John Donne, “Un Dio geloso mi ha rubato l’amore”. Lettura di W. Siti

John Donne (1572-1631), “Un Dio geloso mi ha rubato l’amore”

 

Poiché quella che amavo ha pagato il debito estremo

alla Natura, ed è morta al di lei bene e al mio,

e l’anima fu rapita in cielo troppo presto,

la mia mente è tutta fissa alle cose celesti.                                               4

Ammirarla quaggiù ha affilato la mia mente

a cercarti, Dio; così i fiumi rivelano la fonte;

ma anche se ti ho trovato e hai placato la mia sete,

una sacra assetata idropisia ancora mi consuma.                      8

Ma perché dovrei chiedere più amore, mentre tu

corteggi la mia anima, per la sua offrendo la Tua?

E non solo hai paura che io conceda

il mio amore a Santi e Angeli, cose divine,

ma dubiti e temi nella tua tenera gelosia

che il mondo, la carne e il Diavolo ti buttino fuori.                    14

 

Since she whom I lov’d hath payd her last debt

to Nature, and to hers, and my good is dead,

and her soule early into heaven ravished,

wholly on heavenly things my mind is sett.                                               4

Here the admyring her my mind did whet

to seeke thee God; so streames do shew their head;

but though I have found thee, and thou my thirst hast fed,

a holy thirsty dropsy melts mee yet.                                                8

But why should I begg more love, when as thou

dost wooe my soule, for hers offring all thine:

and dost not only feare least I allow

my love to Saints and Angels, things divine,

but in thy tender jealousy dost doubt

least the world, fleshe, yea Devil putt thee out.                          14

 

da “Sonetti sacri”, Componimento 17, 1617

 

Non sempre la poesia è melodia, dono, leggerezza; talvolta è fatica, complessità, passione dell’intelligenza. John Donne (il più bravo tra i poeti inglesi del ‘600 che furono chiamati “metafisici”) fu criticato dagli stessi contemporanei, e poi lungo tutto il ‘700, per la difficoltà e irregolarità dei suoi versi: si scrisse che “meritava di essere impiccato per il mancato rispetto degli accenti”. Sul piano del contenuto lo si accusò di eccessiva e arrogante oscurità, insomma di essere un intellettuale ambizioso che si dedicava alla poesia senza averne la grazia. Se guardiamo questo sonetto (metricamente di tipo inglese, cioè formato da due quartine su due rime e da una sestina con quattro versi a rima alternata e un distico baciato) notiamo numerose sconcordanze tra gli accenti delle parole e quelli che sarebbero obbligati dalla pentapodia giambica: al v. 3, per esempio, bisogna leggere “ravishèd” per ragioni di rima, il v. 2 è così pieno di stop and go che non si sa dove appoggiare la voce, il v. 7 sembra troppo lungo, eccetera. Si ha la netta impressione che più che il canto a lui interessi il ragionamento, e che tratti la gabbia metrica come se fosse un cilicio. Il punto di partenza è tipicamente petrarchesco: la moglie Anne More, amata appassionatamente per 17 anni, è morta di parto a soli 33 dando alla luce (morto) il loro dodicesimo figlio.

Questa morte gli ha fatto capire la caducità degli affetti umani e lo ha avvicinato all’amore divino. Il v. 2, di difficile interpretazione per l’anomalia di quel pronome (hers) prolettico che sta al posto dell’aggettivo (her), significa probabilmente che lei, morendo, ha privato se stessa della vita e lui dell’amore (ma alcuni lo leggono come se fosse ancora riferito a “pagare il debito”: alla Natura, e a se stessa in quanto femmina, essendo appunto morta di parto). Come nella tradizione, la donna conduce a Dio perché è una scintilla di divinità scesa in terra, affina la mente degli amanti e li ingentilisce. A Donne però questo non basta: se Dio è la sorgente dell’amore, e dunque dovrebbe placare qualunque sete d’infinito, ciò nonostante lui la sete ce l’ha ancora come succede agli idropici, anzi questa idropisia è sacra. C’è dunque una sacralità che si oppone a Dio? Dio è come un innamorato che si sia messo in concorrenza con la moglie: offre tutto se stesso in cambio dell’anima di lei che si è portato in cielo, ma teme che la sua offerta sia respinta. Un Dio insicuro? A Petrarca sarebbe parsa una bestemmia. Donne proveniva da una famiglia cattolica e si era convertito all’anglicanesimo, nel 1615 era diventato Cappellano Reale –gli anglicani rimproveravano ai cattolici di dare troppo peso ai santi e agli angeli, quasi fosse una forma di idolatria. Ma Donne, personalmente, fornisce a Dio ancora più motivi per essere geloso: il mondo la carne e il diavolo, cioè le tentazioni terrene, non sono mai morti del tutto dentro di lui. Nell’ultimo dei sonetti sacri ammette che i propri “accessi di devozione” vanno e vengono “come una febbre terzana”.

L’elemento centrale della sua poesia è il dubbio: vive profondamente gli sconvolgimenti filosofici e scientifici della sua epoca. L’esistenza stessa di Dio è messa in forse, le scoperte astronomiche scardinano l’ordinato sistema tolemaico, quelle mediche suggeriscono un diverso rapporto tra corpo e anima. Donne è un temperamento carnale, il suo platonismo somiglia a quello di Michelangelo; anche dopo che è diventato un ministro della Chiesa esprime le cose spirituali con un immaginario materialista: in un altro sonetto sacro dice a Dio “non sarò mai casto, se tu non mi violenti”. Traduce i più delicati momenti dell’emozione in metafore concrete, di un’evidenza aggressiva; di due innamorati che si guardano teneramente scrive “gli sguardi infilzano i nostri occhi su un doppio filo”. Assomiglia al quasi coetaneo Shakespeare, e come lui concepisce la vita in termini di scontro drammatico. Qui, nel nostro sonetto, si confronta alla pari con Dio: mi hai tolto la donna che amavo e io mi piego alle convenzioni religiose, ma sappi che non mi hai convinto del tutto anche se ti sto rassicurando che non ti tradirò mai. Sembra il discorso di certi melliflui luogotenenti shakespeariani.

Quello che nel resto d’Europa si chiama concettismo barocco, cioè un’arguzia spesso puramente retorica di parallelismi e paradossi (usando paragoni teologici per illustrare l’erotismo e viceversa, o metafore prese dall’astronomia, dall’ottica, dalla botanica), in mano a Shakespeare e a Donne si trasforma nell’idea che il mondo intero è un organismo vivente di cui non siamo che un atomo; l’amore diventa un’esperienza cosmica o biochimica. Il matrimonio per Donne è un legame ultraterreno proprio perché fisico, un pegno di certezza; se dopo la morte della moglie è nervoso anche con Dio significa che lei era la bussola (l’asta fissa del compasso, come dice in un’altra poesia, capace di chiudere il cerchio di lui che va in giro). Per questo la sua poesia, criticata dai contemporanei, è stata riscoperta e rivalutata nel ‘900 da poeti (come Montale ed Eliot) che cercavano una lirica in cui pensiero e sensazione fossero alleati.     

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 9 marzo 2014, p. 56