Il pittore Giacomo Ceruti, arte poverissima

Il pittore Giacomo Ceruti, arte poverissima

 

Quattro mostre. Tre ora in corso a Brescia (due al Museo di Santa Giulia, una alla Tosio Martinengo) e una in programma da luglio al Getty Museum di Los Angeles. L’orgoglio ritrovato di un artista come Giacomo Ceruti, il pittore più avventuroso del ‘700, è già nella scelta dei curatori di rinunciare a quel soprannome, il Pitocchetto, che, da una parte, lo aveva fatto conoscere universalmente ma che, dall’altra, l’aveva costretto in una dimensione folcloristica, quasi artigianale. Un soprannome legato alla sua scelta di ritrarre principalmente i poveri, i vagabondi, i contadini, i pitocchi, seguendo la lezione di una pittura di realtà che in Lombardia poteva già contare su Vincenzo Foppa, Moretto, Savoldo, Caravaggio.

Per nessuno, forse, un soprannome si sarebbe però rivelato così limitativo come per Ceruti che, nella sua vita (1698-1767), avrebbe comunque ritratto anche ben altro, con un gusto che nel caso del “Ritratto di giovane donna con ventaglio”, 1725-30, sembra aprire la strada a certi gruppi di famiglia in un interno di Pietro Longhi: Madonne con Bambino e santi, nature morte molto scenografiche e dai colori audaci, gentiluomini e gentildonne assai compassati, anziani ecclesiastici, giovani amazzoni, ispirati violoncellisti, vecchi con cani o gatti. Nobili personaggi che in certi casi sembravano quasi voler giocare, con la complicità dell’artista, a imitare i pitocchi (Ritratto del marchese Carlo Cosimo Medici di Marignano, 1750 circa).

Ceruti è stato però l’unico capace di dare dignità universale (e non solo locale) a un’arte non certo per i poveri, ma sui poveri, a un’arte dunque poverissima. Opere come “Pitocco seduto (1725-30), Ragazza con canestro (1730-33), Due vecchi mendicanti (1725-30), Il nano (1725-30), Pellegrino seduto (1730-33)” lo dimostrano alla perfezione, richiamando nei toni e nelle espressioni il van Gogh dei “Mangiatori di patate (1885”. Ma non solo: i pitocchi fermati sulla tela da Ceruti esibiscono una grande nobiltà nei gesti (Incontro nel bosco, 1730-33; Mendicanti sulla piazza, 1730-35; Due pitocchi, 1730-33). E, soprattutto, mostrano la dignità del lavoro, un lavoro che non dà ricchezza, ma assicura la sopravvivenza: sono i vecchi e i giovani di “Ciabattini (1730-33)”, sono le ragazze della “Scuola di cucito (1720-25)”, “La Filatrice (1730-33)”, il “Contadino appoggiato alla vanga (1730-35)”.

Pitocchi, dunque, molto lontani dalla spavalderia del “Fabbricante di strumenti musicali” e degli altri eroi popolani per nascita di Cecco del Caravaggio (1589-1620 circa), protagonista di una mostra alla Carrara di Bergamo.

L’attualità di Ceruti è nell’aver scelto i poveri come protagonisti principali dell’arte. Egli continua ad affascinare per la grande propensione all’umanità, qualunque sia il soggetto, qualunque sia la provenienza. Maestro del realismo, artista che si alimenta del confronto con figure reali, soprattutto con i poveri, e restituisce quelle stesse figure con empatia affettuosa.

Anche la scelta del titolo di un’esposizione, che cita uno dei capolavori di Totò (Miseria e nobiltà, 1954), contribuisce a rimettere in primo piano Ceruti con la sua autenticità, la sua partecipazione, la sua capacità di restituirci l’unicità di ogni individuo, la sua capacità di indagare con spietata lucidità (ma anche con poesia) la sua verità quotidiana. E soprattutto la sua contemporaneità.

 

                                             Stefano Bucci

 

L’articolo de “La Lettura” del 26 febbraio 2023, pp. 36-37, supplemento culturale del Corriere della Sera.

 

Fin qui l’articolo di Bucci. Io aggiungerei qualche altra notazione. Per esempio osserviamo “La lavandaia”: c’è il monotono grigiore di una vita interamente legata alla dura fatica del lavoro quotidiano e la malinconica ma dignitosa rassegnazione di chi sa che, per l’appartenenza dalla nascita al ceto degli umili, questo è il suo destino. Tutto è espresso mediante l’abbassamento dei toni (malgrado la luce diurna che si rifrange sulle vesti), l’ombra che toglie all’acqua ogni lucentezza festosa, la posa della donna (curva in avanti per imprimere maggior forza al lavaggio del panno), la stanchezza dello sguardo per un attimo rivolto verso lo spettatore, il passo lento del giovane che (la testa piegata verso terra, infagottato negli abiti sformati, i piedi infilati in scarpe troppo grosse) porta i panni già lavati ad asciugare. Questo linguaggio dimesso, questa sobria ricerca dell’essenziale, senza cadere né nel fatto episodico o caratteristico, senza forzature polemiche, sono la causa del suo scarso successo commerciale: un pittore di rara levatura morale. Analizziamo ancora “I due pitocchi”: non è da escludere un’implicazione moralistico-religiosa: i tempi sono difficili, non è inopportuno rammentare ai poveri che Cristo ha voluto essere uno dei loro ed è nato da una famiglia di lavoratori (Giuseppe falegname, Maria cucitrice). In ogni caso è importante che, quando si vuole opporre la realtà sia alla fantasia che all’immaginazione, si ricorra alla realtà sociale più che alla natura. Ed è importante che, per cogliere questa realtà, si mettano da parte i tradizionali apparati della rappresentazione figurata: la prospettiva, le regole di composizione, l’illuminazione ad effetto. Ceruti sceglie generalmente inquadrature semplici frontali; ed una luce chiara, talvolta radente, che mette a nudo tutto senza la pretesa di rivelare e commentare. Inoltre Ceruti porta la pittura della realtà, che tocca con lui toni di sconcertante verità umana e concretezza, a riflettere la nuova sensibilità pre-illuminista che va lentamente maturando, sotto forma di immediata e non ancora intellettualizzata partecipazione alle sofferenze di vasti strati sociali, anche nella provincia italiana. La sua scelta realistica matura in ambito bresciano a contatto di una tradizione pittorica rimontante ai grandi maestri del ‘500 locale e perviene, nella rappresentazione di diseredati e vagabondi, cucitrici e lavandaie, a esiti di totale e coinvolgente immedesimazione. L’atteggiamento di partecipazione morale si coglie sotto l’evidenza dei dati oggettivi.

Queste pitture sono una grande epopea centrata sulla rassegnazione e la dignità dei contadini e dei poveri. Testimone del proprio tempo e dei fenomeni degenerativi che accompagnarono la stagnazione economica delle province lombardo-venete nei primi decenni del ‘700, l’autore sa farsene interprete profondamente umano, riuscendo a esprimere la partecipazione alla vita dei disgraziati (egli stesso lasciò scritto nel testamento di voler essere sepolto “da povero, essendo io veramente povero”) nella verità della resa naturalistica, pacata ma intensa, tenuta su toni spenti, quasi monocromi, con dominanti grigie o terrose.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello