte organica della coalizione di governo i due partiti ex-comunisti (Rifondazione e Pdci) i quali non solo si sono fatti la guerra tra loro ma hanno scavalcato regolarmente il sindacato, pur confortato da referendum vinti con l’81% dei consensi dei lavoratori. Si è dimostrata una contraddizione di fondo nel loro voler essere partiti di lotta e di governo: quello che riesce puntualmente all’eterogenea coalizione di Destra mette in croce e inchioda alla sconfitta l’unione di centro-sinistra. Ci si è illusi con l’idea che oggi la gente partecipi alla politica in tante forme differenti e che si può elaborare una cultura di governo che accetti la contraddizione di partiti che comandano e che nello stesso tempo rappresentano fasce sociali che continuano ad essere sconfitte. Come non rendersi conto che negli ultimi venti anni le strutture (le forze produttive, lo sgretolarsi dei tradizionali blocchi sociali, la scomparsa delle classi tradizionali, il frazionarsi degli interessi) erano completamente cambiate? Si è insistito (dichiarazioni di Ferrero) nel voler tenere insieme le diversità con la giustificazione storica che i danni più grossi sono stati fatti dai comunisti al governo che impedivano il dissenso. Mario Tronti aveva anche scritto che “era necessario un laboratorio comune di cultura politica per le due sinistre, antagonista e riformista. Creare le condizioni affinché le due opzioni, pur nella diversità dei comportamenti politici –programmi, gestione, scelte concrete di ogni giorno- coltivino un terreno comune di critica culturale del modello sociale. Da trenta anni la lotta per l’egemonia è nelle mani della Destra che ha strutturato il paesaggio antropologico e culturale del presente. Occorre ripoliticizzare il cittadino democratico, contro il consumismo culturale televisivo ricostruire il rapporto tra intellettuali e popolo, declinare la laicità in forme non antireligiose”. Vasto e positivo programma, si sarebbe detto un tempo. Belle parole che non sono riuscite a nascondere il perenne desiderio di una certa sinistra minoritaria di tornare alla comoda greppia di opposizione senza responsabilità, al ruolo facile di semplice testimonianza. Così, ad un certo punto della recita, Bertinotti si è convinto che non reggeva più il rapporto tra il vertice di Rifondazione e la sua base; ha scelto l’interesse di partito a scapito della coalizione di governo. Ha recitato quel terribile epitaffio: “di Prodi dico, con tutto il rispetto, quello che Flaiano disse di Cardarelli : “E’ il più grande poeta morente; visse ancora alcuni anni ma gli ultimi furono terribili” (4 dicembre 2007).
In realtà il governo Prodi non aveva mai avuto un vero centro di gravità. La permanente rissosità nella coalizione di maggioranza aveva finito per dare agli italiani la sensazione concreta che il governo non era in grado di governare e che Prodi –divenuto ormai un Re Travicello- fosse travolto da questa situazione, debilitato e reso impotente, perfino sbeffeggiato, dalle microscopiche oligarchie di tanti cespugli. Ma Prodi stesso era ben consapevole della situazione. In un’intervista del 9 dicembre 2007, quasi una risposta drammaticamente seria alle battute paradossali di Bertinotti, egli aveva affermato: “Diciamo la verità, ha ragione Corrado Guzzanti. La mia vita è un semaforo, sono fermo e sto là. Come faccio a vivere in mezzo a stop and go continui? Sinceramente, non li vivo affatto. Capisco che sono parte del gioco. Ma quando si guida si sa che c’è un semaforo. Ci si ferma, poi dopo si riparte. Il problema è fare la strada, non cambiare direzione. Sono tramontate le grandi speranze di un anno fa, bisogna cercare ogni giorno come passare dal rosso al giallo al verde. Io non mi faccio più illusioni sulla coalizione ma sono l’unico ancora in grado di tenere insieme anime destinate prima o poi a separarsi. Litighiamo tanto e da tanto tempo che non permettiamo nemmeno più di sognare. Non rabbia né rassegnazione, provo un disincanto amaro. Non siamo stati capaci di dimostrare che la politica è volontà di uscire dall’egoismo. Accidenti, siamo qui non per farci servire ma per servire i cittadini che permettono a noi politici una vita privilegiata”.
Il paese Italia ha dimostrato di non accettare più questa fatica del governare, il gioco irresponsabile di veti attacchi critiche riserve che hanno paralizzato e affogato nel dissenso il governo di centro-sinistra, fino a farlo sommergere dalla “monnezza” di Napoli. I cittadini pretendono coalizioni coese. Così la violenza della realtà ha sfigurato l’idea che fosse possibile costruire il giardinetto dei radicalismi: il voto del 2008 non solo ha sancito la vittoria di Berlusconi ma ha fatto scomparire dal Parlamento la sinistra estremista.
Gennaio 2008: il governo Prodi è sfiduciato. Si è arrivati alla crisi con una classe politica miope, rissosa, incapace di compiere scelte fondamentali dopo quella realizzata con l’adesione all’Euro, incapacità che destina l’Italia ad essere marginale sullo scacchiere globale. Il paese è sfilacciato, frammentato, ridotto a coriandoli, una nazione sfiduciata. Per di più la gerarchia ecclesiastica cattolica approfitta della crisi per dettare in termini ultimativi la propria agenda di richieste (vedi l’intervento del card. Bagnasco, presidente della Cei, del 21 gennaio 2008). Ci si rende conto con amarezza che per la seconda volta in dieci anni si è sudato lacrime e sangue per diciotto mesi per poi riconsegnare l’Italia a Berlusconi e alla sua corte.
Si verifica così che il capo di un partito dell’1,4%, il Mastella, può annunciare la fine di una maggioranza politica in una conferenza-stampa e poi nel solito salotto televisivo di Vespa, senza prima spiegare al Parlamento le sue motivazioni e senza rendere conto all’opinione pubblica delle sue decisioni. E’ un trasformismo non nuovo: sia Mastella che Dini sono ritornati nella loro casa del 1994; ed è interessante anche quello che avviene nella pattuglia di Dini: “sono in tre e, con una coreografica distribuzione delle parti, voteranno così: Dini no, D’Amico sì, Scalera astenuto” (annota Conchita De Gregorio). Come non sobbalzare! Nel dicembre 2010 la scena si ripeterà pari pari con Calearo e Cesario, transfughi PD, e un certo Scilipoti, profugo dall’Idv, ma solo nell’annuncio, perché alla prova del voto questi ultimi tre daranno compatti la fiducia a Berlusconi.
Il voltafaccia di un partitino a conduzione familiare, radicato nell’area di Ceppaloni, fu commentato con parole dure da Francesco Merlo in un articolo su “Repubblica” del 18 gennaio 2008: “Ho appreso dalle intercettazioni telefoniche che in Campania gli oncologi sono laureati da Mastella e nelle sedi dei partiti. Quale parentela ti garantisce, quale moglie di boss di partito certifica le tue competenze. Dice Mastella, profondamente scandalizzato: “non capisco perché non indagano anche sulle mogli degli altri”. Davvero crede che sia normale scambiare e confondere la propria famiglia con lo Stato. L’Etat c’est ma femme. Questa disperazione ci lascia sbigottiti. Ci smonta l’ingenuità infantile del “così fan tutti”. Non solo egli pensa di fare tutto quello che fanno gli altri, ma pensa anche che sia giusto. Con tutta l’anima crede che la buona politica sia controllare la macchina, surrogare competenze anche di ginecologia, impossessarsi della leva, non stabilire direzioni e marce ma sistemarsi e sistemare nella cabina di comando i propri familiari, il proprio clan, la propria tribù. “E’ possibile che noi dell’Udeur non abbiamo un ginecologo?”. E’ disperante perché neppure gli passa per la mente, di essere lui, proprio in virtù di questo eccitato familismo di Stato di cui va fiero, uno dei protagonisti dello sfascio di questo paese. Ad ogni intercettazione non viene fuori il reato della politica ma la mancanza di dignità della politica, il fico groviglioso di sciatteria e di immondizia. E qui, nella Mastelleide, abbiamo la prova che l’importante è allocare uomini di panza, come una volta i campieri agli angoli del latifondo. Accuse e minacce (“gli faccio il mazzo quadrato; è un uomo morto; vi sputo in faccia a tutti quanti”); servilismo (“mi fa chiamare e io, figurati, mi metto a disposizione”). Il linguaggio è sempre spia di una mentalità, scruto quindi il linguaggio per dedurne la mentalità”.
Ma già il 29 aprile 2006 con la votazione per la presidenza del Senato si era capita l’antifona: tre schede riportavano voti per Francesco Marini, non Franco. Erano la firma di Mastella e dei suoi compari, poi sputatori, non ancora entrati nel governo e già pronti ad avvertire che ogni passaggio Prodi se lo sarebbe dovuto sudare, voto per voto. I protagonisti della fine della legislatura erano già tutti lì, fin dalle prime battute.
Tutti comunque hanno addebitato al Porcellum elettorale la responasabilità del peso condizionante dei microscopici 1% e perfino dei voti individuali dei parlamentari (non sai se corrotti o dilaniati dai dubbi) ma hanno contato, invece e tantissimo, le decisioni del Parlamento in fatto di rimborsi elettorali e di costo della politica, concertate e decise in forma assolutamente bi-partisan, come si dice (e lo ripeto, col voto favorevole di tutti i partiti). In realtà, denuncia F. Ceccarelli, “si giustifica, alimenta e incoraggia l’incessante moltiplicarsi della frantumaglia politica con una serie di disposizioni, facilitazioni ed elargizioni, deroghe alla formazione di micro-gruppi, e stanze e personale e contributi e impari dignità, il tutto a maggior gloria dell’antipolitica. Pagliacci! Quanto più il campo della politica si restringe, si spopola e si inaridisce, tanto più i partiti vanno in pezzi e tanti più ne vengono fuori, non di rado pure sdoppiandosi in osservatori, fondazioni e altre minute occasioni tipo liste Beautiful o circoli Brambilla’s. E’ come se il fondo anarcoide dell’Italia, sopito e assorbito per quasi un secolo dalle culture politiche oggi in disuso, presentasse il conto, e con gli arretrati. Ma questi non sono più veri partiti ma gruppi neo-tribali, poco più che bande, entità insieme friabili e tenaci, tenute assieme neanche più da interessi corporativi ma da una fedeltà primaria etnica di discendenza, con tratti perfino endogamici (la moglie di Mastella, il figlio e il fratello di Bossi, nipoti vari”.
Questa si è rivelata una contraddizione di fondo dell’esperienza politica italiana dell’ultimo quindicennio. Il maggioritario più di altri modelli istituzionali esige un ampio consenso di fondo tra i principali attori politici; i poli attuali, invece, si sono dimostrati soprattutto accaparratori di cariche ben remunerate, classi dirigenti inadeguate e parassitarie, lontanissimi dai problemi della vita quotidiana dei cittadini. Come ben inquadra la battuta sconsolata del Cipputi di Altan: “Sono senza lavoro e con una casta dirigente da mantenere”.
La proposta di Veltroni: il Pd, “partito a vocazione maggioritaria”. Questo semplice enunciato sembrò spostare la contrapposizione dall’asse Sinistra-Destra a quello tra Riformatori e Conservatori. Esso chiedeva una democrazia che decide, proiettata a definire il profilo di una Sinistra di governo, facendo finire la rendita di partiti in grado di raccogliere voti estremisti e di renderli utili dentro un’alleanza estesa e soprattutto condizionabile fino all’impotenza. In più sembrava raccogliere una larga condivisione su due punti essenziali: il sistema attuale, istituzionale ed elettorale, è un fattore di riproduzione della crisi politica, il bicameralismo perfetto non funziona più, le maggioranze sono di necessità coatte (buone per vincere ma non per governare) e il trasformismo è diventato endemico. Sembrava imporsi una fase costituente di nuove soggettività politiche, in un quadro semplificato, che riflettesse anche sul concetto e sulla pratica del bipolarismo realizzato in questi ultimi quindici anni.
Sembrò a me che Veltroni cercasse di riportare il futuro al centro dei pensieri e dell’agire politico. Certo, il nuovo partito doveva ancora specificare meglio cosa era e cosa voleva, quale identità politica intendeva assumere e quale profilo di società e di governo aveva in mente. Era obbligatorio proporsi come guida di un processo di modernizzazione del paese: capacità strategica, ragionevolezza ma anche radicalità. Fu interessante un passo di un discorso tenuto dal nuovo leader del Pd il 28 ottobre 2007: “Dobbiamo coltivare la nitidezza del programma, con ragione e con passione. Bisogna andare oltre i governi senza maggioranze certe, oltre l’anomalia dei candidati decisi dai partiti e non dai cittadini. Dobbiamo creare un partito della vita reale, che entra nelle case, che non perde di vista l’indecente allargamento della forbice tra ricchi e poveri (il 10% della popolazione possiede il 45% del reddito), che mette al bando la volgarità- l’odio per l’avversario- le liti fra i ministri- l’esibizionismo televisivo-, un partito più a rete che a piramide, la comunità che marcia insieme. Siamo i delegati di tre milioni e mezzo di persone, a loro dobbiamo rispondere”. Questo andava bene ma intanto qual era il fondamento del nuovo partito? Solo l’unione delle due culture, la socialista-comunista e la cattolico-democratica, o allargarsi anche ad un liberalismo di sinistra, reincarnazione del Partito d’Azione? Una parola d’ordine doveva essere: no alla politica vista come occupazione di cariche e fonte di arricchimento personale. Si doveva prendere atto che una mutazione antropologica era stata già prodotta. Il degrado della politica sta proprio nel pensare solo a se stessi: colpisce che non si parli mai dell’esempio, che esso non esista come categoria di giudizio del proprio e dell’altrui comportamento.
La candidatura di Veltroni a segretario, appoggiata con sospetta unanimità da esponenti di diverso orientamento quali D’Alema, Bersani, perfino De Mita, non aveva consentito una discussione franca e approfondita sui problemi che condizionavano la realtà italiana. Nel marzo 2008 un articolo di Mario Pirani, su La Repubblica, inquadrava bene la situazione: “I nostri ritardi strutturali e ormai patologici non derivano dalla concorrenza internazionale ma dalla nostra incapacità e mancanza di volontà: sono debito pubblico, inefficienza della Pubblica Amministrazione, scarsa propensione al rischio e all’innovazione degli imprenditori, sistema finanziario inadeguato, sistema formativo obsoleto, mercato del lavoro troppo rigido e inadatto a un’economia aperta, devastante divario nella redistribuzione del reddito tra lavoratori dipendenti con imposte trattenute e lavoratori autonomi su cui la pressione fiscale dipende dalle loro dichiarazioni. Con l’adozione dell’euro noi italiani, ceti dirigenti compresi, non abbiamo percepito che dal punto di vista economico siamo tenuti a comportarci come laender tedeschi e che, non facendolo, non reggiamo all’impatto di una moneta sempre più forte, il marco-euro che portiamo in tasca. Per contro, nella nostra stragrande maggioranza (partiti, sindacati, amministrazione pubblica, scuola, “mass-media” compiacenti e protestatari, le regioni –tranne alcune) ci comportiamo come ai tempi della lira ed esprimiamo una cultura e una filosofia di vita appartenenti al bel tempo della finanza allegra. Il debito pubblico come un valore salvifico: alleviava il disagio dei ceti poveri (con milioni di pensioni di invalidità) e assicurava senza gravami eccessivi la previdenza degli altri; distribuiva sanità senza badare a buchi e ladrocini; manteneva aziende in perdita (vedi Alitalia); promuoveva occupazione non produttiva; tollerava un fisco poco esigente; faceva lievitare in modo scandaloso il costo della casta politica. Poi le svalutazioni pilotate della lira consentivano una ripresa, se pur drogata, delle esportazioni. Diffuso benessere e un vago senso di colpa per il debito sulle spalle dei nipoti. Lo Stato esterno alle responsabilità di ogni cittadino, ma anche dispensatore obbligatorio di sovvenzioni, aiuti e protezioni: questa è la mentalità corrente, e giù a protestare, soprattutto da parte di chi è evasore fiscale; si seguita a vivere tra la nostalgia della lira e l’illusione che nulla debba cambiare. Ma quel debito che doveva cascare sui nipoti ci è cascato addosso, con tutti gli obblighi connessi. In Europa è aumentata la produttività, da noi è diminuita. Perciò dobbiamo acquisire una cultura e un comportamento competitivi e concorrenziali in tutti i settori. Occorre un recupero di una stringente Programmazione Poliennale con progetti e obiettivi precisi e scadenzati”. Già Tocqueville, a metà Ottocento, aveva pronosticato l’avvento di un governo “che vuole che i cittadini se la godano, purché non pensino altro che a godersela”. Questo si realizza quando si vogliono servizi pubblici sempre più costosi (che non si possono fronteggiare con aumenti significativi di produttività) ma nello stesso tempo non si tollera che siano finanziati con le tasse, nemmeno sui ceti più ricchi.
Il nuovo partito da qui doveva partire: costruire un programma chiaro in pochi punti, facilmente comunicabili all’opinione pubblica, suscitare intorno ad esso passione e mobilitazione e adeguarvi un’organizzazione aperta ed insieme efficiente, evitando che una base molto larga legittimasse una cupola molto stretta. Di più: era necessario che la classe dirigente del partito cambiasse mentalità, correggesse i comportamenti, dimostrasse un’adesione vera alla vita quotidiana di chi fa fatica. Quindi proponesse un impegno serio per la drastica diminuzione del costo della politica (adeguandola almeno, in una prima fase, alle spese dei grandi paesi europei), rendesse un fatto reale il convincimento che la militanza politica sia un servizio alla collettività, non allontanasse il suo tenore di vita e la sua sensibilità dal popolo lavoratore. In una vignetta Altan fa dire, ancora una volta, al suo Cipputi: “Non si può darci la colpa ai padroni, fanno il loro mestiere. E allora diamocela ai disoccupati, che non fanno un’ostia dalla mattina alla sera”.
L’opacità della Nomenclatura. In realtà subito sono emerse le prime contraddizioni, soprattutto nell’organizzazione del partito. C’era un’anima americana, per così dire, leggera e movimentista, presidenziale, con una rete di “volontari della politica” (Veltroni-Bettini); e ce n’era un’altra, più vecchio stile, saldamente legata ai riti dei vecchi partiti: bilancino fra le correnti, ruolo dei notabili sul territorio, struttura gerarchica piramidale, poteri locali da redistribuire, con la parola d’ordine: “no al centralismo veltroniano”. A suo tempo mi impressionò leggere la testimonianza cruda di Emma Giammattei, che è stata per sei mesi la segretaria del PD a Napoli. Nell’intervista ad Antonello Caporale (Repubblica, dicembre 2008) la Giammattei ammetteva sconsolata: “ero terrorizzata quando entrava nella mia stanza Roberto Conte, esponente della “ex-Margherita” che si presentava con un fiero: “Capobastone sono”. Mi voleva trasmettere il senso della sua influenza, offrirmi la paura come segno della sua presenza. La cosa che mi impressionava, nella vita del partito, erano i corpi separati. La slealtà dell’uno con l’altro. Il principio vigente era l’assoluta assenza di regole, di qualunque regola. Valeva solo la fedeltà o l’opposizione a Bassolino. Io proposi un codice etico. Mi fecero capire che la politica era un’altra cosa. Clan combattenti in una deriva libanese. La più grande colpa di Bassolino è stata quella di non aver mai controllato e messo in riga, mai invitato a comportamenti sobri, mai imposto un po’ di disciplina e il senso del limite. Vedevo smarrita l’amicizia, l’unità di intenti, un minimo comun denominatore. C’era slealtà, giochetti e trabocchetti, riunioni coperte, intese nascoste, una guerra di fazioni; due partiti che si odiavano. A Napoli la vita scorre feroce e anche la politica prende passioni sanguinolente. Qui il cambiamento antropologico meriterebbe una maggiore riflessione. Veltroni sia fermo e tempestivo. Il nuovo partito si deve aprire ai giovani ma non a quelli nati in cattività, immessi nel circuito assessorile, educati già all’idea che la politica è potere senza passione”. Io so che da sempre la politica è un impasto di idealismi, bassure e corruzione ma c’è un limite all’assemblaggio sgangherato di personalismi, praticato solo con l’idea di prolungare carriere politiche giunte indecorosamente al capolinea. L’intera sinistra italiana ha rifiutato il fatto che una leadership forte è il requisito indispensabile per vincere la campagna elettorale e il miglior antidoto contro la degenerazione del partito personale. Con un risultato paradossale: il partito, che ama fregiarsi della bandiera della collegialità, è in ostaggio di micronotabili che tendono a rifuggire dalle indicazioni unitarie.
“Botti troppo vecchie hanno impedito al vino nuovo di entrare”, questa è l’efficace metafora con cui Ilvo Diamanti fotografò la situazione del Pd. Intanto si diffondeva tra i militanti la delusione amarissima per il degrado morale, la pochezza, la litigiosità, l’incoerenza, la presunzione, l’arroganza, la proterva occupazione dei ruoli pubblici, la corruzione del personale politico. Così si è finito anche col cancellare nell’opinione pubblica la percezione della differenza, nell’azione pratica e persino nelle parole, tra Destra e Sinistra. Moltissimi però, nel partito, erano ancora tenacemente convinti: occorre un partito plurale, di attivi e di partecipanti, non un partito liquido in un’Italia già tanto frammentata; una classe dirigente diffusa che non risponda al capo o a un paio di consoli ma a un indirizzo di governo condiviso; un percorso che unifichi il partito senza però pagare dazi a catene di obbedienza personale, ai tanti cacicchi sparsi nei territori, coi pacchetti di tessere finte. Pochi punti concreti di cambiamento: un taglio drastico dei privilegi e degli stipendi del pletorico ceto che vive sulla politica (più di mille parlamentari, decine di migliaia di consiglieri regionali, provinciali, comunali, delle comunità montane); un disboscamento delle migliaia e migliaia di società a partecipazione pubblica, degli assessorati inutili, delle sovvenzioni clientelari; la fine della lottizzazione delle cariche negli enti pubblici, nelle ASL, nei ministeri; l’estromissione dei partiti dalla Rai. Un dirigente come Fassino si dichiara indignato “nel vedere il merito, la capacità, la fatica dello studio travolti da concorsi truccati, appalti guidati, assunzioni di favore”. Fassino traduca in iniziativa politica e legislativa lo sdegno, dimostri che il PD non è un format Borgia e che vuole davvero democratizzare lo Stato.
Le dimissioni di Veltroni. Così si sono importate dentro il PD le risse di coalizione che avevano distrutto l’Unione. L’aria si è incattivita, piena di astio, sospetti, risentimenti. Si è umiliata la discussione di metodo e di merito; molti hanno esitato a partecipare, hanno espresso disillusione e tristezza. A raffica si sono create associazioni, fondazioni, lobbies, tese a stabilire e a consolidare tanti partitini personali, si è sviluppato il cannibalismo tra i gruppi dirigenti. Un leader, Veltroni, ammaccato, frastornato, depotenziato e commissariato. Si sono perse elezioni amministrative importanti (Abruzzo, Sardegna).
Nel marzo del 2009 Veltroni si è dimesso. Il suo errore, quello che paga ancora oggi, è stato quello di dimettersi senza combattere: doveva affrontare una seria e franca competizione congressuale e verificare se il partito, a maggioranza, gli riconfermava o gli toglieva la fiducia, accordandola –nello stesso tempo- a un altro personaggio e a un altro programma politico. Veltroni ha pagato la mediazione ostinata per tenere insieme a qualunque costo le varie anime: laici e cattolici, moderati e socialisti, tolleranti e intransigenti, puri e duri e pragmatici. Segretario di un partito che ancora non c’è, con dirigenti frazionati e divisi da profonde ostilità personali. Veltroni si è dimesso per salvare l’unità del partito e chiedendo scusa, ma può un leader permettersi il capriccio intellettuale di chiedere scusa essendo consapevole di essersi fatto prima incupolare, come Prodi, e poi logorare a fuoco lento dagli oligarchi che alla fine lo hanno fatto fuori?
Il piccolo cabotaggio. Che fare? Trascuro volutamente di dettagliare sulla fase di transizione che ha visto segretari prima Franceschini e poi Bersani. Tutti i lettori hanno seguito, si sono informati, constatano ogni giorno gli sviluppi non appassionanti. Mi interessa di più sottolineare alcune esigenze. Dicono tutti che il PD deve darsi un’organizzazione e una struttura, deve essere capace di rieducare una parte consistente della società italiana, di alfabetizzarla politicamente e culturalmente dopo le devastazioni di questi anni, di costruire una democrazia partecipata e modernizzata. Persino il romanzo della nostra identità nazionale, “I promessi sposi” di Manzoni, è in fondo la sfida tra un assassino e un ex-assassino diventato frate, una storia inconcepibile senza i Bravi, che sono i garanti dell’illegalità, i soldati del crimine al servizio dei potenti. Questa è l’Italia di oggi: il risultato di anni di sguardo televisivo che ha portato all’anestetizzazione di massa; e avere sottovalutato il conflitto di interessi, che ne è la causa, è stato l’errore più grave del centro-sinistra italiano. E allora bisogna tracciare un confine il più possibile netto tra la guerra per bande (mai dichiarata ma che ha corroso dall’interno il partito sin dai suoi primi passi) e un aperto confronto politico-culturale e programmatico tra culture, punti di vista e storie anche fortemente diverse. Qualche giorno fa leggevo la protesta, amaramente ironica, di un iscritto al Pd: “Nel partito ci sono tanti galli che pensano che il sole sorge solo quando cantano loro”.
Dietro Berlusconi c’è un’omogeneizzazione culturale e un blocco sociale che lo sostiene (abbiamo mai letto Gramsci?). Il centro-sinistra, che sembra non avere un collante sufficiente, come reagisce, cosa propone? Mi sembra che sappia bene come la società italiana dovrebbe essere nel prossimo futuro ma non conosca come è fatta oggi e come parlarle per farsi capire. Si è alimentata nei giovani l’idea che il benessere si possa raggiungere senza il lavoro, che gli affari si possano perseguire senza le regole e che i diritti possano camminare senza i doveri. Mescoliamo questi disvalori ed emerge la situazione di oggi: Paese bloccato, ascensore sociale rotto e nessuna fiducia nel futuro. C’è, anche a sinistra, una bolla di stanchezza e di disperata indifferenza, persino una caduta verticale della rappresentanza. Riporto un esempio illuminante. Franceschini, ancora segretario del partito, aveva criticato il presidente della regione Campania, Bassolino, e lo aveva invitato a dimettersi; di contro a questa condanna c’è stata la sprezzante replica di Bassolino: “pure ‘e pulice tienene ‘a tosse (pure le pulci tossiscono)”. Si risponde a una civile argomentazione con un’espressione pesante di offesa, facendo il verso dialettale alla Lega, e trascurando il fatto che, se è una pulce a dirigere il PD, non è solo delegittimato il segretario ma l’intera formazione politica alla quale ancora il Bassolino appartiene. Questo episodio rivela come meglio non si potrebbe la verità dell’espressione: un partito di cacicchi. Però c’è di che riflettere anche su altro fatto: nel PD di oggi la Calabria ha più iscritti della Lombardia, e Napoli e provincia contano il doppio dell’intero Nord-Est.
La ricerca di un’identità e di un programma. Si è tutti convinti che sia iniziato il tramonto del berlusconismo ma che esso non sarà un processo lineare, sarà invece un percorso agitato e avrà un carattere di pericolo per la nostra Repubblica e per la nostra Costituzione. La Sinistra italiana non è mai stata –nel passato- una nicchia che si auto-rassicura con le proprie rabbie e frustrazioni, almeno nella sua stragrande maggioranza; essa è sempre stata, invece, ragione, pensiero, analisi, ricerca, capacità di mettere in prospettiva situazioni ed eventi.
Allora si deve essere certi che fuori dal PD non c’è futuro: non solo per chi viene dalla Sinistra storica perché il comunismo è fallito e le socialdemocrazie stanno ridefinendo se stesse e i valori di riferimento; non c’è futuro neanche per i cattolici progressisti perché la fine della Chiesa conciliare li destinerebbe ad essere assorbiti e irrilevanti nel movimento cattolico conservatore, rigidamente comandato dalle gerarchie clericali, e allineato oggi con una Destra impresentabile e in gran parte pagana nei suoi valori ideali.
Siamo nel gennaio 2011, c’è aria di crisi politica e minaccia di elezioni anticipate. Nei sondaggi il PD è dato al 25% circa, e con queste cifre non c’è alcuna vocazione maggioritaria possibile. Mi sembra che Bersani e D’Alema pensino il PD come un partito di minoranza strutturale che fa da perno a un sistema di alleanze, col Polo di Centro, per poter conquistare la maggioranza elettorale, o almeno avere una chance credibile di contrastare l’asse Berlusconi-Lega: è un ritorno al passato, alla classicità del fare politica, al calduccio familiare dei vecchi partiti; tornare alla democrazia della delega contrastando le tentazioni di democrazia diretta.
Un’altra parte del partito pensa che essere in minoranza sia una condizione quasi naturale per chi si oppone o si ribella o comunque contraddice il conformismo. Esalta la libertà di sentirsi in sintonia con le proprie scelte. Ha scritto M. Serra nel luglio 2010: “Guai ad avere spavento anche se farebbe piacere, ogni tanto, avere i numeri e la forza per cambiare lo stato delle cose. La politica, quella vera, quella che cambia la faccia del mondo, prima o poi ritornerà. Nell’attesa è in noi che sopravvive l’ombra del futuro” (“Venerdì di Repubblica”).
Ma c’è un’altra citazione che mi piace riportare (quella in cui mi ritrovo)ed è di Enrico Rossi, presidente della regione Toscana, all’indomani della schiacciante vittoria riportata qui dal PD alle elezioni regionali dello scorso anno: “Nel partito non c’è bisogno di fighetti, che pensano solo al posizionamento personale, che hanno l’ossessione della presenza in TV, che mirano al carrierismo rapido. Servono politici che lavorino ventre a terra, che vadano dentro le fabbriche, che si facciano vedere nei mercati, che parlino con la gente e accettino anche di essere contestati, che diano un senso vero alle parole “giustizia sociale e solidarietà”. Basta coi dibattiti da salotto. La Toscana non è una regione bulgara, con un elettorato statico che vota sempre e comunque a sinistra, come se qui vincere non fosse il premio alla buona amministrazione. Mica sono dei beoti i toscani, è gente esigente, che sa scegliere. Vinciamo in 258 comuni su 287, compreso Prato dove il sindaco è di Destra. Tutti analizzano i flussi dal nord al sud, come se l’Italia centrale non esistesse. Con Marche e Umbria dobbiamo avere nel partito il ruolo che ci spetta”.
Conclusione. Cosa ricavare da questa ricostruzione davvero troppo lunga? Si è diventati consapevoli che le identità politiche non si inventano con brillanti improvvisazioni, pur con tutta la fatica e il dolore affrontati per separarsi dalle proprie radici; esse sono storia e memoria, non slogan che degradano la politica a pubblicità. L’elaborazione di un progetto di società doveva essere il fondamento ideologico del nuovo partito (“ideologia”, intesa nel suo significato originario di interpretazione della storia e di ispirazione ideale e morale della politica). C’è oggi nel PD un investimento culturale e politico teso a costruire un’ideologia moderna, una proposta di società, un progetto di riforme economiche, sociali e istituzionali capace di concretarla? Se si restringe la strategia politica alla scelta contingente delle alleanze non si discute su che cosa ci si deve impegnare ma con chi bisogna stare. E allora, come nel passato (1996, 2006), si potrà anche vincere ma poi come si governa?
E, in ultima analisi, non si può fare a meno di inquadrare i problemi di cui si è parlato in un contesto internazionale, il solo che ci consente di non smarrirci in un’ottica ristretta e provinciale, del tutto inadatta a comprendere i gravi problemi posti dalla devastante crisi economica mondiale e dalla globalizzazione. Ci può servire un passo di un articolo scritto, nel giugno del 2009, da Giorgio Ruffolo: “Alla globalizzazione economica la socialdemocrazia e i partiti progressisti mondiali non hanno contrapposto quel rafforzamento del potere politico internazionale che avrebbe potuto nascere da una più forte integrazione europea. Al contrario, si sono chiusi nel social nazionalismo: un terreno sul quale la Destra è imbattibile. I socialisti hanno perduto un’occasione unica di costruire un’Europa unita e riformista quando erano al governo in quasi tutti i paesi europei. E ora trionfano i nazionalismi, riemerge il razzismo e il conto della crisi è posto sulle spalle dei contribuenti. Ecco i titoli dei dieci temi sui quali la Sinistra deve riflettere. 1- La struttura dell’ordine politico mondiale di fronte all’emergere delle nuove grandi potenze. La globalizzazione ha privato gli Stati delle risorse per la distribuzione del benessere pubblico, a causa della deindustrializzazione e dello spostamento dell’economia mondiale verso l’Oriente e l’America latina. 2- Le nuove regole mondiali della circolazione dei capitali e dell’assetto dei cambi delle monete (il nuovo ordine economico). 3- Le garanzie di un mercato concorrenziale, libero da posizioni dominanti e da vincoli corporativi. 4- Le responsabilità politiche superiori dell’ economia: la politica macro-economica e la politica dei redditi, rivolte all’obiettivo della piena e buona occupazione. 5- La costruzione di una Federazione politica europea. 6- La ristrutturazione del welfare state, di fronte a un indebolimento sistematico delle istituzioni pubbliche e ad uno straordinario arricchimento privato. 7- La promozione, accanto al mercato e allo Stato, di un grande settore di economia e società associativa. 8- La trasformazione della scuola in una istituzione di educazione permanente. 9- La riorganizzazione della produzione nel senso di un’economia ecologicamente sostenibile. 10- L’eticità della politica”. Sono temi questi che consentono di inquadrare in modo compiuto lo sforzo necessario al Partito Democratico per uscire dall’angolo di un’opposizione tutta e solo centrata sull’anti-berlusconismo e per definire la strategia di governo per i prossimi anni. E a questo proposito mi sembrano interessanti sia le dichiarazioni di Franceschini del 23 ottobre 2010 (“Va accettata la sfida di Marchionne su un nuovo processo produttivo. Il cammino è: cambiamenti possibili, diritti non cancellabili. Anche pensando alla cogestione delle aziende, prevista dall’art. 46 della Costituzione, norma mai applicata. Tre le parole-chiave: regole, merito, mobilità”) che le posizioni di Veltroni e la lettera-programma di Bersani, esplicitate in questo inizio di gennaio. Tutte sono il segno di un dibattito positivo e chiarificatore, di lunga lena, di cui c’è gran bisogno per superare sterili e inconcludenti contrapposizioni. Altrimenti c’è la dissoluzione, anche rovinosa, la prospettiva di un partito conglomerato di fazioni e sottopotere. Mi sembra appropriato alla fine richiamare una metafora cinematografica, estratta dal film “Totò, Peppino e la malafemmina”. I nostri due protagonisti, ruspanti provinciali meridionali, si trovano immersi nella nebbia di Milano e, per orientarsi, si rivolgono a un vigile urbano e gli chiedono: “Per andare dove dobbiamo andare dove dobbiamo andare?”
15 gennaio 2011
Gennaro Cucciniello