Jane Austen, “L’abbazia di Northanger”
Ne “La Lettura” dell’8 maggio 2022, supplemento culturale del Corriere della Sera, alle pp. 22-23 Emanuele Trevi analizza questo romanzo della scrittrice giudicandolo un capolavoro.
Si intitola “La divina Jane Austen” il bel saggio introduttivo di Liliana Rampello a questo Meridiano della Austen, e chi potrebbe seriamente obiettare qualcosa? La mente di Jane Austen è un prodigio, facilmente associabile ad alcuni attributi tipici della divinità: la perfezione, l’onnipotenza, e soprattutto l’insondabilità. Impossibile capire fino in fondo, come sanno tutti i suoi lettori, cosa pensa del mondo che crea, con che criteri lo giudica –ammesso che lo giudichi.
In modo abbastanza singolare –visto che la destinataria prevalente è l’amata sorella Cassandra- nemmeno le lettere (pur così gremite di notizie e notiziole) ci offrono una chiave psicologica attendibile. Austen sembra proprio una di quelle creature destinate a passare per il mondo senza che nessuno possa affermare di averle veramente conosciute. Su una cosa possiamo mettere la mano sul fuoco: amava quello che faceva, e nulla le era più estraneo del dilettantismo. Come era accaduto un secolo e mezzo prima di lei a Madame de La Fayette, che aveva inventato il romanzo intimo in senso moderno, e come molto dopo accadrà a Elsa Morante, la grandezza artistica di Jane Austen ci stupisce soprattutto perché sembra nata interamente da sé stessa, come una Minerva auto-generata: se la psicologia ha poco da dire, ancora meno a riguardo ci offrono la storia del romanzo o quella sociale, semplici cornici del miracolo.
A quindici anni, dell’arte che l’avrebbe resa immortale, Jane aveva già capito tutti i meccanismi fondamentali: scriveva in prosa come Mozart suonava alla stessa età. Gli scritti giovanili raccolti in questo Meridiano ne fanno fede: sono meravigliose ruote che girano a vuoto, già scintillanti della loro impeccabilità di ninnoli narrativi. Una cosa è la grammatica di un’arte, un’altra il genio, che matura misteriosamente nelle botti dell’esperienza, del disincanto.
Il grosso del volume è occupato dai primi tre romanzi: “L’abbazia di Northanger, Ragione e Sentimento, Orgoglio e pregiudizio”: tre realizzazioni assolute dell’arte narrativa, che stentarono, per varie ragioni estrinseche, a venire pubblicati: cosa che sembra impossibile a noi come sembrava impossibile ai suoi tempi a Jane Austen, che conosceva bene il valore della sua merce. Non si tratta di una vera trilogia, ma questi libri, iniziati a metà dell’ultimo decennio del ‘700, nella classificazione tradizionale sono definiti “Steventon Novels”, dal nome del villaggio natio dell’Hampshire dove furono immaginati e composti (così come gli altri tre romanzi portati a termine, ovvero “Mansfield Park, Emma, Persuasione”, sono i “Chawton Novels”, dal nome dell’ultimo domicilio).
Uno dei tanti meriti di questa nuova edizione è quello di avere affidato a un’unica traduttrice, Susanna Basso, tutti e tre i romanzi, evidenziandone in tal modo quella che definirei una scintillante, duttilissima precisione dello stile: il frutto di un lavoro di lima che è indistricabilmente connesso alla scienza esatta delle emozioni, all’ironia implacabile, alla sagacia che snida i moventi delle azioni umane più banali. Ho maturato nel tempo una convinzione: l’italiano (dico l’italiano di oggi, non certo quello di fine ‘700) è una lingua così adatta alla Austen che, se la traduzione è ben fatta, può dare l’illusione di gareggiare ad armi pari con l’inarrivabile originale. Certi manierismi austeniani di una prosatrice come Anna Maria Ortese sono eloquenti. Il fatto è che nella nostra lingua c’è un potenziale ironico dirompente: la possibilità simultanea dell’enunciazione coerente e della sua corrosione interna.
Prima ancora di iniziare il saggio della Rampello o di verificarne il contenuto dall’indice, quando ho avuto per le mani il volume per prima cosa mi sono precipitato a leggere l’inizio di Orgoglio e pregiudizio. “E’ una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di una discreta fortuna debba essere in cerca di una moglie”: così questa scrittrice davvero divina inizia il suo capolavoro nell’inverno del 1796. So che si tratta di un gioco del tutto arbitrario più che di ragionevole critica letteraria, ma questo mi è sempre sembrato l’incipit più bello di tutti i tempi: come una miniatura gotica che all’interno della prima lettera racchiude, con la minuta precisione dei suoi smalti, l’essenziale del testo che inizia. La pietra di volta di questo romanzo, ma anche di tutta l’opera della Austen, in verità, è proprio quella verità universalmente riconosciuta senza la quale non potrebbe esistere nessuna società.
Cosa posso aggiungere io, povero recensore, l’ultimo arrivato? Un infimo margine di utilità può forse consistere nella decisa valorizzazione dell’Abbazia di Northanger, che da sempre dei sei capolavori ultimati da Jane, è un po’ la Cenerentola. Già terminato nel 1803, fu tenuto nel cassetto da un editore che, a quanto pare, non si accorse nemmeno di avere per le mani un manoscritto di Jane Austen, e lo scambiò per una frivola commedia sentimentale uguale a tante altre. Fu pubblicato postumo solo alla fine del 1817, in un volume che conteneva anche Persuasione. Grave errore: perché si tratta di un’opera così geniale, così irresistibilmente comica, che dopo averla letta, sarà difficile prendere in mano un qualunque romanzo, di qualunque epoca, senza ripensare al delizioso, seducente fantasma della sua protagonista, Catherine Morland. Perché Catherine è una cugina di primo grado di due eminentissimi personaggi della letteratura mondiale: don Chisciotte ed Emma Bovary. Come i suoi più illustri parenti, Catherine ha la testa piena di romanzi: con una spiccata predilezione per i misteri, i manoscritti, i passaggi segreti del genere spaventoso, dove la verità si nasconde nei recessi di antichi e decrepiti conventi o di solitari manieri circondati da foreste impenetrabili. Come accade agli eroi di Cervantes e di Flaubert, anche in Catherine si è rotto il meccanismo che presiede alla distinzione tra le fole dei romanzi e la realtà quotidiana: l’immaginario ha invaso come un potente veleno la loro capacità di discriminazione. Tema non nuovo, che risale almeno, a volergli trovare una radice illustre, alla Francesca da Rimini di Dante.
Ma in questa famiglia di malati di romanzi, Catherine, una delle più adorabili imbecilli mai uscite dal calamaio di uno scrittore, occupa un posto tutto suo, che solo il genio della Austen poteva escogitare. Perché la malattia, nel suo caso, non prevede affatto un esito tragico, come negli altri che ho citato.
Se Don Chisciotte esala l’ultimo respiro pentendosi amaramente della sua follia, se ad Emma Bovary non rimane che il veleno per topi, le avventure di Catherine si concludono con il migliore matrimonio che si potrebbe augurare a un personaggio così pieno di grazia. Anzi, a leggere attentamente questo stupendo romanzo, siamo costretti a constatare come a volte l’inclinazione psicologica all’auto-inganno, anziché ostacolare il cammino della vita, finisca bizzarramente per generare esiti propizi.
E’ un caso lampante, la storia di Catherine, di quella che il grande critico russo Viktor Slovskij definiva l’energia dell’errore. E se fin dall’inizio sospettiamo che le cose andranno come meglio non ci si potrebbe augurare, è la maniera inimitabile con cui Jane, come una Penelope del plot, scioglie uno per uno i nodi che lei stessa ha stretto, che ci strappa puntualmente un grido di ammirazione, anche all’ennesima rilettura. Solo i mediocri si preoccupano dei finali; per i grandi come Jane Austen conta solo la maniera di arrivarci.
Emanuele Trevi