Don Chisciotte e il suo doppio, non proprio edificante.
Tutti ci ricordiamo l’immagine evocatrice del romanzo di Cervantes: un hidalgo rurale cinquantenne, insaccato in un’armatura anacronistica e scheletrico come il suo cavallo, che, accompagnato da un contadino-scudiero rozzo e panciuto in groppa a un asino, se ne va per le pianure della Mancia, gelate d’inverno e roventi d’estate, in cerca di avventure. Il cavaliere è animato da un proponimento folle: risuscitare il tempo sprofondato secoli prima (e che del resto non è mai esistito) dei cavalieri erranti.
La realtà in cui vive il nostro eroe è ben altra: non ci sono più i cavalieri erranti, nessuno più professa le idee né rispetta i valori da cui erano mossi; la guerra non è più una faccenda di sfide individuali nelle quali, aderendo a un rituale puntigliosissimo, due cavalieri si scontravano. Alla fine del XVI secolo la guerra non la decidono più le spade e le lance ma il rombo delle artiglierie e la polvere da sparo. In verità il mondo che Chisciotte rimpiange e vuole risuscitare non è mai appartenuto alla storia. E’ esistito soltanto nell’immaginazione e nelle utopie elaborate dagli uomini per sfuggire all’insicurezza selvaggia nella quale vivevano e per rifugiarsi in una società di ordine, di onore, di principi, che li sollevasse dalla violenza e dalle sofferenze che costituivano la vita vera degli uomini e delle donne di quei tempi antichi. Era come realizzare un mito, trasformare la finzione in storia viva. Nell’ultima pagina del suo romanzo Cervantes afferma che attraverso il suo libro voleva raggiungere un solo scopo: quello di “far aborrire agli uomini le false e assurde storie dei libri di cavalleria…”. Se si prendono queste parole alla lettera (ma nulla va preso alla lettera in questo libro inafferrabile) il romanzo appare come una sarcastica conclusione di tutta la letteratura precedente: fantastica, eroica, piena di leggende e miti. Ma i motivi, i temi, gli intrecci, gli ambienti e i personaggi del “Don Chisciotte” sono interamente impregnati delle convenzioni letterarie predominanti fino a quell’epoca. Se Cervantes è riuscito a infondere loro un senso del tutto nuovo, è stato grazie a un piccolissimo fatto: quelle convenzioni non le ha prese sul serio. Il personaggio principale è un pazzo molto originale che si prende per un eroe molto convenzionale: un povero gentiluomo di campagna che ha deciso di essere un cavaliere errante.
Ma Chisciotte è moderno perché è spirito ribelle, personaggio che assume su di sé la responsabilità di cambiare il mondo in meglio, anche quando –cercando di metterla in pratica- si dovesse sbagliare, si dovesse scontrare contro ostacoli insormontabili e venisse percosso, tartassato e trasformato in oggetto di irrisione. E il romanzo è attuale perché Cervantes rivoluzionò le forme narrative del suo tempo e pose le fondamenta sulle quali sarebbe nato il romanzo moderno. I narratori di oggi che giocano con le forme, distorcono il tempo, mescolano e scompigliano i punti di vista e fanno esperimenti con il linguaggio, sono tutti debitori di Cervantes. “Felicissimi e venturosi furono i tempi”, scrisse Cide Hamete Benengeli, “in cui venne al mondo l’audacissimo Don Chisciotte della Mancia, poiché per quella tanta onorevole decisione che egli prese, di cercare e restituire al mondo l’ordine già perduto e quasi morto della cavalleria errante, godiamo ora nella nostra mente che ha tanto bisogno di lieti divertimenti, non solo della piacevolezza della sua autentica storia, ma anche dei suoi racconti ed episodi che non sono meno piacevoli e artificiosi e veri della storia”.
Afferma Mario Vargas Llosa che “questa coppia immortale –Chisciotte della Mancia e Sancio Panza- continua a cavalcare senza tregua né sconforto. Nella Mancia, in Aragona, in Catalogna, in Europa, in America, nel mondo. Sono ancora lì, che piova, che ruggisca il tuono, che bruci il sole o scintillino le stelle, nel grande silenzio della notte polare, o nel deserto, o nel mattino delle foreste, vedendo discutendo e capendo cose diverse in tutto ciò che incontrano e ascoltano, ma –pur tra tanti dissensi- avendo sempre più bisogno l’uno dell’altro, indissolubilmente uniti in quella strana alleanza del sonno e della veglia, del reale e dell’ideale, della vita e della morte, dello spirito e della carne, della finzione e della vita. Sono la contraddittoria e affascinante verità della condizione umana”.
Alla luce di queste considerazioni ho ritenuto opportuno riprendere e pubblicare un articolo di Marco Cicala, apparso sul “Venerdì” di “Repubblica” il 30 gennaio 2015, alle pagine 14-21, e che riporta le ipotesi di due ricercatori spagnoli che credono di aver trovato negli archivi il modello reale del Chisciotte.
Gennaro Cucciniello
Accadde un giorno del luglio 1581, lungo i pochi chilometri di strada che dividono i villaggi di El Toboso e Miguel Esteban. Per una non meglio precisata disputa territoriale fra clan, tale Francisco de Acuna, hidalgo, provò ad accoppare un altro tizio chiamato Pedro de Villasenor, hidalgo pure lui. Fin qui niente di sbalorditivo: si sa, erano tempi di scattante giustizia fai da te. L’episodio sarebbe rimasto sepolto fra le scartoffie della storia se non fosse avvenuto nel profondo della Mancia e se il suddetto De Acuna non avesse agito in stile Don Chisciotte. Cioè a cavallo, indossando una vetusta armatura avita –comprensiva di elmo più scudo- e inseguendo il suo uomo con una lancia delle dimensioni di una pertica. Avendo avuto l’ottima idea di non andarsene in giro dentro uno scafandro nell’altoforno dell’estate mancega, il rivale ebbe gioco relativamente facile a scampare all’agguato, dandosela agilmente a gambe. Però grande fu lo sconcerto in una comunità che pure aveva già sudato freddo davanti alle bislacche soperchierie della tracotante famiglia De Acuna.
L’ultima risaliva a poche settimane prima, quando Francisco e il fratello Fernando avevano sparso terrore nella contrada per vendicarsi di un verdetto a loro sfavorevole pronunziato dal consiglio comunale. Sempre bardati come zombie riaffiorati dal Medioevo, avevano aggredito con insulti e minacce chiunque gli capitasse a tiro. Tutto in una notte: quella di San Giovanni, che –non bastasse- la tradizione vuole circonfusa di un’ancestrale aura stregonesca.
Ma quei ribaldi c’erano o ci facevano? E il vizietto delle anticaglie cos’era? Una goliardica zingarata o megalomania degna di curiosità psichiatrica? Usavano il travestimento come cinico instrumentum regni per spaventare avversari e bifolchi del contado, oppure nell’anacronismo cercavano davvero di ritrovare il brivido di un mitico passato cavalleresco –magari taroccato di sana pianta, però sì bello e perduto- in grado di restituire orgoglio a un infeltrito blasone dinastico, di funzionare da balsamo sulle miserie di un presente antieroico, desolato come le terre che avevano intorno?
“Nostalgia. Abbiamo motivo di credere che la nostalgia operasse come un’autentica potenza nell’immaginario e nei costumi di certa piccola nobiltà mancega” assicura Isabel Sànchez Duque scoccando un’occhiata d’intesa al collega Francisco Javier Escudero. Sono due investigatori agguerriti –archeologa lei, lui specializzato in archivi storici- e, nel quarto centenario del romanzo, hanno scovato documenti per una tesi-bomba. Che, sgrossando, suona più o meno così: a ispirare l’invenzione di Don Chisciotte non furono, o non solo, le letture di Cervantes, ma la cronaca spicciola, fatti e fattacci occorsi nella Mancia del secolo XVI.
Ma come, il nobile “disfacitore di soprusi, raddrizzatore di torti, rifugio delle donzelle”, avrebbe avuto per prototipo un malamente della fatta di Francisco de Acuna? I due ricercatori ne sono abbastanza convinti. E sciolgono l’apparente controsenso argomentando: “Cervantes era molto amico dei Villasenor, che vengono citati nella sua ultima opera “Le peripezie di Persile e Sigismonda”. Lui potrebbe aver scritto il “Quijote” per ridicolizzare i De Acuna, nemici della famiglia a cui era legato. D’altronde il romanzo, o almeno la prima parte, è una parodia, una burla”. A tutta prima, l’intenzione canzonatoria può riuscire spiazzante. Lo è meno se pensiamo che dai contemporanei, le élites alfabetizzate dell’epoca, il Chisciotte fu letto essenzialmente come un libro comico. Solo due secoli dopo i malmostosi romantici vollero vedere nel personaggio un eroe semitragico, emblema della lotta tra idealità e prosaica grettezza della vita. Un’interpretazione enfatica, che purtroppo sarebbe diventata egemone e giocoforza continua a condizionarci.
Per irrobustire la loro ipotesi, Escudero e Duque apportano anche altri elementi. “Nella stirpe De Acuna c’era senz’altro una vena di furore che sconfinava nella follia. La “el vervadero loco”, il pazzo vero, era Fernando, il fratello di Francisco. Guardi qua” dicono, allungandomi carte processuali del Cinquecento che subito restituisco, essendo scritte in una grafia pressoché geroglifica. I documenti raccontano altre “gesta” del turbolento Fernando. Che nel 1584, vedendosi chiedere le chiavi del tabernacolo di una certa chiesa, rifiutò, e nel bel mezzo della messa diede fuori di matto: rovesciò l’altare, si arrampicò sull’arca del Santìsimo Sacramento saltando varias veces sobre ella. O quell’altra volta che, durante una processione della Vergine, si trovò relegato a fondo corteo e lavò l’affronto alla maniera sua: strappata la grossa croce dal baldacchino che guidava la cerimonia, se ne servì a mo’ di durlindana menando colpi sulle zucche dei presenti.
Era fatto così, l’hidalgo Fernando. Intendiamoci, non che l’altro De Acuna fosse una mammoletta, “però in Francisco sembrano coabitare quantomeno due personalità”. Da un lato il vendicativo ras del quartierino, “dall’altro il procurador, che oggi chiameremmo difensore del popolo. Uno che –riferiscono le carte- si schiera dalla parte dei mugnai contro le nuove tasse sui mulini a vento appena introdotti nella zona”. Uno che non esitò a proteggere dalle accuse di promiscuità una certa fanciulla che sfarfallava tra plurimi amanti e rifiutava di sposarsi. Si chiamava Francisca Ruiz e, secondo i due detective, potrebbe aver ispirato a Cervantes il magnifico personaggio della pastora Marcella, la sexy e concupitissima capraia che per le donne esige il diritto di sottrarsi ai ricatti d’amore. Certo, spinto così lontano, il giochino del chi era chi rischia di farsi meccanico. Ma Escudero e Duque ci hanno preso gusto. E in un libro che uscirà a marzo del 2015 promettono altre rivelazioni, inclusa quella sulla vera identità di Dulcinea, la contadina del Toboso che Don Chisciotte trasfigura in principessa.
Però torniamo a lui, el ingenioso hidalgo de la Mancha. Cervantes dice che, prima di autoproclamarsi abusivamente caballero col nome di Don Quijote, il prode si chiamava Alonso Quijano. Per questo si è a lungo ritenuto che lo scrittore potesse aver avuto in mente un certo Alonso Quijano Salazar. Oggi Escudero tende però ad escluderlo: “Quel Quijano era un monaco agostiniano. Morì molto prima che Miguel venisse al mondo e non ebbe praticamente rapporti con le zone di cui parla il libro. Più praticabile invece l’idea che, dai suoi contatti manceghi, Cervantes abbia avuto notizia di un altro Quijano: un certo Rodrigo, allevatore truffaldino, picaro che provò a comprarsi il titolo di hidalgo e si mosse nei luoghi raccontati dalla storia”.
Ecco, appunto: i luoghi. Se andate nella Mancia sperando che la vexata quaestio sulla genesi del romanzo possa sbrogliarsi un po’, state freschi. Su un territorio di 30 mila chilometri quadrati, le silhouettes di Chisciotte e dello scudiero Sancio sono ubique. Non c’è borgo che non rivendichi una qualche relazione con il libro o con l’autore. Complice la gastronomia –i mille vini, la leggendaria cacciagione, le formidabili caciotte- La ruta del Quijote si è trasformata da un bel pezzo in un succulento affarone turistico. Il guaio è che di rutas cervantine ce ne saranno ormai almeno dodici. Ognuno s’è disegnato la sua, tirandola verso il proprio paesello. Ovunque t’imbatti in tracce dell’immaginario cavaliere che viene allegramente confuso con l’uomo che lo inventò. Siti, vestigia, cimeli o sedicenti tali. Ad Alcàzar de San Juan giurano, con tanto di certificato d’epoca, che Miguel de Cervantes Saavedra sarebbe nato proprio lì e non ad Alcalà de Henares. Ad Argamasilla de Alba ti vendono un’antica cantina come la cella in cui sarebbe stato imprigionato lo scrittore. E prima di andartene ti ricordano pure che il vero Chisciotte era un tipo del posto: tale Pacheco, un poveretto che le spaventose emicranie fecero uscire pazzo. Con caschi da speleologo, puoi calarti nella Grotta di Montesinos, da cui Quijote riemerse raccontando di inaudite visioni. Mentre a Miguel Esteban scopri che le famiglie in guerra dei De Acuna e dei Villasenor vivevano a pochi metri l’una dall’altra, in un vicolo oggi anonimo di box per auto. In spazi tanto stretti la faida non poteva durare, infatti i clan finirono per imparentarsi. Ma le tappe più ortodosse sono il commovente villaggio di El Toboso, con un bel palazzetto signorile ribattezzato Casa di Dulcinea, e Campo de Criptana coi dieci famosi mulini a vento che dall’unica altura sfidano la Mancia piatta come un cd e da soli meriterebbero il viaggio.
Davanti a un simile frullato, tutto cervantino, di robe false, affabulate o verosimili, lo scrittore e grande ispanista olandese Cees Nooteboom si arrese, dichiarando: basta, “Credo a tutto”. Giusto. Bersi qualsiasi fanfaluca è l’atteggiamento più sensato da adottare in simili circostanze. Specie se in ballo c’è un romanzo come il Chisciotte, dove l’artificio, il dato apocrifo, il sentito dire giocano sempre ad acchiapparella con la realtà.
Casomai, il vero problema è un altro: è che ad oggi non si ha la benché minima prova che Miguel de Cervantes abbia mai messo piede nella Mancia. Essendo stata la sua una vita ad altissima mobilità è improbabile che, spostandosi da un capo all’altro della Spagna, abbia potuto evitare la zona. Secondo gli studiosi sarebbero 21 i viaggi che potrebbero averlo visto transitare da queste parti. Non pochi. Ma la pistola fumante ancora non c’è. E questa è forse l’unica certezza su cui la stragrande maggioranza dei litigiosi esperti cervantini pare essere d’accordo. A proposito: come hanno reagito finora gli accademici alle nuove ipotesi di Escudero y Duque? “Quedandose mudos”. Salvo un paio di commenti pubblicati dal Paìs e improntati alla massima prudenza, i filologi hanno taciuto. Che volete, per loro la fonte da cui è scaturito il Chisciotte rimane una sola: libresca. E’ in effetti ricca assai la letteratura, dalla quale Cervantes potrebbe aver attinto, che prima di lui rovesciò in caricatura l’algida figura del cavaliere errante. Ciò detto, ci si continua a chiedere: perché scelse proprio la Mancia? Normalmente senti risponderti: per esigenza comica, giacché nel dire proverbiale la regione era sinonimo di posto sgarrupato e buzzurro nel quale nulla di epico sarebbe mai potuto succedere. E sia.
Resta il fatto che, pur piena di incongruenze –come d’altronde la trama del romanzo- la geografia del Chisciotte è imbottita di dettagli esatti. Com’è possibile? In archivi e biblioteche c’è gente che lavora duro per cercare di spiegarlo. Ma a prescindere che Miguel ci sia stato o se la sia fatta raccontare, la Mancia del Secolo d’Oro è un universo che merita di essere perlustrato. Un mondo che, malgrado la narcosi dell’Estado estamental, il calcificato impianto castale (clero, nobiltà e, sotto, tutti gli altri) non era affatto sonnolento. La componente sociale più dinamica era costituita proprio dagli hidalgos, nobiltà di ultima fascia che però, con centinaia di migliaia di elementi, rappresentava il 90 per cento del Secondo stato. Una petite noblesse sulla quale –complice il Quijote- si sono cristallizzate nel tempo tonnellate di cliché che adesso i nuovi studi vanno sfoltendo.
L’hidalgo (ossia hijo de algo o de alguien, figlio di qualcosa, la ricchezza, o di qualcuno, leggi:individuo con genealogia tracciabile) godeva certo di esenzioni fiscali; era dispensato dall’onere di alloggiare e vettovagliare le truppe di passaggio; non poteva essere sottoposto a tortura né finire in carcere per debiti. Ma non è vero che –sulla falsariga dell’immiserito Chisciotte, che s’era sputtanato quasi tutto il capitale per comprarsi libri- il grosso della categoria se la passasse male. Dipendeva dall’oculatezza con cui si gestivano rendite e patrimoni. In teoria, in quanto nobili, gli hidalgos non avrebbero dovuto lavorare. E infatti l’eroe cervantino è inattivo. Però gli occupati non mancavano. Specie nelle regioni settentrionali –Asturie, Cantabria, Biscaglia…- dove l’hidalguìa era di massa: poteva raggiungere l’80-90% della popolazione. Todos caballeros? No, todos hidalgos. In situazioni del genere, ovvio che –senza rinunciare ai privilegi- perfino i gentiluomini dovessero darsi un po’ da fare. Governando l’agricoltura o l’allevamento. Un parassitismo maggioritario avrebbe significato l’infarto dell’economia. Quella nobiltà di quarta classe –dopo Grandes de Espana, titolati e cavalieri- non era un ceto compatto, ma permeabile a new entry dalla borghesia, e articolato in sottoinsiemi che spesso si guardavano in cagnesco. Accapigliandosi sulla dubbia trasparenza di certi pedigree. Hidalgo lei? Ma mi faccia il piacere…
In cima c’erano comunque i gentiluomini in purezza: notorios o de casa solariega- cioè riconosciuti da generazioni o radicati con antica dimora in un dato territorio; venivano poi gli hidalgos de ejecutoria –quelli che, documenti alla mano, avevano dimostrato in tribunale di che sangue erano fatti; chiudevano il plotone gli hidalgos de privilegio, gente a cui la corona concedeva, o più spesso vendeva –a prezzo salato- il titolo, per meriti acquisiti. Inclusa la prolificità: se, ad esempio, fornivi alla patria sette figli potevi ambire al bingo. Anche se magari il popolino ti ghignava dietro, dandoti dell’hidalgo de bragueta – diremmo nobile di patta. Alcuni facevano carriera nel clero o nell’amministrazione, ma principale sbocco professionale rimaneva il mestiere delle armi. Erano zeppi di quei signori i tercios, le micidiali unità militari impiegate nelle campagne d’Italia o delle Fiandre. E più di un hidalgo si distinse nella famelica conquista delle Indie. Linaje, honra, fama, limpieza de sangre: lignaggio, onore privato, pubblica reputazione e sangue non “infettato” da contaminazioni more o giudaiche. Come su tutto il resto, anche sugli altezzosi, ma all’occasione negoziabili, requisiti dell’hidalguìa mancega Cervantes –a cui qualcuno attribuisce ascendenze ebraiche- non può che ironizzare. E lo fa con quel tipico cocktail di arguzia e pietas di cui il suo genio custodiva il segreto.
Ma l’ultimo segreto cervantino non sta nella Mancia: riposa a Madrid. Nelle cripte delle Trinitarias, il convento dove lo scrittore fu seppellito nel 1616. Delle spoglie si son perse le tracce. Però si troverebbero ancora là sotto, e per scovarle è all’opera un’équipe capitanata dall’insigne anatomopatologo Francisco Etxeberrìa. Non rimanendo su piazza alcun discendente dell’autore, la prova del Dna non funzionerà stavolta da bacchetta magica. Per l’identificazione ci si baserà su altri indizi: i denti (Miguel confessò che sul finire gliene restavano solo sei) e le lesioni alla mano rimasta paralizzata da uno sparo ricevuto durante la battaglia di Lepanto. Alla domanda: lo ritroverete? Il professore Etxeberrìa risponde: Creemos que sì.
Quanto al mistero del Chisciotte, que se quede sepultado en sus archivos en la Mancia, che resti sepolto negli archivi manceghi, sogghignava Cervantes. Suona quasi come una beffarda maledizione di Tutankhamon. I profanatori sono avvertiti.
Marco Cicala