Il poeta Yeats nella guerra civile irlandese. “Il nido dello storno presso la mia finestra” (1922)

  1. B. Yeats (1865-1939), “Il nido dello storno presso la mia finestra”

 

Le api costruiscono nelle crepe

delle murature che si sgretolano, e lì

le madri pennute portano vermi e mosche.

Il mio muro si sta sgretolando; api da miele,

venite a costruire nella casa vuota dello storno.                            5

 

Noi siamo chiusi dentro, e la chiave è girata

sulla nostra incertezza; da qualche parte

un uomo è ucciso, o una casa bruciata,

i fatti non sono ancora chiari:

venite a costruire nella casa vuota dello storno.                            10

 

Una barricata di pietra o di legna;

circa due settimane di guerra civile;

la notte scorsa han scarriolato giù per la strada

quel soldatino morto nel suo sangue:

venite a costruire nella casa vuota dello storno.                            15

 

Ci siamo nutriti il cuore di fantasie,

con quella dieta il cuore si è indurito:

c’è più sostanza nei nostri rancori

che nel nostro amore; o api da miele,

venite a costruire nella casa dello storno.                                        20

                                              

“The stare’s nest by my window”

 

The bees build in the crevices

of loosening masonry, and there

the mother birds bring grubs and flies.

My wall is loosening; honey-bees

come build in the empty house of the stare.                                               5

 

We are closed in, and the key is turned

on our uncertainty; somewhere

a man is killed, or a house burned,

yet no clear fact to be discerned:

come build in the empty house of the stare.                                               10

 

A barricade of stone or of wood;

some fourteen days of civil war;

last night they trundled down the road

that dead young soldier in his blood:

come build in the empty house of the stare.                                               15

 

We had fed the heart on fantasies,

the heart’s grown brutal from the fare;

more substance in our enmities

than in our love; O honey-bees,

come build in the empty house of the stare.                                               20

 

 da “Riflessioni in tempo di guerra civile”, in “La torre”, 1922

 

Anche prima di far caso alle date, si sente che sono versi scritti dopo una certa età; fin dall’inizio il protagonista è un uomo che guarda mentre gli altri agiscono. Guarda dalla finestra i gesti eterni e vitali della natura, le api che costruiscono il loro favo e le madri che nutrono i piccoli implumi. Le fessure nel muro sono utili alla riproduzione, ma agli occhi e alla psiche dell’uomo che guarda quel muro fessurato è il segno simbolico di una rovina. Di qui l’invito alle api (produttrici di dolcezza e abituate a vivere in armonia comunitaria) perché rivitalizzino il muro venendo a costruire nel nido abbandonato dello storno. Ma non dice “nest”, nido, come nel titolo, dice “house” –quella casa vuota è la sua casa, e forse è l’Irlanda intera. L’Irlanda che è sconvolta dalla guerra civile tra l’Irish Free State e il Sinn Fein. Yeats elenca i fatti crudeli e sanguinosi con un distacco insieme tragico e insofferente, non si ricorda nemmeno di preciso da quanti giorni la guerra sia cominciata; un uomo è ucciso, una casa bruciata “da qualche parte” –lui e la famiglia sono barricati dentro, immagina che ci siano barricate anche fuori; non arrivano notizie certe, l’unica scena di cui è stato testimone è quella del giovane soldato “trundled” (onomatopeico e poco dignitoso, trasportato su ruote) giù per la strada, non importa di quale schieramento fosse. L’invocazione alle api, ripetuta alla fine di ogni strofa, assume la cadenza di una preghiera a un ordine di cose superiore perché faccia terminare quel massacro insensato.

L’incertezza su cui lui stesso ha girato la chiave (come se l’incertezza fosse un tesoro) non è solo mancanza di notizie: né solo indecisione su chi appoggiare nell’immediatezza della cronaca –è l’incertezza di un bilancio che rimette in discussione antiche scelte e dicotomie che hanno lacerato la sua vita. Nell’ultima strofa, la più bella del testo, Yeats smette di essere uno che guarda e assume le proprie responsabilità in quel che sta accadendo; il “noi” del v. 6 si riferiva a lui e alla sua famiglia, quello del v. 16 ha un orizzonte più vasto: significa sia “io” che “noi irlandesi”. Da giovane Yeats si era appassionato al folklore e ai miti della sua terra, ne aveva fatto ampia materia di poesia; eroi, fate, incantesimi – aveva creduto e sperato che su quel patrimonio si potesse fondare una rinascita culturale e politica. Pur senza conoscere il gaelico (mezzo inglese com’era) aveva collaborato col regista Gordon Craig volgendo in chiave moderna le saghe celtiche e creando un teatro innovativo, anti-realistico. Si era innamorato, poco più che ventenne, di una ragazza bellissima ed esaltata, Maud Gonne, che per 30 anni lo aveva fatto soffrire senza concedersi e che lui aveva idealizzato in Elena di Troia, portatrice inconsapevole di distruzione. Maud era nazionalista radicale, suo marito era stato ucciso sulle barricate durante la rivolta anti-inglese del 1916; per eccesso di sogni gli irlandesi si erano dilaniati e forse (come confesserà all’amico Ezra Pound) “la fantasia celtica si è esaurita”.

Lui e l’Irlanda si sono nutriti il cuore di fantasie: i sogni d’onnipotenza, inaciditi, predispongono insensibilmente alla crudeltà. L’ostilità è diventata più consistente dell’amore –non solo per le parti in lotta ma anche per lui, che se ne sta chiuso mentre fuori si muove la Storia. Per questo l’invito finale alle api è ancora più appassionato, con l’”o” vocativo. Nell’Antro delle ninfe di Porfirio le api sono simbolo delle “anime giuste che compiono cose gradite agli dèi”; nel biblico Libro dei Giudici le api costruiscono il favo nella carcassa di un leone, dolcezza che nasce dalla forza; nel IV libro delle Georgiche di Virgilio, le api che nascono dalla carcassa del bue hanno il potere di riscattare dalla colpa. Le api da miele chiamate a riempire, per un nuovo inizio, i vuoti della sua casa rappresentano l’immagine della cultura universale che sola può opporsi alle momentanee eclisse dell’umanesimo. Per Yeats, in questa stagione della sua vita, la cosa più importante è “to build”, costruire: lui, che anni prima aveva dovuto chiedere perdono agli antenati di non avere ancora né casa né figli (“a causa di una passione sterile”), ora invece la moglie ce l’ha, e anche due figli –per loro ha restaurato una casa fortificata nella contea di Galway (quella appunto dove li ha sorpresi la guerra civile). Con queste quattro strofe perfettamente equilibrate (composte ognuna da cinque tetrametri, rimati abaab) ha saputo realizzare l’allegoria della maturità – dell’uomo che non nasconde errori e vigliaccherie perché ha abbastanza contrappesi da opporre alla disperazione.

Non durerà, il suo cuore inquieto lo squilibrerà ancora: la vecchiaia gli sembra un’assurda caricatura che qualcuno gli ha legato addosso “come si lega un barattolo alla coda di un cane”; sarà catturato da una senile erotomania, cederà al fanatismo parafascista delle “camicie azzurre”. Ma con tutte le sue contraddizioni e le trombonate, la sua teosofia cervellotica, ha saputo essere abbastanza nudo perché Seamus Heaney, nel discorso del Nobel, abbia voluto citare proprio questa poesia ricordando lo “stare” (lo storno irlandese).

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 25 maggio 2014, p. 60