James Joyce. Viaggio al termine del ‘900
Con l’”Ulisse” Joyce aveva sconvolto il romanzo, ma con “Finnegans Wake” andò oltre, inventando un poema dalla lingua babelica dove i miti si confondono con le canzoni da pub. L’ammiratore Umberto Eco lo definì “terrificante”. Tradurlo sembrava impossibile. Però due italiani, Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, ci sono riusciti. Qui spiegano come hanno affrontato un capolavoro venerato dalle avanguardie ma che oggi qualsiasi editore butterebbe nel cestino.
“Riverrun”, “Meandertale”, “Chaosmos” sono tre fra le parole-chiave (molte, e tutte assenti da ogni vocabolario) del romanzo di cui l’autore stesso pensava: “Forse è una follia. Si potrà giudicare solo fra un secolo”. Oggi è ancora troppo presto, di anni ne sono passati meno di ottanta, e l’opera estrema di James Joyce può continuare a sembrare un libro immaginario, una congettura di Jorge Luis Borges. Invece il “Finnegans Wake” non solo esiste davvero, ma viene persino tradotto in italiano. Di Joyce è opera estrema non solo perché ultima (è uscito nel 1939, diciassette anni dopo l’”Ulysses”, e due anni prima della morte dell’autore). Lo spiegò Umberto Eco nel 1962: “Pareva che Ulysses avesse sconvolto oltre ogni limite la tecnica del romanzo: Finnegans Wake supera questo limite oltre i confini del pensabile. Pareva che in Ulysses il linguaggio avesse dato prova di tutte le sue possibilità: Finnegans Wake porta il linguaggio oltre ogni confine di duttilità e di comunicabilità. Pareva che Ulysses rappresentasse il più ardito tentativo di dare una fisionomia al caos: Finnegans Wake costituisce il più terrificante documento di instabilità formale e ambiguità semantica di cui si sia mai avuta notizia”.
Più di recente lo scrittore Martin Amis ha significativamente intitolato “La guerra contro i cliché” una prefazione all’Ulysses, e vi ha così riassunto le quattro tappe fondamentali della produzione joyciana: “Gli accessibilissimi racconti di Gente di Dublino, il più o meno comprensibile Ritratto dell’artista da giovane, poi l’Ulisse, prima che Joyce si prepari per quell’immolazione di ostilità, di sterminio del lettore che è Finnegans Wake, dove ogni parola è un pun multilingue”. E’ il gioco di parole, quindi, la “terrificante” (Eco) arma con cui si compie lo sterminio del lettore (Amis). Nel pun le parole possono incastrarsi l’una nell’altra, aprendo nuove dimensioni di significato: i gemelli siamesi sono “soamheis” (so-am-he-is, così come io sono egli è); “Chaosmos” è il caos che non si oppone ma si interpone al cosmo; “riverrun” (prima e ultima parola del romanzo, scritta in minuscolo perché la fine si salda con l’inizio) è un’unione di “fiume” e “scorrimento” (ma può essere molte altre cose); “Meandertale” è una sorta di sciarada fra il “meandro” e il “racconto” (tale) che finisce per produrre un’entità vicina a “Neanderthal”, quindi all’uomo primordiale e ai suoi istinti primari. Giochi, ma quanto divertenti? Il titolo Finnegans Wake è ricavato dalla canzonaccia irlandese da osteria La veglia di Finnegan, il cui ritornello dice: “Vedi che avevo ragione?/ Alla veglia di Finnegan ci si diverte da matti!”. Per Joyce agglomerare parole o, al contrario, disaggregarle in atomi entropici di significato era anche un divertimento personale: non a caso gli capitava di chiamarlo “joycity”, gioiosità joyciana.
Al proprio “meandertale”, oscuro labirinto e puzzle narrativo, Joyce augurava lettori poliglotti e idealmente insonni. Dei traduttori non ha parlato (per quanto lui stesso abbia partecipato alla traduzione italiana di una sezione), ma il testo li postula onniscienti e invulnerabili. Dopo qualche saggio di traduzione italiana assai parziale da parte di scrittori intrepidi come Gianni Celati e Rodolfo Wilcock (oltre allo stesso Joyce), a decidere di affrontare non l’Ottomila di uno o due capitoli, ma l’intero Himalaya del libro completo è stato un traduttore bolognese, Luigi Schenoni (1933-2008): nell’incredulità generale pubblicò il primo volume nel 1982, da Mondadori, e arrivò poi a tradurre i due terzi dell’opera. Il suo testimone è stato raccolto da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone di cui ora esce la traduzione del penultimo tratto di “Finnegans Wake” (Libro Terzo, capitoli 1 e 2; Mondadori, pp. 420, euro 24), corredato da diversi apparati, oltre che dall’imprescindibile testo originale a fronte. Come dicono i nuovi traduttori, la difficoltà è che il romanzo “si traduce da solo”, poiché è scritto in una lingua babelica, in cui l’inglese si confronta con apporti di ogni altra lingua conosciuta o raggiunta da Joyce (ivi compreso non solo l’italiano ma anche il dialetto triestino: chissà quanti non-italiani leggendo “riceypeasy” penseranno ai “risi e bisi” qui evocati consapevolmente da Joyce).
La storia di questo libro inimmaginabile era cominciata nel 1922, un anno dopo l’uscita di “Ulysses”. Fu allora che Joyce prese ad alludere a un nuovo progetto: per iscritto vi si riferiva con il disegno di un quadratino; quando ne parlava, lo chiamava Work in progress, il Lavoro in corso. Nel 1928 mise in palio mille franchi per chi avesse indovinato il titolo definitivo (il premio fu aggiudicato dieci anni dopo, un anno prima dell’uscita del romanzo). La canzone Finnegans Wake parla della veglia funebre per un ubriacone, durante la quale gli amici bevono e litigano, fanno cadere un goccio di whisky sul cadavere, che si ridesta (“vake” come nome significa “veglia” ma come verbo sta per “svegliarsi”). Joyce trasformò “Finnegan’s” in “Finnegans”, e la veglia di Finnegan diventò “la veglia dei Finnegan” o “i Finnegans si svegliano”. Né si può trascurare la circostanza per cui Finn è un gigante della mitologia irlandese, nel mito della fondazione della città di Dublino, e sempre per assonanza “Finnegan” può diventare “Finn again”: ancora Finn, in riscossa dello spirito irlandese. Come se non bastasse, c’è il latino, dove “negans” è participio presente di negare e quindi “Fin negans wake” è una veglia, o un risveglio, che nega la fine.
Il fatto è che Joyce era rimasto impressionato, letterariamente se non filosoficamente, dalla “Scienza Nuova” di Giovan Battista Vico, con la dottrina dei corsi e ricorsi e la sequenza delle ere degli Dei, degli Eroi e degli Uomini. Volle narrare un ciclo vitale ricorsivo incarnandolo però nella forma stessa del suo romanzo; non una quadratura del cerchio, ma una circolazione del quadrato, diceva: il quadrato sta per il susseguirsi di nascita, crescita, morte, rinascita. A capirlo prima di tutti fu il giovane Samuel Beckett, che di Joyce era stato anche collaboratore stretto, e quando del Work in Progress non si conoscevano che pochi tratti ne parlò così: “Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per esser letta, o almeno non solo per esser letta. Bisogna guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa”.
Nel contenuto e nelle forme espressive della narrazione fra l’Ulysses e Finnegans Wake avviene il passaggio dal giorno alla notte. Là c’era una giornata nella vita di un everyman, Leopold Bloom; qui è il sogno di un altro uomo, l’oste H. C. Earwicker. Nelle forme di un’allegoria letteraria l’Ulisse-Bloom aveva il suo Telemaco-Dedalus e la sua Penelope-Molly, e incontrava sirene, ninfe e tempeste; invece nel sogno di Earwicker le figure dei diversi livelli (narrativo, storico, geografico, mitologico) non scorrono più parallele al testo ma si fondono fra loro secondo le condensazioni tipiche del lavoro onirico. Le iniziali di Earwicker, H. C. E., stanno anche per Here Comes Everybody (Qui arriva ognuno) e per molte altre soluzioni dell’acronimo; la moglie Anna Livia Plurabelle nel nome incarna il fiume dublinese Liffey; corrispondenze numerologiche trasfigurano i dodici clienti dell’osteria di H. C. E. negli apostoli o nelle ore dell’orologio… In un mondo di trasmutazioni della materia e delle identità (i sogni, del resto, sono fatti così), la lingua medesima diventa un dispositivo di condensazione, in cui radici, etimi, somiglianze, accezioni alternative convivono nella stessa parola. Se l’Ulysses rompeva la sintassi dell’inglese e la ristrutturava, il Finnegans Wake non è più scritto in inglese, ma è un vortice, una tromba d’aria poliglotta che devasta un territorio inglese. Umberto Eco si è potuto divertire a immaginare il consulente che scrive alla casa editrice: “Per piacere, dite alla redazione di stare più attenta quando manda i libri in lettura. Io sono un lettore d’inglese e mi avete mandato un libro scritto in qualche diavolo di altra lingua. Restituisco il volume in pacco a parte”.
Lo scrittore Michel Butor ha detto: “Se noi vogliamo leggere una pagina di Finnegans Wake dobbiamo prendere molte parole in modo diverso da quello in cui sono scritte, abbandonare una parte delle loro lettere e dei loro significati possibili”. Ogni lettore fa scelte proprie e costruisce un proprio ritratto tramite il testo: “Finnegans Wake è così per ciascuno uno strumento di conoscenza intima”.
Here Comes Everybody, appunto. Forse è significativo che tra i primi joyciani a occuparsi a fondo di questo libro si siano annoverati Marshall McLuhan e Umberto Eco. L’Everybody dublinese, dall’alto del suo estremo gioco letterario, affascina gli studiosi di mass-media. Nella sua osteria allora convergono la storia, l’ostilità, l’ospitalità, l’isteria di tutti. Se fra vent’anni decideremo che si trattò di follia, già oggi sappiamo che lì c’era del mitico.
Stefano Bartezzaghi
Cinque ore al giorno per tre anni, se tradurre è un’impresa
Fu Joyce a proporre all’amico Nino Frank di tradurre in italiano l’ultimo capitolo del Finnegans Wake: “Prima che sia troppo tardi”, spiegò, “finché ci sono ancora io a capire cosa ho scritto”. Frank protestava: “L’italiano non è una lingua adatta ai giochi di parole e quel capitolo è intraducibile”. “Non esiste nulla che non possa essere tradotto”, ribatteva Joyce. Così i due presero a incontrarsi due volte a settimana per tre mesi. E, come racconta Richard Ellmann, biografo dello scrittore, era lui a spiegare l’ambiguità delle proprie invenzioni, sottolineandone la musicalità, mentre il significato del testo gli era piuttosto indifferente. Nonostante questo esordio d’autore –e benché Joyce abbia vissuto in Italia più di dieci anni, parlando la nostra lingua con moglie e figli- non esiste ancora una versione italiana completa del romanzo, che pure è stato pubblicato in francese, tedesco, olandese, portoghese, turco e perfino in cinese, giapponese e coreano. Ma la lacuna sta per essere colmata: Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, che ora escono con la penultima tranche dell’opera (proseguendo il lavoro di chi tradusse i primi due terzi), si sono impegnati anche ad arrivare alla fine. Entro il 4 maggio 2019, ottantesimo anniversario della pubblicazione del romanzo, il Finnegans Wake sarà tutto in italiano.
“Ci sono voluti quasi tre anni, cinque ore al giorno, per tradurre 70 pagine che, si fosse trattato di un testo qualunque, avrebbero richiesto sette giorni di lavoro”, spiega Terrinoni, ordinario di letteratura inglese all’Università per stranieri di Perugia. “Dopo aver affrontato separatamente ogni brano ed esserci poi revisionati a vicenda, abbiamo iniziato un lungo ping-pong di idee, proposte, compromessi: la versione finale ha continuato a cambiare fino all’ultimo, perché tradurre vuol dire provare e fallire, diceva Beckett, riprovare e fallire sempre meglio, ed è impossibile mettere la parola fine a un testo che in ogni parola condensa più significati, irradia allusioni sorprendenti, reinventa la lingua. Un testo che offre una sconfinata libertà interpretativa. Per mesi abbiamo tenuto una rubrica sul settimanale “Pagina 99”, chiedendo ai lettori di proporre la loro versione italiana di alcune frasi: sono emerse soluzioni inaspettate e spesso molto valide. Non solo, traduzioni in lingue differenti assumono significati diversi tra loro: ogni cultura accoglie ciò che le è affine. Anche perché Joyce scrive il Finnegans Wake in un impasto di almeno una cinquantina di lingue. E il fatto di utilizzare un inglese colonizzato da tanti altri idiomi è la sua geniale vendetta contro la lingua imposta all’Irlanda dai colonizzatori britannici.
Un ibridismo culturale che è alla base di tanti doppi sensi, come spiega Fabio Pedone, criticio letterario. “See capel and then fly”, scrive Joyce. E siccome Capel Street è una via di Dublino, la traduzione più ovvia –visto l’abbandono dell’Irlanda da parte dello scrittore- sarebbe “Vedi Capel e poi scappa”. Ma la frase richiama anche l’espressione “Vedi Napoli e poi muori”, che solo un italiano può cogliere. L’abbiamo quindi tradotta “Vedi Dàboli e poi fuori”, sintesi tra Dublino e Napoli, tra fuggi e muori. Esule a Trieste, Joyce assorbì il parlottio di quella società poliglotta con l’incertezza acustica di chi è confuso tra le varie lingue e le ascolta –e le fraintende- come fosse in un dormiveglia. Percezioni approssimative, ambigue, di cui si coglie soprattutto la sonorità. La più difficile da rendere in traduzione: il libro è scritto come una partitura musicale e andrebbe letto a voce alta”. “Due rigle al giorno”, aggiunge Terrinoni, “per tutta la vita”.
Antonella Barina
Questi articoli sono apparsi nel “Venerdì” di “Repubblica” del 13 gennaio 2017.