Inno omerico a Demetra: il re degli Inferi strappa la figlia alla madre.

Inno omerico a Demetra: all’inferno e ritorno.

Una figlia strappata alla madre, la nostalgia di entrambe. Mito di una natura che muore e, miracolosamente, rivive.

 

Di tutti gli inni omerici, quello a Demetra, che appartiene al gruppo dei maggiori, con i suoi 495 esametri, è forse il più ricco di allusioni e sfumature, di margini ombrosi. Non per nulla l’inno, datato dagli studiosi alla prima metà del sesto secolo a.C., serve a celebrare i misteri eleusini, cioè un culto iniziatico relativo alla fertilità della terra, da un lato, alla felicità ultraterrena dall’altro. Sono queste, infatti, le due componenti del racconto mitico che l’autore del testo (si sa che l’attribuzione degli inni a Omero è un puro flatus vocis e che a comporli furono degli anonimi usando formule e stilemi anche omerici) esibisce nel componimento. Allo stesso modo due sono le protagoniste: Demetra, la dea delle messi (la latina Cerere) e Persefone, la dea degli inferi (la latina Proserpina).

Il mito, che avrà tante variazioni e riscritture successive (tra cui Ovidio e Claudiano, ma pensiamo anche alla citazione dantesca di Purgatorio, XXVIII, 49-51), trova nell’inno omerico, dopo l’accenno nella Teogonia di Esiodo, la sua più antica formulazione. Esso vive di un dramma e di una ricomposizione, come osserva, con riferimento al celeberrimo e classico studio sulla fiaba di Vladimir Propp, il latinista e scrittore Alessio Torino in veste di curatore (“A Demetra. Inno omerico”, traduzione e cura di Alessio Torino, con uno scritto di Telmo Pievani, Contrasto editore, senza testo greco a fronte). La ferita inferta all’ordine è costituita dal rapimento da parte di Ade, re degli Inferi, della giovane Persefone, figlia di Demetra e Zeus. Ne consegue che la dea madre viva un periodo di angoscia, che il testo riferisce ripetutamente alla nostalgia per la figlia perduta (così come, specularmente, a Persefone è attribuito un pungente sentimento di mancanza della figura materna). Ritroviamo poi Demetra –e si noti che la connessione tra i due episodi non è del tutto logica e coerente- accolta sotto mentite spoglie in casa del re di Eleusi, Cèleo, dove accudisce il figlio di lui e di Metanira, di nome Demofonte. La dea vorrebbe, con un rituale che passa per l’immersione nel fuoco, donare al bambino l’immortalità, ma viene fermata da Metanira, che dopo averla spiata teme per l’incolumità del figlio, non avendo riconosciuta la natura divina della sua ospite. Ciò nonostante Demetra assicura la sua benevolenza agli Eleusini e richiede la costruzione di un tempio, in cui dovranno celebrarsi i riti in suo onore.

Adirata contro gli immortali, indifferenti al rapimento di Persefone, la dea decide tuttavia di rendere impossibile la fertilità della terra e di scatenare una terribile carestia, che impedirà agli uomini anche di fare offerte agli dèi: “Sulla terra feconda, quell’anno, lei lo rese il più tremendo / per gli uomini, e infausto. La terra non rilasciava più semi,/ li teneva nascosti Demetra bella corona./ Molti aratri ricurvi i buoi tiravano invano nei campi,/ molto orzo bianco cadeva inerte nei solchi”, suonano i versi 305-309. E’ allora che Zeus stabilisce il ritorno di Persefone: tuttavia la giovane, indotta da Ade a mangiare un chicco di melagrana, rimarrà avvinta per alcuni mesi ogni anno al suo sposo e alla dimora negli inferi, mentre per il resto del tempo potrà tornare sulla terra, in concomitanza con il ciclo delle messi. La nostalgia della madre per la figlia, e viceversa, è così risolta in modo compromissorio e d’altra parte la fanciulla divina che dal buio sotterraneo ritorna alla luce rappresenterà, certamente, la sorte delle sementi sepolte sotto terra e poi destinate allo splendore del frutto, ma anche la possibilità della resurrezione dal regno degli Inferi e dunque della sopravvivenza al di là della morte.

E’ perciò una favola di frattura e ricomposizione, di perdita e di ritrovamento. Così si rivolge Demetra alla figlia, appena tornata dall’Ade: “Figlia, non avrai certo mangiato del cibo mentre eri laggiù?/ Parla senza nascondermi nulla, così che lo sappia anche io./ Se è così, tornando dal nero Ade, potrai stare con me / e con il padre nere nubi, figlio di Crono,/ onorata da tutti gli immortali./ Altrimenti, scendendo di nuovo nei recessi della terra,/ lì vivrai per un terzo delle stagioni ogni anno,/ gli altri due con me e con gli altri immortali./ Ma appena la terra si coprirà dei fiori di primavera,/ odorosi e dipinti, allora dal cuore delle tenebre / tu risorgerai di nuovo, stupendo prodiglio per gli Dei e per gli uomini mortali” (versi  393-403).

La densità e profondità del mito narrato dall’anonimo autore non sfuggirono a un cultore come Cesare Pavese, che lo mise al centro di uno dei suoi “Dialoghi con Leucò”, intitolato “Il mistero”, in cui parlano Dioniso e appunto Demetra. Dice a un certo punto la dea rivolta a Dioniso, facendo riferimento alla Core, cioè la figlia trascinata negli inferi: “Tu corri il mondo irrequieto, e la morte è per te come vino che esalta. Ma non pensi che tutti i mortali han sofferto quel che raccontano di noi? Quante madri mortali han perduto la Core e non l’hanno riavuta mai più”. Insomma, tenebrosa e splendente, la favola parla di noi.                         

 

                                                                           Daniele Piccini

 

L’articolo è pubblicato a pag. 7 de “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera di domenica 8 maggio 2022.