“Neo-partito e anti-partito. L’ideologia nascosta dietro la Repubblica”. Intervista di Simonetta Fiori a Salvatore Lupo.
Lo storico ricostruisce le pulsioni prepolitiche dal fascismo a oggi.
L’articolo è stato pubblicato dal quotidiano “la Repubblica” il 26-4-2013
Una prefazione. Ho pubblicato sul mio Sito nel novembre 2013 un’intervista al sociologo dell’Università di Torino Marco Revelli, nella quale si commentava il suo saggio, “Finale di partito”, una riflessione sulla crisi, ritenuta irreversibile, della struttura tradizionale del partito politico, degenerata in una rete di potere che ha intrappolato e corrotto tutto e quasi tutti (il cantiere sempre aperto delle riforme strombazzate e mai realizzate). La politica sembrerebbe diventata soprattutto arte dell’inganno, che è anche il titolo di un saggio di Martin Jay, storico dell’Università di Berkeley (The virtues of mendacity: on lying in politics”, 2010). In curiosa sintonia, direi, con un cartello che ho visto nei mesi scorsi esibito in una manifestazione a Roma: “In Italia è meglio essere ricercati che ricercatori”. Ora pubblico un’intervista-commento dello storico Salvatore Lupo, autore del saggio, “Antipartiti”, Donzelli editore, libro nel quale l’autore rivendica invece la necessità stringente di una riforma radicale del partito politico, corpo collettivo e intellettuale di pensiero e azione, struttura indispensabile per un buon funzionamento della democrazia nel mondo globalizzato, soprattutto in un momento come questo nel quale i partiti hanno talmente perso fiducia e credibilità da trascinare a fondo l’idea stessa di democrazia partecipativa e delegata.
Da tempo ne avevo una sensazione confusa ma le vicende degli ultimi mesi mi stanno davvero convincendo che la maggioranza degli italiani detesta il cambiamento reale almeno quanto adora la lamentela e l’insulto gratuito. L’unica grande stagione di riforme dal dopoguerra, quella degli anni ’60, legata al primo centro-sinistra, si concluse con tensioni incredibili sull’orlo di una guerra civile, tra bombe, stragi, depistaggi di servizi segreti, terrorismo. Oggi assistiamo, dopo Tangentopoli e il lungo sfiancante ciclo berlusconiano, all’esplodere dello scandalo dei costi della politica e, soprattutto, alla crisi –che sembra irreversibile- dello stesso principio di rappresentanza democratica. Non riusciamo a dare una soluzione positiva ad un’anomalia tutta italiana: i governi si identificano con lo Stato, le opposizioni si configurano automaticamente in anti-Stato, si statalizzano le forze politiche di maggioranza, le opposizioni si confinano in una sorta di ribellismo sterile. Le conseguenze negative sono l’appropriazione monopolistica delle istituzioni, col seguito di corruzione, clientelismo, arroganza di un potere impotente, da una parte; dall’altra l’emarginazione, il familismo, l’arte di arrangiarsi, l’economia sommersa e criminale, il “forconismo”, un’attitudine tutta italiana a reclamare i diritti e a dimenticare i doveri. Marco Revelli, in un articolo, sostiene che –più che sulla categoria della “guerra civile ideologica”- bisognerebbe ricorrere alla categoria di giudizio gobettiana della diseducazione nazionale alla pratica del conflitto sociale e delle idee (l’eterno vizio italico del compromesso e del familismo amorale nascosto sotto la radicalità e la violenza verbale degli insulti). Si sono moltiplicate le frammentazioni micro-partitiche e le pratiche trasformistiche al di sotto della coperta delle coalizioni alla carta; le vocazioni trasversali consociative e ministeriali sono prosperate sotto la finzione linguistica dell’invettiva e della scomunica reciproca. Lo diceva pure Sun Tzu, parlando dell’arte della guerra: “La strategia è la via del paradosso. Così chi è abile si mostri maldestro; chi è utile si mostri inutile”. Una paradossale variante cinese della folkoristica circolare della Marina Borbonica napoletana: “Chi sta a poppa corra a prua, chi sta a prua si sposti velocemente a poppa. Facite ammuina”.
Impegnati a discutere tutti i giorni di Caste e Corporazioni, populismo, Destra-Sinistra, noi italiani spesso dimentichiamo che solo riuscire a competere a testa alta nel mondo globale ci salverà dal declino inarrestabile cominciato nell’ultimo decennio del Novecento. Dobbiamo sempre ricordarci che la crisi è rottura di vecchi equilibri, non solo fallimento e catastrofe; essa richiede decisione dopo i necessari momenti di riflessione. Stiamo facendo i conti con la “contro-democrazia” descritta da Pierre Rosanvallon, questa “democrazia della sorveglianza” attraverso cui la società –in questa epoca di sfiducia dilagante- pretende di esercitare poteri “di controllo e di correzione” più che “di governo e di direzione”, per dirla con Ilvo Diamanti. Questo è il suo grande limite, per ora.
E, per finire, mi piace citare la paradossale conclusione scritta da Michele Serra in una sua “Satira preventiva” (Espresso, 2014, n. 3): “Quali sono le notizie che il popolo del Web considera necessario commentare? La risposta del prof. Di Marco fa riflettere: “Tutte. Qualunque notizia, di qualunque genere, dallo scoppio della terza guerra mondiale a una lite tra automobilisti, scatena nell’utente del Web l’impulso al commento. C’è un rapporto indirettamente proporzionale tra il bisogno di commentare e la propria competenza in materia. Meno se ne sa, più se ne parla. Postate uno studio sulla fissione nucleare e vedrete che a commentarlo saranno il tramviere, la massaia, l’insegnante di ginnastica. E mi scusi, signore, chi siamo noi per impedirglielo? Adesso si levi di torno, devo partecipare sul Web a un interessante dibattito sulla menopausa. Lei non ha idea di come sia appassionante, con il nickname di Sarah Fiftyfive, dire la mia sul problema delle vampe di calore”. Sarebbe come salire il Kappa Due affidandosi a un collega d’ufficio o a un cantautore piuttosto che a una guida alpina. Di più: sembra a G. De Luna che la democrazia della rete abbia importato nella modernità del web le oscenità carnevalesche della millenaristica utopia del “mondo alla rovescia”.
Gennaro Cucciniello
L’articolo-intervista di Simonetta Fiori a Salvatore Lupo.
“L’anti-partito? Non è la soluzione ma il problema. Sono convinto che molte tendenze degenerative non siano state conseguenza di un “eccesso di partito” ma, al contrario, della presa sempre più debole dei partiti sulla società italiana”. Salvatore Lupo, studioso non nuovo ad analisi controcorrente, ha appena dato alle stampe un libro che si intitola “Antipartiti” (Donzelli), ideale prosecuzione di “Partito e antipartito”, saggio che si fermava al 1978, all’uccisione di Moro. Questa volta la sua riflessione storica arriva all’oggi, seguendo le tracce di “un’ideologia” –l’antipartito- che sin dal fascismo si estende prepotentemente nel sottofondo della storia nazionale, fino ad esplodere nel 1993 con la retorica della nuova politica contrapposta alla vecchia –vedi Lega Nord o Forza Italia- ora ripresa quasi in fotocopia dal Movimento 5 Stelle. Un fiume sotterraneo che invade luoghi inaspettati, come la Destra eversiva e la P2, le mafie e la nuova camorra organizzata, ma anche –su un versante opposto- il movimento del Sessantotto e più di recente il “partito dei giudici”. Con conseguenze talvolta simili, nell’arco degli ultimi vent’anni, “perché i propugnatori del cambiamento hanno dimostrato analoghi se non maggiori difetti della tanto detestata partitocrazia: partiti personali o neopartiti che –sventolando il vessillo della novità e della società civile- sono stati assai meno incisivi dei partiti tradizionali”.
Nostalgia per i vecchi partiti? No, nessuna nostalgia. Però dobbiamo levarci gli occhiali con i quali negli ultimi vent’anni abbiamo guardato la storia repubblicana. Non solo nei primi decenni le forze politiche furono in grado di rappresentare davvero l’Italia reale, ma anche negli anni Settanta –a dispetto delle tesi storiografiche prevalenti- fecero cose fondamentali come la riforma delle pensioni, della sanità, della psichiatria, il nuovo diritto di famiglia e molto altro ancora. E aggiungo: non è forse un caso che tra le rovine fumanti dell’attuale scena pubblica il massimo leader morale, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sia figlio di quella storia, una personalità cresciuta nel PCI, il partito più partito di tutti.
Perché definisce “l’anti-partito” un’ideologia, distinguendola dall’anti-politica? Mi sembra più azzeccato questo termine: chi tuona contro i partiti non rinuncia a far politica. Non hanno certo rinunciato le formazioni nate dalla crisi della prima Repubblica, anche se per ragioni di marketing hanno preferito definirsi movimenti.
Lei rintraccia un’analogia con i 5 Stelle? Grillo porta all’esasperazione i toni dell’antipartito, riprendendo la retorica dei neopartiti: i partiti tradizionali fanno schifo, noi siamo un’altra cosa. Pretende di incarnare il nuovo e ripete slogan coniati dai manifestanti di vent’anni fa. “Arrendetevi, siete circondati dal popolo italiano”, è un’espressione usata dai militanti neofascisti davanti a Montecitorio nel 1993. E poi ritorna la mistica della società civile, una formula fin troppo abusata nell’ultimo ventennio.
A che cosa si riferisce? A un meccanismo che ritroviamo nei 5 Stelle ma anche in quei movimenti che hanno arruolato la magistratura nella lotta politica: questi movimenti non ammettono di essere una parte tra le altre, appunto partiti, ma si pensano come totalità. Noi siamo la società civile –e dunque l’insieme delle persone per bene- voi no. Ora questo procedimento diventa inquietante quando coinvolge la magistratura, che è un potere dello Stato, e dunque non dovrebbe per principio prendere parte.
Di solito l’origine dell’antipartito viene collocata nel movimento dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, tra il 1944 e il 1946. Lei risale ancora più indietro, a Giuseppe Bottai. Bottai fu il primo a cogliere dentro lo stesso fascismo la dinamica tra antipartito e iperpartito: prima la diffidenza verso il Pnf, sospettato di riprodurre il vecchio mondo prefascista delle parti, poi la sopravvalutazione di quel partito unico che si identifica con lo Stato, ed è qui la nascita del regime. Questa doppia pulsione la ritroveremo in età repubblicana, specie a destra, con la liquidazione dei partiti come principale ostacolo nel rapporto tra popolo e sovranità.
Tra i più tipici rappresentanti dell’antipartito, negli anni Cinquanta, lei include personalità diverse come Indro Montanelli ed Edoardo Sogno: tutti artefici in vario modo di oscure trame anticomuniste. Sì, sospettavano che gli scrupoli legalitari della DC –che si rifiutava di mettere fuorilegge i comunisti- dipendessero da solidarietà partitocratiche. E il loro arcinemico era l’iperpartito per eccellenza, il PCI. Non è un caso che l’antipartito fosse diffuso soprattutto nelle correnti culturali e politiche della destra.
Può sorprendere che in questa genealogia dell’antipartito lei arruoli anche la P2, la loggia massonica di Gelli. Senza però sposare tesi complottiste. Non penso infatti che la P2 sia stata la centrale dello stragismo, piuttosto un importante campo di comunicazione tra membri dell’establishment. La loggia massonica si proponeva come un pezzo importante della destra che non riusciva a farsi partito. Se si va a rileggere i documenti della P2, colpisce il tono critico al “professionismo politico corruttore”, incapace di esprimere gli interessi della società.
Lei sostiene che lo stesso Grillo, pur totalmente estraneo alla loggia, sia consapevole della curiosa parentela. E’ stato lui a dichiarare: “Vedete, io ho messo su una piccola P2 sobria e trasparente, La piduina degli aggrillati”. La sua è una provocazione ma mostra di sapere bene che la loggia massonica fu una forma di antipartito.
Continuando in questa storia nera, tra le forme di antipartito lei inserisce anche la mafia e le Brigare Rosse. Sì. Per la mafia occorre una distinzione: fino a un certo punto rappresentò una struttura di servizio per la macchina politica, poi si mise in proprio per una drammatica scalata al potere in concorrenza con i partiti.
Ma sarebbe sbagliato liquidare l’antipartito come pulsione storicamente antidemocratica. Sbagliato sì, anche perché è esistito un antipartito di tutt’altro segno, di radice azionista o liberaldemocratica. Ed era antipartito anche il Sessantotto. Quel che però viene fuori è che la retorica antipartitica è vecchia quanto è vecchio il Novecento, seppure più robustamente fondata negli anni Novanta del secolo scorso. E il fatto che oggi Grillo ripeta slogan del 1993 rivela il carattere fumoso e inconcludente di queste formule. L’antipartito non ha mai portato da nessuna parte. E più che distruggere i partiti, dovremmo oggi preoccuparci di rifondarli daccapo.