La cavalcata di Tamerlano

La cavalcata di Tamerlano

Carismatico e crudele, nato nel 1336, il condottiero turco-mongolo assoggettò gran parte dell’Asia con le sue campagne militari.

 

Come una meteora. A riassumerla, l’avventura di Tamerlano è tutta qui. Il conquistatore delle steppe che assoggettò in pochi decenni gran parte dell’Asia. Per poi sparire, rapidamente, risucchiato dal tempo e dagli eventi. Tamerlano –occidentalizzazione del turco-persiano Timur-i-lang, Timur lo zoppo- si inserì insomma nella storia del mondo come fattore straordinario, fuori dalle logiche consolidate, come scrive oggi, in una poderosa biografia dedicata proprio al condottiero e pubblicata da Salerno, Michele Bernardini, tra i maggiori esperti internazionali di storia iranica e del Centro Asia medievale. Creatura titanica Tamerlano lo fu certamente, immaginato spesso come un semidio, proveniente da un oltre-mondo, dotato di potenza soprannaturale, che in appena trent’anni invade e conquista un territorio immenso, con un’espansione che dal suo fulcro nel centro dell’Asia si amplia a raggiera, fino al sultanato indiano di Delhi, alle terre –oggi russe- dell’Orda d’Oro, al nascente impero ottomano. Con una sequenza di vittorie, di violenze, di immaginario guerresco che ne trasfigura la biografia, modello del dio della guerra, dal profilo affascinante e satanico, paragonato ad Alessandro Magno, a Gengis Khan, a Napoleone o, con occhi più recenti, a Josif Stalin.

Il racconto di Bernardini ripercorre passo dopo passo questa straordinaria vicenda. A partire da un dettaglio, di importanza non secondaria. Dal corpo stesso di Tamerlano. Tra il 16 e il 24 giugno 1941 un’équipe dell’Accademia sovietica delle Scienze ne fa aprire la tomba, nel suo mausoleo a Samarcanda in Uzbekistan: un gesto dalle molteplici implicazioni, non solo scientifiche ma fortemente politiche, che fu letto, dalle popolazioni locali, come una violenta profanazione, tanto che si arrivò a credere che la contemporanea aggressione nazista contro l’Urss fosse conseguenza di questo atto sacrilego.

Ma torniamo al corpo: lo scheletro era quello di un uomo di una certa statura, di circa un metro e settanta, con un’affezione cronica al gomito destro che gliene impediva il movimento; con i segni di una ferita da freccia alla spalla destra; con un malanno certificato alla gamba destra, da cui la zoppia, che ne aveva compromesso anche la spina dorsale; e due gambe ricurve, frutto dell’abitudine ad andare a cavallo fin dalla più tenera età. Si procedette anche oltre, con la ricostruzione del volto: asiatico, di tipo mongolico, con gli occhi a mandorla, ma affetto da una plagiocefalia, ovverossia una deformazione del cranio avvenuta in età infantile che, verosimilmente, ebbe delle conseguenze in età adulta.

E’ un identikit efficace da cui partire per tracciare un profilo della sua storia. Nasce l’8 aprile 1336 (736 dell’Egira per i musulmani) nell’antica regione della Transoxiana, nei pressi della città di Kish, non lontano da Samarcanda e dalle rive dell’Amu Darya, oggi Shahr-i-Sabz nell’attuale Uzbekistan. La madre era di origini tutt’altro che nobili, cosa che generò in Tamerlano un doppio e profondo sentimento che condizionò fortemente la sua psicologia: da un lato, di inferiorità, “tanto da limitarsi ad assumere per sé il titolo di “amir”, comandante, emiro, senza mai attribuirsi quello di “khan”, evidentemente perché consapevole e intimorito dalle proprie origini”, che lo spinse a combinare spesso matrimoni con donne di alta stirpe mongola; dall’altro, di rivalsa, di ambiziosa e coerente scalata al potere e al successo con ogni mezzo, anche il più violento e spregiudicato. E il padre? Si chiamava Taraghay, appartenente ad uno dei cinque clan della tribù turco-mongola dei Barlas, vicina a Gengis Khan: un clan non certo egemone, che soffriva, come attestano diverse fonti,”di indigenza economica e inconsistenza politica”.

La giovinezza di Timur dovette essere travagliata, trascorsa a cavallo: tipico esempio di principe nomade, con vari e autorevoli predecessori, come appunto Gengis Khan. Uomini la cui capitale era la sella. Ma non di solo nomadismo si nutrì il giovane Tamerlano. Le razzie divennero il suo pane. Un ladro di bestiame che impazza su un enorme territorio frammentato che andava dal nord dell’Afghanistan fino al mar Caspio, dove l’impero creato da Gengis Khan stava andando rapidamente in pezzi, con l’emergere di nuovi clan, potentati, signori della guerra. E che stava vivendo un progressivo e tumultuoso processo di islamizzazione, con una incisiva conversione dei signori mongoli e l’integrazione fra tradizioni mongole e islamiche; con una rivoluzione radicale delle generali coordinate politico-religiose dell’intera area. Islamizzazione che, naturalmente, coinvolse anche Tamerlano che si impone come difensore dell’Islam, sebbene “praticasse una religiosità di comodo, quando non era incline alla superstizione e alla magia”.

Fu soprattutto un condottiero. Un grande e implacabile condottiero. Aveva carisma, intuito militare, doti di trascinatore, era capace di coinvolgere, nelle sue spedizioni, le genti più diverse: turco-mongoli chagatay, mongoli, tartari, turcomanni, persiani, indiani. Approfitta del clima di disgregazione, di vacanza di potere, di debolezze politiche in Asia. E, esercitando una violenza straordinaria, stravince, guidando un esercito perennemente in movimento in terre sempre diverse, sempre più lontane. Con una serie di campagne militari, Tamerlano sottomise prima il Khorazam, cioè tutto il territorio a sud del lago di Aral, e poi la regione del Khorasan. Subito dopo conquistò la città di Herat, nell’attuale Afghanistan e, nel 1383-84, Kandahar, le cui fortificazioni furono rase al suolo.

Da questa base cominciò a espandersi verso la Persia: caddero la città di Isfahan, la provincia di Fars e Baghdad nel 1393. Le scorrerie continuarono, con una campagna di saccheggi cominciata nel 1398 contro il nord dell’India, che culminò nella strage degli abitanti di Delhi, a seguito della quale i principi locali riconobbero Tamerlano come proprio sovrano. Le conquiste si spostarono ancor più verso ovest, colpendo i possedimenti siriani dei sultani mamelucchi, con la devastazione delle città di Aleppo e Damasco. Poi, attraversando l’Anatolia, le sue truppe sconfissero, nella battaglia di Ankara del 1402, i soldati ottomani del sultano Bayazid I. Stava per posare lo sguardo sulla Cina dei Ming con l’organizzazione di una nuova campagna militare, quando a Otrar, tappa di transito fondamentale in direzione della Cina, Tamerlano si spegne. E’ il 1405. Aveva quasi settant’anni, la maggior parte dei quali vissuti a combattere. Lo uccise l’estremo rigore dell’inverno che aveva cercato di contrastare, come aveva spesso fatto, ingerendo grandi dosi di alcolici. Ma non servì: per giorni rimase paralizzato nella sua lettiga. Poi diede un’ultima festa, che durò tre giorni, durante i quali non mangiò ma bevve soltanto. Seguì una violenta febbre, con la perdita dell’uso della parola. Fu, in breve , la fine.

Dopo Tamerlano, si apre un’epoca nuova. Lui lasciava poco come legislatore “e aveva limitati interessi culturali, fondamentalmente destinati a una ossessione auto-celebrativa prossima alla megalomania”. Tuttavia, la sua epopea guerresca fece da spartiacque tra due mondi, quello della dominazione mongola e l’altro della nuova Asia islamica, fase “di mutazione di assetti sociali e culturali particolari, in un quadro geografico molto vasto”. La sua stessa dinastia non durò a lungo, ma inaugurò inaspettati orizzonti politici, con uno straordinario processo di rigenerazione e la fondazione di una nuova civiltà, spesso paragonata al Rinascimento europeo, che ebbe un riferimento sorprendente in Samarcanda.

Il suo principale erede, Shahrukh (1377-1447), dopo una serie di conflitti con gli altri eredi al trono, riuscì a recuperare sotto il suo comando tutti i territori conquistati dal padre. Il suo regno segnò l’apogeo della potenza politica e dello splendore culturale dei Timuridi. Alla sua morte, la parte orientale dell’impero continuò a essere sede di una brillante civiltà con una notevole fioritura artistica, illuminata dalle scoperte scientifiche del principe Ulugh Beg (1394-1449). Ma la solidità dello Stato si logorò nelle rivalità e nelle lotte interne e l’ultimo decennio del XV secolo ne segnò il crollo. La Persia si riunì sotto il safavide Ismail e la Transoxiana, cuore del potere dei Timuridi, fu presa dagli Shaybanidi. L’ultimo dei Timuridi, Babur (1483-1530), rifugiatosi in India, restaurò però la grandezza della famiglia, fondando qui uno dei principali imperi asiatici, quello Moghul.

Tamerlano, intanto, stava intanto entrando a rapidi passi nella leggenda. Venne “interiorizzato da molti, fino a diventare un vero e proprio paradigma psicologico”, deprivato della sua storia e caricato di una dimensione interiore d’incertezza, in bilico “tra una sfera titanica quasi trascendente e il senso dell’effimera provvisorietà delle sue imprese”. Un’oscillazione di cui caddero preda in tanti, soprattutto in Occidente.

Qui l’ambivalenza di Tamerlano prese quota. Passando per una serie di personalità ognuna delle quali aggiunse un tassello nuovo a tale idealizzazione, con rimandi che hanno coinvolto, per un tempo lunghissimo, scrittori, drammaturghi, compositori, poeti, eruditi, filosofi, da Paolo Giovio fino a Jorge Luis Borges. In tanti incappano, in un modo o nell’altro, nella sua figura, trasformata però da condottiero inarrestabile e crudele in archetipo dell’eterna fluttuazione umana tra “il senso di assolutezza e la rassegnazione che il funesto destino impone”.

                                                        Amedeo Feniello

L’articolo è pubblicato ne “La Lettura” del 22 dicembre 2022, supplemento culturale del Corriere della Sera, alle pp. 12-13.