Il primo romanzo di Scurati su Mussolini: “Il figlio del secolo”

Un romanzo su Mussolini, “Il figlio del secolo”

Si può scrivere un romanzo sul Duce rimanendo letterariamente equidistanti? Antonio Scurati ci prova con un libro monumentale (il primo di una trilogia) che di certo farà discutere.

 

Nel “Venerdì di Repubblica” del 7 settembre 2018, alle pp. 94-97, Simonetta Fiori intervista Antonio Scurati, autore del romanzo “Mussolini, il figlio del secolo”, Bompiani, pp. 840, 22 euro.

 

Un Mussolini che parla in prima persona è già una novità. Nel nuovo, fluviale e documentato romanzo di Antonio Scurati, il futuro duce littorio compare fin dalla prima pagina. Lugubre, sprezzante, l’Uomo del Dopo realizzato con il materiale umano più scadente. Poi segue la sciagurata epopea fascista, raccontata nei bassifondi della storia dagli stessi protagonisti e comprimari: esperimento narrativo mai tentato prima nella cultura letteraria italiana. Come se non bastasse, ci si mette anche quello strano sentore di famigliarità che accompagna il lettore per oltre ottocento pagine, dalla fondazione dei fasci a San Sepolcro nel 1919 fino alla Marcia su Roma e al delitto Matteotti. Un’assonanza sinistra, a cominciare dall’atmosfera impestata di rancore e risentimento, e ancora l’insofferenza verso le liturgie mummificate del Parlamento, la rabbiosa rottamazione delle vecchie classi dirigenti. E il suicidio della sinistra, divisa nei suoi mille rivoli. Ma di cosa stiamo parlando? Del triennio che precede l’avvento della dittatura o dell’Italia sovranista che si gioca a dadi la democrazia? Della tragedia di un secolo fa o della farsa di oggi che rischia di trasformarsi in dramma? Ce n’è abbastanza per andare a trovare Scurati, autore del romanzo sul fascismo delle origini che nessuno aveva mai scritto prima. E ora già all’opera sul successivo volume d’una trilogia che del regime racconterà la parabola. Fino al 1945, fino a Piazzale Loreto a Milano.

Scurati, come si sente dopo questo corpo a corpo con il tiranno?

Un po’ debilitato. Ho anche pensato di rivolgermi alla dottoressa che mi conosce bene, essendo io un vecchio ipocondriaco. Che giustamente mi ha liquidato: “Da anni stai nella mente di Mussolini e non volevi sentirti un po’ dissociato?”.

Aveva preso qualche precauzione?

Mi ero dato una regola, ossia raccontarlo in terza persona: non volevo correre il rischio dell’identificazione, anche sul piano morale. Ma la verità è che, dopo la mia immersione così prolungata e profonda nei suoi pensieri e nei suoi scritti, Mussolini ha finito per prendersi la parola. Succede nell’incipit e alla fine del romanzo, e in un altro passaggio intermedio.

Il personaggio ha avuto il sopravvento?

I personaggi sono presenze molto forti, un romanziere li sente. E’ stato allora che ho deciso di confinarlo, cedendogli il racconto solo in pochi momenti. Ma ci sono moltissimi monologhi interiori in cui la storia è narrata attraverso il suo sguardo ambizioso. Non è stato semplice. Entrare in risonanza con la mente, con la psiche e con quella fascinazione collettiva che è stato il fascismo è molto destabilizzante.

L’operazione è abbastanza ardita: raccontare il fascismo attraverso i suoi uomini. Perché l’ha fatto?

Per dare un segnale di discontinuità rispetto a una tradizione di cui mi sento erede. Prima però tengo a dire che ogni singolo episodio, personaggio o discorso narrato in questo libro non è frutto dell’immaginazione dell’autore ma è storicamente documentato o autorevolmente testimoniato. Non mi sono permesso nessuna invenzione.

Questo può essere un limite per uno scrittore.

Antonio Franchini, il mio editor, dice che la forza di questo romanzo è proprio nell’handicap che mi sono assegnato: trattandosi di una materia così incandescente tutto deve essere perfettamente aderente alla realtà storica. Anche quando Mussolini bestemmia in romagnolo è perché è attestato in almeno tre testimonianze diverse. A fatti storicamente accertati ho voluto dare una messa in scena e una narrazione di tipo romanzesco.

Non mi ha ancora detto perché ha scelto proprio il fascismo.

La spinta più bieca a scrivere di Mussolini è nata davanti ai filmati dell’Istituto Luce che ho consultato mentre preparavo il precedente libro su Leone Ginzburg e la Resistenza: ma il Mascellone l’ha mai raccontato qualcuno? E’ il brivido del romanziere davanti a un formidabile materiale narrativo inesplorato. Messo da parte a causa di un tabù.

Gadda altro che il Mascellone ha raccontato.

Per carità, ho amato “Eros e Priapo” più di tutti gli altri suoi libri. Ma Gadda era un contemporaneo. Aveva vissuto quella storia e non poteva che scrivere un romanzo fazioso, partigiano, carico di risentimento. Io invece penso alla spericolata libertà del romanziere che tiene a distanza la propria materia narrativa. E la plasma come vuole. Ora è possibile raccontare Mussolini in totale libertà. Non solo è possibile, ma anche necessario.

Perché necessario?

Perché oggi la pregiudiziale antifascista è caduta. Per settant’anni qualsiasi discorso sul fascismo –sul piano culturale oltre che politico- ha implicato una condanna preliminare: ora non è più così. I ragazzi non sanno più niente. E l’attuale classe politica al governo gioca deliberatamente nello spazio aperto dalla caduta della pregiudiziale. A questo punto, se noi vogliamo prolungare la tradizione di civiltà di cui siamo figli –repubblicana, libera e democratica- abbiamo il compito storico di rifondare l’antifascismo. Anche dandogli un nome nuovo. Dubito che la parola antifascismo sia ancora efficace.

Ma la sua ambizione non le sembra un po’ eccessiva? Che vuol dire rifondare l’antifascismo, che è prodotto della storia? Mi sembra più convincente il progetto di renderlo vivo oggi, nel nuovo secolo.

Insisto sull’idea di rifondarlo: per ereditare davvero quella storia dobbiamo sentire che una linea di tradizione si è interrotta. Nel mio piccolo, da romanziere, credo di aver contribuito scrivendo un romanzo che racconta il fascismo senza alcuna pregiudiziale ideologica.

Il suo romanzo è una novità sul piano formale: nessuno scrittore aveva raccontato il fascismo attraverso i suoi uomini. Ma non vedo discontinuità sul piano del giudizio etico-politico: la sua malvagità non viene messa in discussione.

Ci mancherebbe. Ma il fatto stesso di fare del fascismo materia letteraria potrebbe essere motivo di polemica. Io mi muovo nell’ambito della letteratura, delle sue possibilità e delle sue forme. Alcuni criticheranno la scelta di trasformare Mussolini in un personaggio da romanzo. Come Napoleone o come Cesare. Per molti deve continuare a stare all’inferno, possibilmente a testa in giù.

Ma lei sente ancora così forte questo tabù nella cultura italiana? La storiografia è andata avanti, offrendo più strumenti critici che demonizzazioni.

Credo che il mio sguardo resti più libero rispetto alla storiografia ufficiale. Anche nel modo di raccontare il suicidio del socialismo rivoluzionario, il suo contesto moralmente avvilente. O nell’enfasi che metto nel carattere rivoluzionario del fascismo. E’ una narrazione equidistante rispetto alle parti in lotta, che molto ricorre alla memorialistica delle camicie nere. La storiografia antifascista l’ha sempre liquidata come paccottiglia.

Io credo che oggi non esista più “una storiografia ufficiale”. E il fascismo è stato largamente raccontato “dall’interno”: penso tra gli altri a storici antifascisti come Claudio Pavone, Salvatore Lupo, Emilio Gentile. Detto questo, sicuramente lo sguardo del narratore resta più libero.

A me non interessa entrare nella discussione storiografica. Sono convinto che una narrazione letteraria non ideologicamente orientata generi nel lettore una condanna morale ancora più forte e franca. Proprio perché il giudizio non viene all’inizio, ma scaturisce dagli accadimenti. Si chiama sguardo equanime della letteratura. Tolstoj lo esercita in “Guerra e pace”.

Qual è la verità che la letteratura aggiunge alla verità storica?

Credo di aver raccontato un Mussolini inedito e inaudito nella misura in cui la sua formidabile energia politica e storica cambia il corso della vicenda italiana ed europea. E perfino mondiale. Non dimentichiamoci che il fascismo è stato l’ultima nostra grande invenzione italiana, grande nella sciagura. Questa formidabile energia storica discende da quella che Mussolini stesso definisce la “supremazia tattica del vuoto”: era un uomo cavo, privo di ideologia.

Ne è sicuro?

Capisco che possa sembrare strano. Siamo abituati a pensare al Mussolini dell’Impero e della predicazione natalista, il duce dell’indottrinamento fascista. Ma negli anni dell’ascesa al potere Mussolini non aveva idee. O, meglio, usava le idee per liberarsene. L’unico suo programma è il combattimento. Il male che porta nella storia ha la forma dell’acqua: e l’acqua prende la forma del suo contenitore.

Il suo programma è la violenza, un elemento molto presente nella struttura psichica e culturale dei fascisti. E’ una dimensione che lei molto valorizza nel romanzo.

La violenza è per i fascisti un oggetto di desiderio politico. Non solo materialmente efficace ma desiderabile sul piano dei simboli. I primi fondatori dei Fasci erano per larga parte Arditi, gente che aveva vissuto gli ultimi anni in trincea, mangiato e dormito nella poltiglia dei cadaveri dei commilitoni. Ma la violenza era uno strumento di lotta politica considerato legittimo anche dai socialisti.

Ma la sua ricostruzione sembra dare ragione a quegli storici per i quali la violenza nera non può essere interpretata come reazione alla violenza rossa e non c’è proporzione tra la brutalità degli squadristi e la violenza dei loro avversari: i socialisti non andavano ad assaltare ogni giorno le case della borghesia né i circoli degli altri partiti.

Questo è vero. Se si guardano i dati sui morti per violenza politica, in alcuni semestri il numero dei fascisti caduti risulta più alto di quello dei loro avversari, ma sono tutti morti assaltando le Case del Popolo.

L’altra direttrice del romanzo è la debolezza della borghesia liberale. Perfino dopo il delitto Matteotti, Croce continua ad applaudire a Mussolini. Il duce sembra vincere per incapacità altrui.

Croce sarebbe diventato il simbolo dell’antifascismo e la sua cecità crea particolare sconcerto. Devo confessare che per un romanziere la cecità degli uomini riguardo a se stessi e alla propria storia resta una delle cose più inebrianti. Ma è un dato triste e preoccupante: quando la politica si arma, i democratici si ritirano inermi. Succede oggi come allora.

Leggendo il suo romanzo non si può non pensare all’attualità. In fondo il fascismo rappresentò un movimento essenzialmente antipolitico, che attaccava le liturgie mummificate del Parlamento, i palazzi del potere, la democrazia rappresentativa…

Se poi ci aggiungiamo il rancore della piccola borghesia declassata, la debolezza del vecchio ceto parlamentare, la cecità dell’intelligenza liberale e il suicidio della sinistra… Di fronte a queste assonanze sono rimasto sbalordito anche io. Non c’è stata alcuna intenzionalità, le ho scoperte mentre le studiavo e le narravo. Una simmetria agghiacciante. Ma il quadro resta incompleto se non aggiungiamo un fattore che ci allontana da quegli anni sciagurati, ossia la violenza quotidiana. Non è però che mi faccia troppe illusioni.

In che senso?

Il dato che ci accomuna è la brutalizzazione della politica, per usare una categoria cara a George Mosse e a Hannah Arendt. Noi oggi assistiamo a un arretramento di civiltà: deluse dalle promesse della modernità, le persone cedono alle pulsioni regressive. E pur di accrescere consenso, la politica è disposta a scendere qualche gradino nella scala della civilizzazione: questo è pericolosissimo.

Teme il pericolo di un’involuzione democratica?

E’ già in atto. Non solo nell’abbrutimento del linguaggio politico ma anche nel crollo di partecipazione alla vita delle istituzioni e dei partiti: un fenomeno maldestramente occultato dalla retorica della democrazia diretta attraverso la Rete.

E’ anche per questa ragione che ha scritto il suo romanzo pensando ai più giovani?

E’ la prima volta che scrivo un romanzo avendo in mente le generazioni successive. I ragazzi non solo non sanno più niente, ma sono anche sprovvisti di quella coscienza storica che li possa vaccinare dai pericoli del fascismo eterno. Credo saldamente nella pedagogia della letteratura. E penso che oggi sia davvero giunto il momento di tornare ai fondamentali.

                   Simonetta Fiori                             Antonio Scurati