“Il teatro erudito a Roma nei primi anni della Controriforma”
Questo testo è estratto da un capitolo della mia tesi di laurea, discussa nel lontano ottobre 1967, relatore il prof. Giovanni Macchia, correlatore il prof. Giorgio Melchiori, pp. 63-86. La ricerca si intitolava: “Il teatro e lo spettacolo a Roma durante i pontificati di Gregorio XIII e Sisto V”.
In un precedente articolo ho già sottolineato che durante il pontificato di Gregorio XIII (1572-1585) i severi veti del periodo iniziale si erano scontrati con l’inveterata abitudine dei ceti nobiliari a garantirsi le loro feste, gli intrattenimenti, i tornei e i banchetti, col teatro che completava la festa. E ho notato che la Curia evidentemente non aveva creduto opportuno combattere a fondo queste consuetudini ed aveva tollerato numerose infrazioni.
Questi compromessi non avevano mancato di suscitare l’indignata reazione di quanti nella Chiesa italiana si adoperavano per un effettivo rigore di vita, e fra tutti, il cardinale Paleotti a Bologna e il cardinale Borromeo a Milano. Il Paleotti, avendo avuto notizia nel 1578 che a Roma si stava “per dar licenza ai Bolognesi di far fare le commedie” (G. B. Castiglione, “Sentimenti di S. Carlo Borromeo intorno agli spettacoli”, Bergamo, 1759, p. 88), se n’era lamentato ed aveva fatto contro tale deliberazione un ricorso “presentando una memoria teologica assai efficace, in cui si dimostrava che l’uso dell’arte comica era incompatibile con la professione del Cristianesimo”. Gli fu risposto da Roma dal card. S. Sisto, nipote del papa, che cercò in qualche modo di giustificare l’iniziativa, appigliandosi in parte all’azione di Carlo Borromeo a Milano. La lettera è datata 28 giugno 1578: “Io mi son voluto informare del fatto delle Commedie poiché non sapevo che fosse stata concessa licenza di recitarle costì in Bologna, e in effetto ho trovato che la licenza si è data per l’informazione che si è avuta che Mons. Ill. di Santa Prassede (il Borromeo) le ha tollerate in Milano per essere oneste; e però in queste non saprei dire altro a V. S. Ill. se non che si contenti di pigliare questa fatica, che siano prima viste da qualcuno, e le corregga come pare al giudizio e prudenza sua. E le bacio umilmente le mani, che nostro Signore Iddio la contenti”.
A Milano, intanto, il card. Borromeo continuava la sua guerra al teatro, e continuavano anche i contrasti col Governatore. Tanto che nel 1584, essendosi il santo vescovo appellato all’autorità civile per ottenere la repressione d’uno spettacolo, gli fu risposto “che si poteva passare senza pena questo delitto, principalmente che nello stesso tempo fu recitato in Roma, nella casa di un cardinale, un dramma alla presenza di alcuni altri porporati”. Ci si riferisce sicuramente ad una festa data nella villa del card. Medici; così ne parla un Avviso di Roma: “la sera del giovedì grasso il card. Medici diede una festa nella sua villa, e vi fu rappresentata una nuova commedia, dopo la quale tutte le eccellenze intervenute, i cardinali Este, Gonzaga, Gesualdo, Spinola, Alessandrino, Rusticucci e Sforza, venivano banchettate con trattenimenti et concerto di musica et giochi” (13 febbraio 1584, cod. urbin. 1052, Bibl. Vat.). Il Borromeo scrisse subito a Roma e fece interrogare il papa da mons. Speziano, che poi così gli rispondeva: “Sua Santità mostrò di non sapere che si fossero fatte quelle commedie, delle quali V. S. Ill. mi scrisse, e gli spiacque d’intenderlo, per il male esempio che si dà”. Altro segno questo della generale connivenza tra aristocrazia romana e Curia per cercare di eludere la rigorosità papale, e che mette in luce anche lo strano isolamento in cui il pontefice era confinato.
Gli avvenimenti, su cui mi sono dilungato nell’articolo sul “Teatro comico”, riguardavano, nella trattazione di questi ultimi anni, solamente l’avvicendarsi a Roma dei comici dell’Arte, già organizzati in troupes affiatate e celebri. Ma sul fronte della commedia erudita? Si è già cercato di chiarire la funzione del teatro nell’ambito della festa nobiliare, e si è visto che durante tutto il pontificato di Gregorio XIII il teatro sopravvisse solo in questa dimensione, equivoca e di secondo piano. Nell’intero arco dei quattordici anni (tanto durò il regno gregoriano) una sola volta le cronache ci hanno tramandato notizie precise di una recita teatrale, e precisamente nel carnevale del 1585, in occasione d’una festa data dal duca di Sora, figlio naturale del papa. Ecco il testo dell’Avviso: “domenica sera, dopo un ballo di due hore, nel palazzo del duca di Sora, incominciò la commedia… d’arte e di favola alquanto difettosa, intitolata “Le stravaganze d’amore”, dello autore Castelletti Cristofaro, notaro; l’eccellenza, anzi singolarità di 5 istrioni la sostentaro dilettissimamente, cioè di un franzese italianato, d’un Norscino. D’un pedante, d’una serva romanesca e d’un Napolitano, et in essa gentilmente furono toccati, o per dir meglio feriti nel viso gli Archimisti, i mariti che fanno volontari divorsi, i mesi e gli anni con le lor mogli, gli innamorati che con i vanti soverchi et con le loro curiosità infamano a torto le dame et i favori che da esse ricevono et i fuorusciti che hanno fatto il mondo impraticabile per non esse castigati come si deve” (6 marzo 1585, cod. urbin. 1053, p. 110 recto e verso).
Le indicazioni sono abbastanza sicure; si trattava di un autore romano minore, il notaio Cristoforo Castelletti, e di una sua commedia, queste “Stravaganze d’amore”. Questo notaio aveva esordito nel 1561 con “Il furbo”, commedia in cinque atti, con una folla inverosimile di personaggi accalcati per le strade e i cortili della città, alle prese con le più svariate incredibili vicende. Aveva poi scritto “I torti amorosi”, rappresentata nel 1581 ma che sarà stampata a Venezia solo nel 1613, che si rivela una mediocre pittura dell’ambiente romano del tempo, e che presenta la figura d’un “Tizzone Norcino hortolano” che, nonostante si muova da pesante campagnolo sulla scena, pur tende a toscaneggiare con mille moine linguaiole. Il Castelletti resterà fedele a questo suo vezzo anche più tardi, in un altro suo lavoro, la “Amarille”, dove Cavicchio, un capraio, maledicendo i padroni, pure toscaneggia in versi: “Gli vorrei veder tutti in su le corna / d’un toro c’ha perduto la giovenga”.
“Le stravaganze d’amore”, che sarà stampata a Venezia nel 1597, è formata da un prologo e da cinque interminabili atti. La vicenda s’incentra a Roma e l’autore si compiace di darci un quadro completo della vita familiare romana, dei più vari casi d’ogni giorno visti dalle stanze e dal cortile d’una vecchia casa, con tutte le sue complicate funzioni economiche, le sue usanze tradizionali e superstizioni. Non a caso il perno dell’azione è la vecchia fantesca Perna (che con felice invenzione l’autore fa parlare in dialetto romanesco), borbottona tuttofare, eternamente zoccolante in quegli interni polverosi, pronta a ruffianare quando deve aiutare la padrona in qualche amorazzo, fedelissima in questo alla tradizionale funzione della serva nel repertorio teatrale dell’epoca. Ecco come parla della sua padrona: “Non c’ene femina a Roma, che sia majure nemica dello ciovettà che Clarice; e quanno vede quessi belli in piazza che se voco magnà le femine coll’occhi, questi hominacci riballi che vaco sbaccananno e sbordellanno tutto lo dine, li vié tamanta de raia, che li maidittioni e le biasteme che manna non haco fine né fonno”.
Bussa alla porta un astrologo che chiede dell’alchimista Metello. Perna: “Che ene? Che domannate?” Astrologo: “Messer Metello è in casa?” Perna: “Misser none”. Astrologo: “Dove può esser annato?” Perna: “E’ ito all’Arco Latrone, voizi dicere a ponte Quattro Capora, lane dove se spurano le trippe. (E che vò che ne saccia dove sia ito io? Me lo deve venì a dì a mene, veh!?)”.
E l’altra serva Spilletta sfogandosi: “V’è la bucata de quaranta lenzola, senza le camise e li panni menuti; a me tocca de fa il pane, dà lo ‘mbratto alle galline, riempì l’abbeveratore delli palommi, de scopà la casa, de refà le letta, de lavà la vascella e de voità –co’ reverenzia- fì allo pitale. Non me lassano mai arreputà; no me daco manco tiempo de metteme lo voccone ‘na bocca. Tutti li stazzoni e tutti li perdoni me fanno perdi: sono più de quattro sàvati che non so stata a santo Ianni benedetto”.
Questi felici spunti in romanesco non sono rivelatori di una qualsiasi intenzione “popolare” dell’autore. Servono soltanto a ravvivare la monotonia dell’insieme. Tutto l’ordito è ricalcato sull’abusato cliché della commedia a mezzo tra un impianto ed una struttura regolari e dei personaggi tipizzati in maschere, con in più una certa dose di naturalismo suscitato dalla prima Controriforma. E che l’autore intendesse porsi nel solco tradizionale del teatro cinquecentesco, nella scia d’una cultura cauta e conservativa sotto le apparenze un po’ manierate della vivacità popolaresca, lo testimoniano non solo le sue opere ma anche e in maniera programmatica le parole del Prologo de “I torti amorosi”: “le commedie di sustanzia radissime se ne vedono rappresentare, dipendendo questo dagli ascoltatori, (che) vedendosi porgere agli occhi un vitio del quale essi sono macchiati, temono in presentia degli altri non arrossirvi; per questo in quelle poche comedie che si fanno vogliono solo si dicono ciancie e cose ridicole, e stiman più una chiacchierata all’improvviso e fuori proposito d’un vecchio vinitiano et d’un servitor bergamasco, accompagnata da quattro ationi disoneste et vili, usate da bagattelieri, che una comedia grave”.
Gennaro Cucciniello