Quando si combatte per il grano in Ucraina
La lotta per le risorse alimentari in Ucraina ha molti precedenti. Per non parlare delle feroci razzie medievali.
Ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera del 5 giugno 2022, lo storico Gastone Breccia così commenta –alla luce dei precedenti storici- la razzia russa del grano ucraino
Gennaro Cucciniello
Razzia e conquista rappresentano due tipi diversi di guerra offensiva. La prima, in particolare, può essere considerata lo strumento più antico di quella che viene definita guerra economica, ovvero l’uso della forza per attaccare i punti deboli dell’economia dell’avversario, in modo da raggiungere (se possibile, con limitato spargimento di sangue) gli obiettivi politici del conflitto. Oggi, in Ucraina, è più una questione di razzia che di conquista: lo scopo è indebolire il nemico attraverso la distruzione di una parte del suo territorio e il saccheggio delle risorse alimentari, per poi costringerlo ad accettare la tutela della Grande Russia. Intanto il grano resta nei porti, o il nuovo raccolto rischia di non essere mietuto quando arriverà a maturazione. Come in tante guerre del passato.
Nella primavera del 1918, dopo la travolgente offensiva di Caporetto e la delusione per la mancata vittoria sul Piave e sul Grappa, l’Austria-Ungheria si trovò di fronte a una scelta difficile: sarebbe stato saggio sfruttare l’uscita dal conflitto della Russia (3 marzo 1918, trattato di Brest-Litovsk) per rafforzare il fronte italiano restando sulla difensiva, ma il vecchio impero asburgico rischiava di crollare senza nemmeno bisogno di un’ennesima spallata da parte del nemico, e una strategia attendista si sarebbe quasi certamente rivelata rovinosa. Mancava il pane: il blocco imposto dalle potenze dell’Intesa aveva ridotto la popolazione alla fame; anche le razioni distribuite ai soldati arrivavano a coprire appena la metà del loro fabbisogno calorico e le diserzioni si moltiplicavano. L’occupazione dell’Ucraina non aveva portato per il momento alcun beneficio: il grano era ancora da seminare, e soltanto all’inizio dell’autunno il nuovo raccolto –che comunque si prospettava assai scarso a causa delle vicende belliche- avrebbe potuto rendere meno drammatica la situazione alimentare dell’impero.
La mancanza di cibo costrinse gli austro-ungarici a pianificare una grande offensiva per conquistare almeno una parte della Pianura Padana in tarda primavera. Agli uomini che si preparavano ad assaltare la linea del Piave venne ricordato che oltre le trincee nemiche c’erano i campi fertili del Veneto e della Lombardia, dove era maturo il grano che avrebbe sfamato l’impero, le sue armate e la sua popolazione, mettendo a tacere la propaganda disfattista dei nazionalisti e dei socialisti rivoluzionari.
Il 15 giugno 1918 quasi un milione di uomini, appoggiati da 6500 pezzi di artiglieria, andarono all’assalto delle posizioni italiane: vennero fermati sul Grappa, sul Montello e tra i canali nel bassopiano oltre il Piave. La cosiddetta battaglia del Solstizio terminò con la decisiva sconfitta dell’esercito austriaco, respinto sulle posizioni di partenza dopo cinque giorni di furiosi combattimenti. Come scrisse allora il tenente di artiglieria Fritz Weber, “intuiamo tutti che l’Austria-Ungheria ha combattuto la sua ultima battaglia. La lotta ci è costata 200mila tra morti e feriti e una quantità gigantesca di materiale bellico. Davanti a noi sta, ora, un avversario al quale la vittoria restituisce fiducia in se stesso; alle nostre spalle una patria dissanguata, povera e ormai consapevole del suo destino. A una potente forza armata, che per quattro lunghi anni aveva combattuto valorosamente, è stata spezzata la spina dorsale”.
Sul Piave, nel giugno delo 1918, si combatté anche per il raccolto che maturava nei campi della Pianura Padana. Nulla di strano: la battaglia del Solstizio è soltanto una delle tante combattute per il grano attraverso i millenni. La coltivazione dei cereali risale a circa 10mila anni fa: ha dato agli esseri umani i mezzi per una crescita demografica senza precedenti, che li ha portati a dominare il pianeta, ma li ha costretti a una vita sedentaria, rendendoli più vulnerabili agli attacchi esterni.
L’agricoltura, infatti, ha consentito di accumulare risorse, ma ha anche imposto sforzi enormi per rendere i campi fertili e sicuri: chi lavorava la terra doveva accettare di vivere in un sistema sociale ed economico complesso, fortemente gerarchizzato. Nelle città tra il Tigri e l’Eufrate, già nel IV millennio a.C., si iniziarono a raccogliere le eccedenze alimentari necessarie per realizzare opere idrauliche e fortificazioni, senza le quali l’orizzonte del grano non poteva sopravvivere. Sotto lo sguardo di nuove divinità, e dei sacerdoti che si facevano garanti della loro benevolenza, contadini e soldati iniziarono a combattere agli ordini di un sovrano per difendere i campi coltivati.
E’ una premessa necessaria: perché il grano rappresenta da molte migliaia di anni non soltanto uno dei beni primari prodotti dall’uomo, ma uno degli obiettivi delle sue guerre. Lo spazio occupato dagli agricoltori, infatti, è stato oggetto fin dalla prima età del bronzo di incursioni condotte inizialmente da semplici bande, poi da veri e propri eserciti, che muovevano dalle zone montuose o semiaride meno densamente popolate verso le pianure irrigate dai grandi fiumi. Spesso gli invasori si accontentavano di depredare il territorio, ma occasionalmente avevano la capacità e la volontà di trasformarsi in conquistatori, cambiando stile di vita e, nel giro di qualche generazione, acquisendo spesso i tratti caratteristici della cultura dei sedentari.
In età medievale si intraprendevano campagne anche a vasto raggio per dare il guasto al nemico, come si legge nelle cronache italiane del XII e XIII secolo: sradicare i frutteti, bruciare le messi nei campi, avvelenare i pozzi; quando possibile, distruggere i raccolti per impedire che fossero trasformati in ricchezza grazie al commercio; infine, colpire la popolazione destinata a produrre beni massacrando i civili, e quindi terrorizzando i superstiti e costringendoli ad abbandonare le proprie sedi.
Esempio tipico di questa brutale forma di guerra economica furono le cosiddette cavalcate (chevauchées) degli eserciti inglesi durante la guerra dei Cent’anni (1337-1453): incursioni ad ampio raggio compiute da forti contingenti di truppe a cavallo che avevano come obiettivo la distruzione delle risorse del nemico. La più famosa fu la Grand chevauchée guidata dal Principe Nero, il figlio di re Edoardo III d’Inghilterra, che percorse oltre mille chilometri attraverso l’Armagnac e la Linguadoca tra ottobre e novembre del 1355. L’armata a cavallo inglese avanzò suddivisa in tre colonne, che procedevano grossomodo parallele, per ampliare al massimo il territorio a cui dare il guasto (to be laid waste: è la stessa espressione, anche etimologicamente, delle cronache medievali italiane), mantenendosi però a una distanza tale da potersi sostenere reciprocamente in caso di resistenza nemica. Gli inglesi bruciarono circa cinquecento villaggi e piccole città in quella che era considerata allora la terra più ricca d’Europa; si preoccuparono di distruggere anche tutti i mulini a vento, in modo che il grano sfuggito alla razzia non potesse comunque essere trasformato in farina.
Le testimonianze coeve sugli effetti della Grande Cavalcata del 1355 sono impressionanti: migliaia di uomini e donne passati a fil di spada, le campagne spopolate, le strade e i mercati deserti, l’uva lasciata a morire sui tralci. I campi non vennero né arati né seminati: la popolazione superstite andò inevitabilmente incontro alla carestia; il gettito fiscale del regno di Francia subì un danno gravissimo. Ma non sufficiente: dare il guasto al territorio nemico non è mai sufficiente per vincere una guerra. Nemmeno nell’epoca dei bombardamenti strategici dal cielo.
Le Cavalcate medievali erano campagne di distruzione delle risorse nel quadro di un conflitto più vasto, combattuto con mezzi tradizionali –battaglie campali, assedi. Uno dei più celebri conflitti dell’età antica, la guerra del Peloponneso tra Sparta e Atene (ciascuna alla testa di una lega di poleis, città alleate) è invece un perfetto esempio di guerra economica condotta fino alle estreme conseguenze. Sparta era una potenza terrestre, e il suo esercito –senza dubbio superiore in combattimento, che per questo gli ateniesi rifiutarono- invase ripetutamente il territorio nemico, sperando di indurre l’avversario alla resa attraverso la distruzione delle sue risorse alimentari. Ma gli Ateniesi dominavano il mare, e le lunghe mura che collegavano Atene al porto del Pireo permettevano di rifornire la città di viveri essenziali nonostante gli Spartani la stringessero d’assedio. La guerra si trascinò per 25 anni, con varie fasi ma senza risultati decisivi, finché Sparta dovette risolversi ad accettare l’aiuto economico della Persia –il vecchio comune nemico dei Greci- per costruire una flotta e strappare il controllo dell’Egeo agli Ateniesi (404 a.C.): solo allora questi ultimi vennero costretti alla resa. E fu loro nuovamente consentito di importare grano.
L’occupazione permanente di un territorio comporta difficoltà che di rado gli aggressori sono capaci di affrontare: persino i mongoli di Gengis Khan e dei suoi successori, che nel XIII secolo crearono il più grande impero della storia, utilizzarono una strategia di devastanti razzie a vasto raggio, alle quali seguiva una forma di controllo indiretto sui nemici sconfitti. Proprio i russi, dopo la distruzione di Kiev (1240), conobbero e accettarono quel tipo di sottomissione a distanza, prima di riuscire a recuperare la propria indipendenza con Dmitrij Donskoj, principe di Mosca e Vladimir fino al 1389.
Gastone Breccia