Il teatro a Roma nei primi anni della Controriforma (1566-1590).
Questo testo è estratto da un capitolo della mia tesi di laurea, discussa nel lontano ottobre 1967, relatore il prof. Giovanni Macchia, correlatore il prof. Giorgio Melchiori, pp. 43-79. La ricerca si intitolava: “Il teatro e lo spettacolo a Roma durante i pontificati di Gregorio XIII e Sisto V”.
Già nei suoi primi secoli di vita la Chiesa si era preoccupata della pericolosa influenza dell’arte comica, cercando di neutralizzarla e di metterla al bando; e vi si accaniva contro, perché il comico, come stile e come contenuto, esulava completamente dall’ambito del sacro, anche quando non sboccava nella licenza e nella polemica anticlericale. Il comico era analogo, come lievito polemico, al paganesimo campagnolo, al magico, al superstizioso, al demoniaco, a quello che in definitiva non rientrava nel quadro del potere costituito.
La Chiesa comunque aveva escogitato e teorizzato nuove forme di convincimento e di pressione e solo raramente fece ricorso al pugno di ferro; nel suo complesso evitò di impegnarsi a fondo e proibì espressamente soprattutto due cose: il portare il costume ecclesiastico sulla scena (“Habitus personarum ecclesiasticarum non possunt adhiberi in recitandis comoediis”) e l’utilizzazione di donne nelle rappresentazioni.
Il pontificato di Pio V (1566-1572) era stato caratterizzato da un’atmosfera severa e chiusa, da un rigoroso ascetismo; e se si pensa alla fondamentale influenza della persona del Papa e del suo entourage su tutta la Corte e la città (data la struttura piramidale e clientelare della vita dell’Urbe), si può ben ricavare che questi anni erano stati magri di feste e di divertimenti. Alla sua morte il Conclave aveva eletto al pontificato il cardinale Ugo Buoncompagni che prese il nome di Gregorio XIII (1572-1585).
Il nuovo papa, tra oscillazioni e tentennamenti, seguì l’esempio rigoroso di Pio V. Nel 1573 proibì che si recitassero commedie, facendo eccezione per alcune rappresentazioni gesuitiche (“Ha fatto ancora Sua Santità prohibire commedie; solo i Gesuiti, di sua licentia, hanno fatto rappresentar dalli giovani due tragedie”). Nel 1574, traendo pretesto dalle vivaci polemiche suscitate da una rappresentazione abbastanza audace, vietò del tutto le Commedie, nel teatro pubblico, nelle case private, persino nei collegi e seminari, e nello stesso tempo bandì da Roma i commedianti. E’ illuminante a questo proposito un passo del “Diario Concistoriale” di Giulio A. Santori, cardinale di Santa Severina, brano esauriente e circostanziato: “Fuit consistorium secretum ab hora XV° usque post XVIII°, eoque clauso post prolixam cardinalium audientiam, SS. D. N. conversus ad collegium, et cardinalibus de more aperientibus capita, dixit nonnulla verba in hanc sententiam (nam omnia verba, loci distantia, consequi non valui): quod intellexerat, seu Nos intelleximus, de comoedia acta proximis diebus, et quod illi interfuissent nonnulli cardinales, quod minime decens fuit, quia cum plurimi, et qui audierunt, de recitantibus fuerint scandalizati, quanto magis de his qui interfuerunt, praesertim prelati et cardinalibus. Quapropter omnes monitos esse volebat ne huiusmodi comoediis interessent, quod minime id personas ecclesiasticas et tanto magis cardinales deceat. Imo nec aliis repraesentationibus, etiam piis, quod inconveniens et alienum sit a gravitate et dignitate cardinalatus, ut illis actionibus intersint, quibus et alii laici et etiam plebei conveniunt vel intersunt. Quin imo suae intentionis esse protestatus est ne de caetero in colegiis et seminario fiant huiusmodi repraesentationes, quibus iuvenum et adolescentium animi distrahuntur a studio litterarum, dum dant operam his vanis actionibus; sed velle ut vacent litteris et lectionibus et tempus frustra non terant. Cardinales autem haec audientes, capite detecto, annuerunt collaudantes. Hoc autem dixit, quia diebus praeteritis dominica secunda post Epiphaniam, XVII° hora huius, acta est comoedia vulgaris in domo… Gabrielis, in nuptial solemnitate fratris, quae quia obscenum et turpe habuit argumentum, scilicet lenocinii (dicebantur enim “la Ruffiana” veteri vocabulo alias impressa) SS. D. N. aegerrime tulit, quod agi illam permissum esset, quodque cardinales quidam interfuissent, qui re vera non in illa domo, sed in proxima unde prospicere poterant adfuerant. Quare fecerat coniici in carcerem Marium Zazarinum amerinum, repraesentationis autorem”.
Così sappiamo che la commedia tanto scandalosa era stata la “Ruffa” di Ippolito Salviano, già rappresentata a Roma nel 1552, e che chi la mise in scena fu un certo Mario Zazarino, nativo di Ameria, antico ed importante paese dell’Umbria (oggi Amelia, non lontano da Terni); suo compagno dovette essere un tale Bandini, condannato anche lui. Il veto gregoriano mirava però a colpire, più che le recite teatrali in quanto tali, le rappresentazioni dei comici professionisti, ritenute nocive e dannosissime. Ciò è dimostrato dal fatto che negli stessi giorni in cui veniva stilato e promulgato il veto papale, le cronache riportavano testimonianze di continue violazioni: “in casa di diversi RR. si andavano recitando alcune commediette secretissimamente”, ed ancora, “con tutto si vadino recitando alcune commediette in casa di diversi, si fanno però segretamente, et i comici stanno pur con speranza d’avare il loro intento, et però hanno preso una casa in strada Giulia” (“Avviso di Roma” del 13 febbraio 1574, Cod. Urbin. 1044, Biblioteca Vaticana). Questi comici restarono delusi, il veto papale si rivelò efficacissimo solo contro di loro. Non è irrilevante, però, constatare che proprio in quello stesso anno 1574 il papa Gregorio XIII commissiona a Giacomo Della Porta la Fontana del Moro (poi modificata nel ‘600 dal Bernini) e quella del Nettuno alle due estremità di piazza Navona.
Per comprendere la situazione bisogna rifarsi alla struttura sociale della città di Roma, alla soverchiante preponderanza dei nobili nella vita cittadina ed alla insignificante influenza delle corporazioni artigiane. Queste, dominate da magistrati (nobili), asservite al potere papale che poteva taglieggiarle con l’imposizione di imposte indiscriminate (erano frequenti gli aggravi fiscali sui generi di consumo di prima necessità), senza amalgama né origini comuni, evidentemente non potevano alcunché contro gli ordini pontifici. Quanto alla nobiltà, il suo rapporto con la Curia e con il papa era complesso, né tuttora sufficientemente definibile; erano in pratica esautorati dal potere politico però nella vita sociale godevano di molte prerogative che permettevano loro di aggirare le proibizioni, di strappare sottomano eventuali concessioni o addirittura di infischiarsene bellamente. In un “Avviso di Roma” del 16 febbraio 1583, per esempio, si riporta: “Non ha voluto S. B. permettere a certi di questi Baroni romani, che possino far commedie nelle case loro, col ridotto dei suoi soli parenti ed amici”; ma sette giorni dopo un altro Avviso riferisce: “Si fecero in casa di qualche comodo romano festini et commedie”. Salvo che in circostanze eccezionali, come l’anno santo 1575, la nobiltà aveva le sue feste, i suoi trattenimenti, le quintane e le giostre d’armi, i banchetti e i tornei; il teatro completava la festa, era una consuetudine epidermica, entrata nel gusto e nella tradizione, di cui non si poteva fare a meno, e che il papa evidentemente non credette opportuno combattere a fondo. Un teatro poi di cui ignoriamo il vero ambiente e di cui ci sfugge in ogni caso la chiave simbolica, psicologica, sociale.
Perciò tutti questi anni del pontificato di Gregorio, pur coi veti, videro sempre un fitto numero di rappresentazioni teatrali, limitate all’ambito delle case nobiliari; di tutte queste a noi però non è giunto alcunché, salvo che la citazione di qualche cronista, citazione superficiale e fatta en passant, senza annettervi alcuna importanza, segno di un uso ormai tradizionale, normale e codificato (“si sono fatte comedie per tutta Roma, non pure in casa di SS. ma anco di primari cittadini”, cod. urbin. 1045, Biblioteca Vaticana). Mancando i comici professionisti, è evidente che gli attori dovevano essere dei dilettanti o degli amatori che si producevano nelle numerose feste del carnevale. Con tutta probabilità intervenivano anche le Accademie con tutti i loro affiliati, che erano sempre in grado di allestire belle scene ed istruire buoni filodrammatici. I comici dell’Arte, però, dopo il primo duro colpo non si erano dati per vinti. E nel 1576 tornarono a Roma, cercando di avere il beneplacito papale per le recitazioni. Riporta un contemporaneo: “qui erano comparsi molti comedianti con disegno di ottenere licenza di recitar questo carnevale, il che non havendo ottenuto, si sono partiti”.
E così la vita della città continuò tra alternanze di processioni e di feste, di riti liturgici e di follie carnevalesche, mentre il senso del tempo (il succedersi delle stagioni dell’anno) tentava di dare un ordine a quelle occasioni di spettacolo. L’abitudine sperimentata e regolata del Carnevale concedeva una pausa di follia e di sfogo prima del sopravvenire della Quaresima, creava una zona di licenza dove il capriccioso, l’assurdo, l’impossibile erano leciti. Ciò valeva per tutti, per il popolo soprattutto cui non erano concesse altre divagazioni che queste, ma anche per la nobiltà, che pur godeva di un assai più elastico ritmo festaiolo. I continui compromessi coi nobili, ai quali il papa s’era accomodato, avevano prodotto delle smagliature nelle sue proibizioni. E il rigore religioso che aveva potuto dettare quei veti nel 1574 si era di molto illanguidito se appena cinque anni dopo Congregazioni religiose potevano già riprendere nei loro conventi rappresentazioni teatrali di commedie. Lo riporta un Avviso del 4 marzo 1579: “et si fecero anche alcune Commedie da gentiluomini romani e da padri Theatini nel loro convento, et in particolare una vaghissima festa dal signor Vincenzo Vitelli”. Due anni dopo, nel 1581, il papa fece delle concessioni ufficiose permettendo maggiori divertimenti. Questo viene confermato da due testimonianze preziose, la prima del Mucantius, maestro delle cerimonie in Vaticano: “Hoc anno S.D.N. permisit ad exilarandum populum paucis quibusdam diebus hoc est a secunda ferie post sexagesimam personatos per urbem incedere, et brevia consueta velocius currentibus elargiri, exceptis tamen diebus dominicis et festivis ac sexta ferie et sabbato, prout a tempore Pii p. V nimiam priorem libertatem restringendo, introductum fuit” (“Diarium”, Archivio segreto pontificio, cod. 12547); e la seconda del Montaigne: “Le caresme-prenant qui se fit à Rome cet année-là fut plus licentieus par la permission du pape, qu’il n’avoit esté plusieurs années auparavant”; e più avanti, nello stesso brano, l’autore degli “Essais” ci dà una interessante notazione sulle consuetudini delle gentildonne romane: “Ce jours-là toutes les belles jantifames de Rome s’y virent à loisir: car en Italie elles ne se masquent pas comme en France, et se monstrent tout à descouvert. Partout où elles se laissent voir en public: soit en coche, en feste ou en théatre, elles sont à part des homes”. Questa frase del Montaigne ci conferma che nelle feste nobiliari le donne erano ammesse alla rappresentazione teatrale, anche durante questi anni di generale repressione ed è un’ulteriore attestazione dell’ampio margine di libertà di cui godevano i nobili romani. Insomma i veti avevano tutta la loro efficacia ed esercitavano una funzione repressiva solo nei confronti del popolo; la nobiltà, invece, pur probabilmente rinunciando a qualche raffinata consuetudine (i bagni pubblici, ad esempio), aveva trovato gli opportuni mezzi di pressione e di convincimento.
Negli ultimi anni del pontificato di Gregorio XIII le cronache, per quel che ci riguarda, sono più ricche di particolari o meno evasive: “in casa di mons. Ruizzo portoghese fu fatta una commedia nuova, più bella che si sia vista da molti anni addietro, nella quale furono molti cardinali e signori principali della corte, con infinite gentildonne et bellissimi intermedii…et dicono che si stamparà presto” (Avviso di Roma, 21 febbraio 1582, cod. urbin. 1050, Bibl. Vat.). Qua e là il cronista ora specifica se la commedia rappresentata è nuova per Roma, avvisa d’una eventuale messa in stampa e finanche snocciola commenti spiritosetti e notazioni acidule, adeguandosi ad un probabile gioco di società, a noi ignoto, o abbandonandosi a ripicche astiose; senza mai darci però né il titolo né l’autore, e senza nemmeno accennare alla trama o alla struttura della pièce messa in scena. “Domenica notte a istanza del s. Gio. Giorgio Cesarini fu fatta una incamiciata di 40 cavalieri i quali in diversi luoghi della città ruppero lancie a vista di spettatrici, che più tosto noriano i tronchi sodi che spezzati, et dopo detti Guerrieri si ridussero in casa di detto signore. Alla cena et alla Comedia di bellezza corrispondente al proscenio et inserta d’auditori simili alle rose silvestri, che sono belle, ma non sanno di buono” (Avviso di Roma, 25 gennaio 1584, cod. urbin. 1052, Bibl. Vat.).
Il pontificato di Gregorio XIII ai avviava così al termine. E proprio gli ultimi mesi del suo regno videro un accentuarsi di feste e di spettacoli, e soprattutto registrarono un ritorno inatteso: quello dei Comici dell’Arte. Infatti nei primi di febbraio del 1585 i cronisti parlano della presenza dei comici Gelosi a Roma, invitati probabilmente da qualche influente personaggio che aveva buone speranze di ottenere finalmente la licenza papale (si parla dell’ambasciatore di Spagna). Ecco il testo dell’Avviso: “questa città è entrata in qualche speranza di poter havere le commedie pubbliche zannesche bandite di qua tanti anni sono” (9 febbraio 1585, cod. urbin. 1053). Nei giorni seguenti, però, non si fa più parola dei nostri comici, segno sicuro che le pressioni non sortirono l’effetto desiderato. Il commento sconsolato di un cronista, alla fine del periodo carnevalesco, conferma le nostre previsioni: “lunedì da tre scalzi dello ignudo popolo israelitico fu corso il primo pallio, con tutte quelle insipidezze ch’imaginar si possa, non havendo Roma altro trattenimento in questo Carnevale, che spessi homicidii, et la vista d’un passeggio per il corso di bestie bipede et quadrupede senza maschere” (Avviso di Roma, 27 febbraio 1585, ibidem). Indubbiamente anche la sola venuta dei Gelosi testimoniava il mutamento avvenuto alla Corte di Roma, la consapevolezza che di esso avevano quei nobili che si erano adoperati per far venire la compagnia comica nella città, e soprattutto rivelava il desiderio e l’attesa di tutti per la nuova forma di arte teatrale. Il papa restò fermo nei suoi veti ma fu notato un suo diverso atteggiamento o perlomeno un nuovo predisporsi: così si preparò il terreno perché col successore si avesse un esito migliore.
D’improvviso papa Gregorio XIII moriva il 10 aprile 1585. Un Conclave molto rapido eleggeva al papato il cardinale Peretti, che prendeva il nome di Sisto V (24 aprile 1585-29 agosto 1590).
L’atteggiamento del nuovo papa nei riguardi del teatro fu diverso da quello del predecessore. Non riesumò proibizioni né pose impedimenti; riaprì la città ai comici dell’arte e permise una larga libertà nelle rappresentazioni. La Commedia dell’Arte entrò nei palazzi vaticani e persino nei monasteri (“dopo un sermone che il p. Toledo aveva predicato nella Sala di Costantino, Sua Santità aveva ricevuto a mensa la sorella, il cardinale Montalto, don Michele Peretti, e le costoro due sorelle. Quindi donna Camilla erasi ritirata coi suoi giovinetti nella propria abitazione al palazzo dell’arciprete di S. Pietro, ed ivi i “Desiosi” avevano avuto l’onore di rappresentare una commedia molto applaudita”. “Una di quelle sere passate il card. Alessandrino fece un banchettone alli frati della Minerva, col trattenimento d’una commedia zannesca nel Monastero”; Avvisi di Roma, 29 gennaio 1586, cod. urbin. 1054, Bibl. Vat.).
I cardinali ripresero ad andare a teatro, o meglio ricominciarono a farlo apertamente, ed il popolo riebbe il suo teatro pubblico. Il 14 gennaio del 1587 correvano queste voci: “si dice che i commedianti saranno permessi pubblicamente in questa città, eccetto che nelli tempi privilegiati dalla Chiesa, purché paghino un tanto in servitio dei luoghi pii”; ed il 31 gennaio s’aveva la conferma: “s’è concesso alla compagnia venuta a Roma delli Desiosi di far comedie, eccetto che nelli venerdì, et nelle feste comandate, né meno di notte, alle quali però non andarano donne, né mascare, né travestiti con armi offensive né defensive, con prohibitioni di fare strepiti, né tirare zaganelle nel proscenio, sotto le pene contenute nel bando pubblico per mascare” (Avvisi di Roma, cod. urbin. 1055, Bibl. Vat.). Contemporaneamente venivano emessi degli ordini per regolare l’afflusso del pubblico e per tutelare il buon andamento delle recite. Le disposizioni erano quelle solite: nessuna commedia di notte dopo le 24; non era permesso recitare né il venerdì, né la domenica, né gli altri giorni festivi; era proibito l’ingresso alle donne, alle persone mascherate e a chi portava armi di qualsiasi genere; nell’interno del teatro era vietato fare eccessiva confusione, tirare zaganelle e melangoli agli spettatori e ai commedianti.
La voga di queste rappresentazioni aveva preso tanto piede nella città, che non ci si limitò più al periodo carnevalesco. I comici presero ad affluire anche in altri periodi dell’anno, come è attestato da un Avviso del 31 ottobre 1587: “Sono qui alcuni commedianti, che afferiscono di pagare un tanto al mese in beneficio dei luoghi pii, purché a loro sia permesso di esercitare questo trastullo onestamente, et il card. Aldobrandino procura che il detto utile vada a beneficio delle Monache chiamate le Convertite, per essere veramente molto bisognose” (Cod. urbin. 1055, p. 465 recto, Bibl. Vat.). Evidentemente il successo dei Desiosi aveva avuto il suo effetto e ci si affrettava a seguire il loro esempio. Il benevolo atteggiamento di papa Sisto verso il teatro è confermato anche dall’accoglimento di questa richiesta inusuale, con la quale si sanzionava quasi l’inaugurazione di una specie di teatro stabile funzionante per buona parte dell’anno. Un Avviso del 4 novembre infatti riporta: “i commedianti scritti ottennero di possere recitare in Roma questi loro trattenimenti honesti con pagare certo danaro al mese da applicare a luoghi pii” (ibidem, p. 468 recto).
Che questa compagnia non fosse quella dei Desiosi ci è confermato da una cronaca dell’anno successivo, ancora nel Carnevale: “I comici Desiosi hanno ottenuto licenza con porgere certe elemosine ai luoghi pii di recitare le loro commedie in Roma, et hoggi vi hanno dato principio con molto gusto del popolo, pagando ciascuno che vuol vederle una certa miseria; né possono (per levare i scandali) intervenirvi donne et huomini con arme di qualsivoglia sorte” (Avviso di Roma, 10 febbraio 1588, cod. urbin. 1056, p. 63 recto, Bibl. Vat.). L’iter delle rappresentazioni ricalcò quello dell’anno precedente ma questa volta sappiamo molti più particolari: si pagava un giulio per la commedia e due per vedere una tragedia; i comici non recitavano solo nel teatro pubblico ma la sera si recavano nei vari palazzi nobiliari, ricevendo compensi aggirantesi sui dieci scudi; gli Orsini, i Cesi, i Cesarini e i Rucellai fecero a gara per accaparrarseli; ed anche il card. Sforza li fece recitare nel suo “guardaroba”, invitandovi alcuni cardinali e parecchi prelati. Non è documentato che in queste recite, quasi o del tutto private, la Compagnia utilizzasse le sue attrici, o almeno la celeberrima Diana Ponti. Un carteggio fra un certo Donati e il conte Ulisse Bentivogli di Bologna ci rivela che nel gruppo che si preparava a venire a Roma, invitato dal card. Montalto, nipote di Sisto V e vice-Cancelliere della Chiesa, spiccavano la Diana e un certo Andreazzo Gratiano. E il Donati annotava spazientito: “Sappia bene V. S. che questo gruppo è un bordello d’innamoramenti di puttane con questi furfanti; e questo è quanto mi occorre per hora”.
Saltando il 1589, anno nel quale non c’è stranamente alcuna notizia di recite ma che verosimilmente fu simile agli anni precedenti, gli ultimi dati che abbiamo, per questo periodo, le troviamo nei due mesi del Carnevale del 1590, ultimo anno del pontificato di papa Sisto. Già a metà gennaio c’era notizia di attori: “trovandosi qua nel carnevale sono comparsi qua commedianti per dar spasso a Roma al solito degli altri anni, et intanto vanno recitandone per le case dei particolari, sì come fecero ultimamente nel palazzo del duca di Bracciano” (Avviso di Roma, 20 gennaio 1590, cod. urbin. 1058, Bibl. Vat.). Qualche giorno dopo si riportava: “lunedì i comici Desiosi, et Gelosi, cominciaro a recitare qua le loro commedie sotto li soliti bandi” (ibidem, 31 gennaio, p. 47 verso). Che fossero presenti nella città tanti attori (in 15 giorni si attesta la presenza di ben tre compagnie, due delle quali prestigiosissime) non ci dice soltanto che i veti di Pio V e di Gregorio XIII erano stati messi da parte, né ci rivela solamente il fervore di vita spettacolare nuovamente in auge nell’Urbe. Ci documenta finalmente anche un diverso atteggiamento delle alte sfere vaticane nei confronti del teatro tutto, atteggiamento di longanimità e di distacco se non di favore, che permetterà a Roma nel ‘600 una moltiplicazione di teatri, domestici e non, ed un fiorire incredibile di avvenimenti e rappresentazioni teatrali. Il Bouchard, in visita a Roma nel 1632, racconterà che ad ogni cantone della città s’incontravano commedianti: “on y vit quantité d’extravagances, n’y ayant point de rue où l’on ne vit, ou bien une petite comédie à troi ou quatre personnages, qu’ils appellent Lingaresia (zingaresca) ou un assemblage de Covielli, Dottori, Pantaloni, Raguetti, etcc…, qui se rencontrant se chantaient pouilles”.
Gennaro Cucciniello